La strada

di Cormac McCarthy (2002, 148 p.)

a cura di Armando Ermini 

Ha scritto su Il Foglio Mariarosa Mancuso che nell’ultimo capovaloro di Mc Cormac c’è il senso dell’essere maschi e padri. Non scrive quale, ma non potrebbe più chiaro. Salvare il mondo dalla fine definitiva, difendere fino in fondo le residue speranze di vita.
Dopo l’apocalisse (atomica?): paesaggi, cose, uomini, tutto è trasfigurato, grigio, bruciato, abbandonato, in decomposizione fisica le cose, fisica e psichica le persone. Una “terra desolata” in cui un padre e il suo bambino si mettono in cammino con poche cose per arrivare al mare, con la speranza che lì vi sia ancora una scintilla di vita possibile. Per strada si devono procurare il cibo e difendersi dai predoni, bande di umani dediti al saccheggio, all’assassinio ed anche all’antropofagia. Sono soli, loro due, perché la madre non ha resistito allo strazio ed al dolore e si è suicidata.
Mc Cormac ci ha abituati a storie forti, drammatiche, in cui il confronto fra il bene e il male non è mai sfumato, ed in cui la violenza fine a se stessa e priva di senso, amorale ancor più che immorale tanto è penetrata e introiettata in ogni ganglo della vita, sembra vincere, e con lei il male, l’Anticristo.
Eppure esiste un rovesciamento di prospettiva rispetto ad altri suoi romanzi, ad esempio Meridiano di sangue. Là, nelle terre di frontiera fra USA e Messico, lo scenario in cui agiscono gli uomini è ancora quello che conosciamo. Sole, neve, piogge, colori, alberi, animali, paesaggi. Uno scenario di vita insomma, anche se talvolta cruda quanto può essere la natura. Sono gli uomini, invece, che sembrano aver smarrito il calore del cuore. Da una parte la luciferina sete di sapere del demoniaco Giudice, dall’altra uomini e donne che vivono con indifferenza ora come aguzzini spietati ora come vittime predestinate, quasi non importasse loro della propria vita e di quella altrui.
Ne La strada, invece, la scintilla e la volontà di vita è nell’uomo, quel padre col suo bambino, mentre è il pianeta ad essere definitivamente morto. Come se il male supremo che l’umanità ha inflitto alla terra ed a se stessa, fosse riuscito a risuscitare speranza e volontà, a non far morire l’amore. Il quale però non è buonismo né pietismo. Implica scelte dolorose e ferite. Quelle che il padre dovrà infliggere al figlio costringendolo, per la sua sopravvivenza, a rinunciare al mondo infantile dove vige il principio di non contraddizione ed il bene si coniuga solo con se stesso. E’ tenera e commovente la fede del piccolo verso il padre anche quando compie azioni in apparenza crudeli che la sua anima vergine non può afferrare, e insieme insiste di essere rassicurato sul fatto che loro sono “buoni”. Torna, ne “La strada”, il rapporto salvifico fra padre e figlio come in “Non è un paese per vecchi”, allorché il vecchio sceriffo Bell racconta un sogno in cui il padre stava andando avanti per accendere un fuoco da qualche parte in mezzo a tutto quel buio e quel freddo, e che quando ci sarei arrivato l’avrei trovato ad aspettarmi. E torna con lo stesso simbolo, il fuoco che scalda e illumina. Ce la caveremo papa? Si, ce la caveremo. E non ci succederà niente di male. Esatto. Perché noi portiamo il fuoco. Si perché noi portiamo il fuoco.

[23 novembre 2007]