Gran Torino

Un film di Clint Eastwood. Con Clint Eastwood, Bee Vang, Ahney Her, Christopher Carley, Austin Douglas Smith, John Carroll Lynch, William Hill, Chee Thao, Choua Kue, Brooke Chia Thao, Scott Eastwood, Xia Soua Chang, Cory Hardrict, Geraldine Hughes, Brian Howe, Brian Haley, Dreama Walker, Nana Gbewonyo, John Antony, Doua Moua, Sarah Neubauer, Lee Mong Vang.
Genere Azione, colore 116 minuti. - Produzione USA 2008. - Distribuzione Warner Bros Italia

a cura di Armando Ermini 

Quasi un archetipo maschile filtrato attraverso la cultura americana, Walt Kowalsky , il personaggio creato da Eastwood ma che potrebbe anche essere di Cormac McCarthy. Penso, ad esempio, allo sceriffo Bell di “Non è un paese per vecchi” (il libro, non il film che ne rende solo in minima parte lo spessore). Ad esso lo accomunano uno sguardo sgomento sulla violenza insensata del presente e l’attaccamento ai valori della tradizione, famiglia, responsabilità paterna e virile, senso della giustizia e volontà di perseguirla, visione netta di ciò che è bene e ciò che è male. Ma a differenza di Bell, personaggio tutto sommato lineare, Kowalsky è un uomo non pacificato con se stesso. Da un lato gli avvenimenti che, soldato in Corea, lo hanno visto protagonista e spettatore, dall’altro l’incapacità a comunicare coi figli e con il loro mondo di “non valori” (significativa la scena in cui il figlio taglia velocemente la telefonata paterna perché impegnato a “fari i conti”), lo hanno segnato e lacerato per sempre. La scomparsa della moglie sembra rinchiuderlo definitivamente in una maschera difensiva rancorosa e solitaria, xenofoba e razzista contro la comunità orientale che è cresciuta nel suo vecchio quartiere un tempo abitato da bianchi, e contro tutti quelli, il prete ad esempio, che ai suoi occhi di soldato che ha visto e dato la morte, gli appaiono insulsi damerini che pontificano sul nulla che sono. Gli fanno unica compagnia un cane , la splendida auto Gran Torino, un modello Ford del 1971 che cura con immensa passione, e le sue armi. Uniche relazioni sociali qualche uscita al bar con vecchi conoscenti e dal barbiere, che danno a Eastwood la possibilità di mettere in scena un vero, piccolo capolavoro di antropologia del maschile fatta di atteggiamenti e duelli verbali tanto rudi e competitivi quanto in fondo complici e affettuosi che avevo già trovato, questa volta in salsa mediterranea, nel libro “Modi bruschi” di Franco La Cecla (Bruno Mondadori, 2000).
Solo di maschera si tratta, però, perché non appena il ruvido Kowalsky viene a contatto con l’ingiustizia e la sopraffazione incarnata dalle bande giovanili che infestano il quartiere e che minacciano il giovane Tao e la sorella, gli “odiati” orientali vicini di casa, il vecchio soldato è costretto, anche suo malgrado, a rivedere i vecchi pregiudizi. Fino a farsi padre putativo del ragazzo e insegnargli la virilità, quella vera e antica che partendo dalla cultura materiale del fare e del saper fare con le mani che strutturano il carattere, non disdegna, quando è necessario per una buona causa, l’uso della forza fisica ed anche delle armi. Senza lasciarsi interdire dalle regole formali della legalità, ma anche senza farsi travolgere dallo strumento e dal senso di potenza che trasmette. Anzi, l’uso delle armi molto “particolare” che farà e che non svelerò, è teso a catalizzare la violenza su di sè fino al sacrificio estremo, per salvare il giovane Tao dalla spirale infernale in cui sarebbe caduto.
Credo che il miglior commento finale al bellissimo film di Clint Eastwood possa essere quello di un’amica “progressista” e dal passato di impegno femminista che ho casualmente incrociato al cinema:
C’è bisogno di eroi che sappiano quali sono le cose giuste, e le sappiano fare.
Non male per una brechtiana. Avrei voluto dirle: “Avete fatto tanto per distruggerli e ora li rimpiangete”. Ma ero ancora troppo preso dall’emozione del film.

[17 marzo 2009]