Le forme della vita

dimenticare

 

 Dimenticare Darwin
di Giuseppe Sermonti

Il Cerchio; Rimini, 2003 

«Ah, generale! Nel mondo non esiste che un problema, uno solo: ridare agli uomini un significato spirituale, delle inquietudini spirituali; far piovere su di essi qualcosa che somigli ad un canto gregoriano… Non si può più vivere di frigoriferi, di politica, di bilanci e di parole incrociate». 

Antoine de Saint-Exupéry

Crediamo che esista una bella differenza fra istruzione ed educazione. Sarebbe meglio dire: fra istruzione e formazione – intendendo però quest’ultima parola nel suo senso etimologico, e non come da documenti ministeriali. L’istruzione, nella nostra società tardomoderna, si propone di costruire individui socializzati (“buoni secondo il conformismo vigente”, direbbe Claudio Risé), ed in grado di assumere le funzioni specializzate loro richieste. L’educazione, o formazione, mira invece ad accompagnare lungo (e poi indicare) il percorso necessario affinché ogni uomo si sintonizzi con la propria natura profonda, nelle relazioni con gli altri esseri umani e viventi che formano la Comunità d’appartenenza. L’istruzione tende alla fabbricazione di individui in serie, pur nelle rispettive differenze funzionali. Da notare, inoltre, che queste differenze funzionali sono del tutto astratte, ossia indipendenti da ogni considerazione circa la missione sacrale di cui ogni uomo può essere portatore in modo diverso in questo mondo.
A volte, però, nel perfetto accordo con i concetti del pensiero dominante, l’istruzione va più in profondità, si propone lo “svanimento” (Jünger) delle diverse visioni del mondo. Registriamo, dunque, che, a tutt’oggi, non c’è libro di testo per bambini o adolescenti senza la famosa sequenza di immagini che fa derivare l’uomo da uno scimmione. Il tutto illustrato dalla “teoria evoluzionista”, secondo cui le forme del vivente sarebbero il combinato disposto di mutazione e selezione, del caso e dell’adattamento. Tutto qui? Tutto qui. Se vi accontentate. Se, invece, pretendete una vostra ragione e una vostra anima «di cui non dar conto all’esattore delle tasse», potete cominciare a leggere questo libro: Dimenticare Darwin, pubblicato per i tipi Il Cerchio, Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo..
L’autore, Giuseppe Sermonti, è uno scienziato, un genetista conosciuto e stimato in tutto il mondo. Dal 1979 dirige la Rivista di Biologia/Biology Forum; è stato docente a Palermo e a Perugia. In Italia, a dire il vero, sembra meno apprezzato. E’ accusato di essere un fiancheggiatore di poteri oscurantisti da quando ha avuto la ventura di elaborare una seria critica all’evoluzionismo, in compagnia con il “Gruppo di Osaka”, che riunisce scienziati provenienti da ogni parte del mondo. Anche di recente, proprio in occasione della presentazione del suo ultimo lavoro all’Università La Sapienza di Roma, un gruppo di studenti - ammaestrati come scimmie da banco (questi sì) - non voleva lasciarlo parlare, imputandolo di essere nemico della scienza. Cosa davvero curiosa.
In Dimenticare Darwin, infatti, da uomo di scienza quale è, Sermonti dimostra alla luce delle più recenti ricerche l’inconsistenza scientifica delle basi e delle conclusioni delle teorie evoluzioniste. Con competenza scientifica, magistrale sapienza e molta poesia (forse è quest’ultima a non essergli perdonata). Abbiamo detto “teorie evoluzioniste”, al plurale, perché il neodarwinismo fondato sulla moderna biologia molecolare ha poco in comune con l’originale teoria darwinista. E già questo è un fatto sospetto. Il concetto di mutazione, ad esempio, è assolutamente sconosciuto a Darwin, mentre acquista centralità per i neodarwinisti molecolari, che lo ricollegano al loro Dogma Centrale, il quale assegna al DNA il governo assoluto della vita. In altre parole: esiste un’unica Teoria dell’Evoluzione, ma, storicamente, diverse spiegazioni della stessa. Commenta Sermonti: «Succede, a volte, nella scienza, che, per spiegare un fenomeno, vengano esplorati processi e costruiti modelli che lo risolvono, anche al di là del richiesto. Ma alla fine si scopre che quel fenomeno per cui abbiamo così tante spiegazioni, quel fenomeno non c’è».
