Le Donne: una rivoluzione mai nata
di Fabrizio Marchi
Mimesis Edizioni 2007
Recensione a cura di Armando Ermini
Sgombriamo subito il campo dalla postfazione di Lidia Ravera (quella che… le torturatrici non sono donne ma uomini mascherati), tributo pagato dall'editore al dogma politically correct secondo cui non può darsi una critica al modo di essere femminile se non immediatamente controbilanciata da un parere opposto, che peraltro si limita a riproporre i soliti argomenti delle donne vittime ma portatrici di superiorità intellettuale nei confronti degli uomini, e, fra di esse, della superiorità morale di quelle "colte" e "progressiste". La verità è che l'unica differenza fra le donne "progressiste" e le altre è che le prime sono dotate di una robusta falsa coscienza, le altre, almeno, tendono ad essere più sincere prima di tutto con se stesse. Lasciamo perdere.
La parte del libro in cui Fabrizio Marchi descrive lo stato del rapporto fra i sessi in modo realistico e disincantato, e proprio per questo amaro, è secondo me la migliore.
Non si fanno sconti a nessuno. Donne e uomini sono risucchiati, ognuno con la sua parte in commedia, in un “gioco” funzionale agli interessi del neocapitalismo finanziario e consumistico.
Le donne ne hanno accettato i meccanismi in cambio di notevoli vantaggi esercitabili rispetto alla generalità degli uomini normali, ma a prezzo della reiterata subordinazione ai pochi ma determinanti maschi dominanti. Incapacità di vivere la sessualità in modo spontaneo, giocoso e privo di secondi fini, ci dice Marchi, caratterizzano il genere femminile, specie in Italia, e non si vedono all'orizzonte segnali di cambiamento. E' come se, continua, la sovrapposizione fra sessufobia di matrice religiosa (in specie cattolica) e utilitarismo capitalista, avessero provocato un vero e proprio mutamento nel DNA femminile.
Specularmente gli uomini sono indotti, per "conquistare" la femmina (in realtà per essere scelti), a competere fra di loro per dimostrare potenza, successo, ricchezza, unici fattori per ottenere il “si” dell’altro sesso, con ciò riproducendo continuamente lo schema di funzionamento psichico ed economico su cui si regge questà società che si fonda sulla mercificazione, e incatena ceti e gruppi subalterni ai corposi interessi di quelli dominanti.
Solo il recupero (o la conquista) di una sessualità libera da condizionamenti potrebbe far sperare in un sostanziale mutamento del rapporto fra uomini e donne , ma più in generale dei rapporti sociali. Una effettiva libertà sessuale, infatti, sarbbe incompatibile coi meccanismi descritti sopra, i quali fondano gli assetti di potere vigenti.
Le speranze di liberazione che il femminismo delle origini aveva suscitato sono tramontate, e la responsabilità femminile incontestabile. Così come soltanto ad una loro autentica ribellione, di cui peraltro non si vedono segni, sono affidate le speranze del cambiamento.
L'affresco di Marchi è, dicevo, amaro ma realistico. Rimangono nondimeno zone d'ombra e contraddizioni non risolte nell'impianto teorico e concettuale del libro. Provo a sintetizzarne alcune.
-Se il principio di piacere è stato "soffocato e represso praticamente da sempre" ( prima dalla religione e poi da capitalismo e dal mercato) perché la sessualità liberata sarebbe anarchica, viene da chiedersi se proprio un certo grado di controllo sociale sia in realtà la condizione necessaria per l’esistenza della società. In questo senso l’incanalamento della sessualità può essere visto come superamento del caos originario. Il tabù dell’incesto ne è un esempio.
- “Non tutto ciò che è naturale è giusto”, scrive Marchi a pag. 36. Ora, a parte l’uso di una categoria morale per riferirsi alla natura, non è chiaro se la sessualità liberata sarebbe una evoluzione della natura o un ritorno ad essa, come invece fa intravedere quando parla della nascita della proprietà privata e della famiglia, riferendosi ad Engels. A proposito del quale ci sono due osservazioni da fare. Engels riprende il lavoro di Bachofen sul matriarcato originario, che è poi lo stesso riferimento delle teoriche femministe quando vogliono dimostrare la storicità del patriarcato e la possibilità di un ritorno a una comunità libera e felice, come favoleggiano fosse quella. Ma tutti gli studi seri successivi dimostrano che il matriarcato non è mai esistito come fenomeno sociologico (se non come rarissima eccezione) essendo il potere esercitato dal fratello della moglie. Sono semmai esistite società dove vigeva il culto della Grande Madre, quelle più arcaiche e tribali. In esse la figura paterna era sbiadita e non occupava il centro dell’ aggregazione familiare. Anche il diritto, modellato sul clan, risentiva di questa impostazione psichicamente matriarcale. E’ però lo stesso Bachofen ad ammmettere che l’avvento del patriarcato fu un superamento in positivo per lo sviluppo della civiltà, per la sua dinamicità, ed infine per l’affermarsi del principio di universalità della legge, la norma valida “erga omnes”, in contrapposizione al diritto di sangue. La storia della lotta fra diritto materno e paterno, ce la racconta Eschilo nell’Orestiade.
D’altra parte, quando si riferisce ad Hobbes, ed alla delega allo stato dell’esercizio della legge e dell’uso della forza come unica possibilità di convivenza sociale, Marchi ammette implicitamente che l’umanità, se non regola i suoi impulsi primari, non può strutturarsi in società.
- Non si capisce insomma se l’uomo è un essere in sé buono ma contaminato dalla civiltà repressiva (in sostanza il buon selvaggio di Rousseau), oppure un essere che per vivere insieme ad altri esseri come lui deve limitare, incanalare, gestire pulsioni altrimenti distruttive, e di cui il sesso è una delle più importanti se non la più importante.
Qualche decennio fa la mia generazione si gettò con convinzione ed entusiasmo nelle Comuni, nelle coppie aperte e in tutto quanto faceva balenare quella possibilità di sesso spontaneo, giocoso e libero a cui si riferisce il libro. Il fallimento di quegli esperimenti, come di tutti quelli che lo avevano preceduto, ci dice che le cose non sono affatto semplici. Non lo sono perché nell’essere umano convivono impulsi e istinti contrastanti che sgorgano dalla stessa identica radice. L’unica possibilità, mi pare, è quella che il singolo e la società imparino a conoscerli e gestirli senza demonizzarli come è uso fare nell’epoca del politicamente corretto. Così dovrebbe accadere con la violenza, così con il sesso e tutto ciò che vi è connesso in termini positivi e negativi.
- Un altro punto che mi pare oscuro è quando l’autore dice che le nevrosi sono in forte aumento. Parrebbe di capire allora che il capitalismo ne sia responsabile, più ancora della Chiesa cattolica i cui principi sono ormai disattesi dalla maggioranza delle persone. Questo assunto viene però contraddetto allorchè ci si riferisce ai paesi nordici come spazi di libertà sessuale autentica assai maggiori dei nostri. Ora, non è che lì non ci sia il capitalismo. Anzi è più sviluppato che da noi, anche se mitigato dal welfare. In ogni caso quella maggior libertà e spontaneità non impedisce a quegli stati di avere il record di suicidi e depressioni, in specie fra i maschi. Qualcosa vorrà pure dire. In sostanza la dottrina della Chiesa e l’utilitarismo che domina la società capitalistica sono in contraddizione o fanno entrambi parte di uno stesso sistema volto alla repressione?
- Colpisce poi che nell’analisi di Marchi manchi qualsiasi riferimento ai padri e ai figli, che sono nominati solo per dire che per la donna essi sono l’assoluto, oggetto di un amore che lei non proverà mai per l’uomo.
Fabrizio Marchi è troppo intelligente per non capire che l’amore assoluto della madre può essere tanto positivo per il figlio quanto negativo e castrante. Da qui la necessità del padre e della sua legge, che proprio alla madre lo “strappa” per consentirgli di crescere. La famiglia tradizionale con al centro il padre, che certo non è l’eden, ha proprio questa funzione. Se si elimina o si supera, i figli resteranno proprietà materna, con le relative implicazioni per la loro maschilità. Ebbene, la famiglia implica proprio una rinuncia al sesso selvaggio e “libero” in funzione di un obbiettivo superiore. Rinuncia maschile ed anche femminile, incanalamento di energie libidiche e sessuali.
Quando questo non è, i figli o rimangono “proprietà” materna, o subentra lo Stato nella loro educazione. Sennonchè il padre non è surrogabile né dall’una né dall’altro.
- Un altro punto di criticità del libro riguarda, a mio parere, la missione assegnata alle donne nella ricerca di libertà. Forse la mia è una forzatura, ma vi sgorgo una certa assonanza con quanto sostenuto dal femminismo, secondo il quale solo dal gruppo femminile, in quanto da sempre oppresso, ci si potrebbe attendere la liberazione dell’umanità. Esistono su questo una serie di obbiezioni sia sul piano sociologico che su quello psichico, perché ancora una volta è da sottolineare che solo l’emergere dell’archetipo del padre ha permesso di contrastare e superare quello della Grande Madre. Si rischia insomma di favorire, senza volerlo, una regressione psichica a tempi pre-culturali.
- Infine la domanda fondamentale, forse alla base di tutte le altre. Fra maschi e femmine esistono, ci dice Marchi, differenze ontologiche oltre le contingenze storiche e i condizionamenti.
Sono d’accordo, ma quali? E dove e come si dovrebbero manifestare allorchè l’umanità fosse liberata dai vincoli che il potere le impone? Non ho trovato una risposta chiara nel libro di Marchi, e mi sembra questa la carenza principale. Perché alla fine di tutto, è decisivo sapere se si pensa ad un mondo in cui uomini e donne abbiano la stessa percezione del mondo, la stessa psicologia e lo stesso modo di comportarsi l’un altro, oppure no.
Non che Fabrizio Marchi non sia consapevole dell’esistenza di nodi irrisolti. Il capitolo destinato alle obbiezioni dell’uomo qualunque ne è testimonianza. Il suo libro, allora, costituisce una sana provocazione ed uno stimolo all’approfondimento. Ben vengano libri come questo se faranno discutere gli uomini, su stessi e sull’altra metà del cielo.
[31 marzo 2008]