Ciò che accomuna gli evoluzionisti del Novecento a Darwin è l’idea della Selezione Naturale come origine della specie. La variabilità (dovuta secondo i neodarwinisti a casuali “errori di stampa” del DNA) porta all’evoluzione solo grazie alla Selezione Naturale. Questa, secondo i teorici del caso e dell’adattamento, cambierebbe le forme e le specie. Sermonti, e con lui i “dissidenti” dell’evoluzionismo, non negano affatto il concetto di Selezione Naturale (non lo faceva neppure il vescovo Wilberforce, l’avversario di Darwin). Ma la Selezione che opera in natura ha in realtà una funzione opposta a quella attribuitale dagli evoluzionisti vecchi e nuovi: è riequilibratrice, stabilizzante, conservatrice. Elimina le anomalie, dà stabilità alla specie. Le “furbizie dell’adattamento” sono, per l’appunto, furbizie, destinate a far ritornare gli esseri viventi nel solco del loro destino. «La natura vivente non è un gioco in borsa né tanto meno una partita alla roulette. Che il caso vi abbia la sua parte non si può negare, ma che esso vi faccia da padrone, insieme all’opportunismo locale, è una pretesa senza fondamento. Essa servirebbe a spiegare l’irresolutezza delle specie, il loro inquieto vagare, il loro graduale convertirsi l’una nell’altra. Ma nessuna di queste cose esiste nel repertorio della natura».
L’evoluzionismo, inoltre, si nutre di un pensiero molto pratico (economico), che ci viene propinato anche in tutti i documentari televisivi: ogni parte di un animale o di una pianta sarebbe fatta per uno scopo preciso. Non si è però in grado di spiegare come una rondine abbia potuto dotarsi di ali: «è difficile immaginare come se la sia cavata una rondine a metà strada, e perché mai avrebbe insistito tanto su una pista senza traguardo, non potendo certo sapere di essere una rondine predestinata e senza aver mai visto l’obiettivo del suo penoso percorso. E poi, qualcuno ha visto la quasi-rondine o qualche paleontologo ce ne ha offerto il fossile?». I parametri dell’adattamento e dell’utilità, poi, non spiegano le enormi differenze fra le specie. E non può farlo neppure la biologia molecolare perché «le grandi differenze non sono nei geni». Mentre la differenza tra piante analoghe con fiori di colore diverso è inscritta chiaramente nel DNA, ci sono forme viventi diversissime portatrici di uno stesso DNA (il bruco e la farfalla, per esempio). Le mutazioni genetiche, dunque, non distinguono le specie, non disegnano la meraviglia delle forme. Le quali, in verità, interessano poco ai neodarwinisti molecolari, ai teorici della vita assoluta e manipolabile, che non conoscono i nomi delle piante e degli animali, e pretendono di ridurre «l’intelligenza della Natura» alle loro «astuzie da laboratorio».
In Dimenticare Darwin Sermonti, con scrupolose argomentazioni (bellissime le pagine sul “mimetismo” a torto strumentalizzato dagli evoluzionisti, poetiche le riflessioni sulle spaventose bocche degli insetti, spietata la denuncia degli aggiustamenti dei dati molecolari per renderli compatibili con le scoperte paleontologiche…), rifiuta il dogmatismo della Teoria del Caso e dell’Adattamento ed auspica la nascita di una scienza che sappia spiegare le differenze tra le specie, senza calpestare le forme della vita, e negarne il senso. Una scienza che non confonda la grandezza dell’innato con le miserie del “congenito”, che «fa subito pensare a una tara, a un embrione abortito o a una bruttezza primordiale» da cui il progresso ci deve liberare.
Scrive l’autore, in conclusione del suo prologo: «Per le riserve che nutro nei confronti dell’Evoluzionismo sono stato accusato d’essere un “creazionista”. Non lo sono: se me lo si permette, aspirerei soltanto ad essere una creatura».
Anche noi aspiriamo a tanto. Con o senza permessi.

Paolo Marcon