Hardball

di Brians Robbins
Con Keanu Reeves e Diane Lane - USA 2001

A cura di Armando Ermini

La trama, in apparenza, non è delle più originali. Si tratta di una storia di riscatto individuale e sociale per mezzo dello sport, questa volta il baseball. Connor O’Neill (K. Reeves), un bianco di circa trent’anni che vive di espedienti, scommesse clandestine, si trova nei guai per forti debiti di giuoco che non riesce a saldare, e in Usa, lo si sa, si rischia la pelle. Un amico che ha fatto fortuna come broker finanziario e che allena, dice lui per restituire alla società un po’ di quanto ha ricevuto, una squinternata squadretta di baseball composta da bambini di uno dei tanti ghetti neri delle città americane, gli viene in aiuto. A causa del lavoro dovrà assentarsi per un certo tempo, e se Connor lo sostituirà come coach, gli passerà 500 $ alla settimana, coi quali potrà far fronte ai suoi impegni almeno parzialmente. Connor riesce pian piano a conquistarsi la fiducia dei ragazzi, si appassiona al suo impegno e alla fine non solo riuscirà a trasformare quel gruppo di ragazzini cenciosi, litigiosi e indisciplinati, in una squadra vera e vincente, sono solo riscatterà se stesso e uscirà dal giro dei balordi, ma troverà anche l’amore della bella Diane Lane, che interpreta la parte di maestra nella scuola frequentata da quei ragazzi.
La filmografia statunitense ci offre storie simili con una certa frequenza. Il fatto è, però, che in questa il baseball mi sembra solo un pretesto, un mezzo per parlar d’altro, ossia dell’importanza del riferimento maschile per la crescita psichica e identitaria dei giovani maschi e, reciprocamente, della necessità per l’uomo adulto che voglia uscire da uno stato di eterna adolescenza, di esercitare la funzione paterna, anche se “solo” in senso spirituale.
Quei bambini vivono tutti in famiglie senza padre. Non esistono, in quel “non luogo” desolato e squallido, padri e uomini adulti (e si intuisce che sono in galera o chissà dove), ma solo madri e figli, donne, bambini, e giovanotti riuniti in bande aggressive e violente. Anzi, in tutto il film i maschi adulti proprio non ci sono, ad eccezione del protagonista e di due altre figure, il presidente della lega scolastica di baseball e un altro coach, che però rappresentano il potere burocratico e invadente dell’Istituzione, quello che per mezzo di codici e codicilli, norme cervellotiche e cavilli vari, uccide l’istinto, l’entusiasmo e la spontaneità dei ragazzi. Di ben altro, ci dice il regista, hanno bisogno: di spinta, di stimoli, di esempi, anche di regole certamente, ma che siano da loro intuite come giuste e utili, e quindi rispettate anche se implicano rinuncie.
La partita, quella della crescita e quella sul “diamante”, si gioca interamente fra maschi. L’universo femminile in cui sono cresciuti, madri e insegnanti, non può che assistere, fare il tifo, offrire la propria disponibilità affettiva ed al massimo dare consigli di saggezza che temperino l’irruenza ed una certa unilateralità maschile, di grandi e piccini. Come quando, ad esempio, le mamme di alcuni bambini, interpellate da Connor/ Revees, acconsentono che i loro figli giochino a baseball a condizione che si impegnino a leggere il libro proposto dall’insegnante, o come quando quest’ultima sollecita il nuovo allenatore affinché anch’egli si faccia parte attiva nell’incentivare la lettura e nel discuterne coi ragazzi.
Proprio sul libro è centrata una scena che ci offre la chiave di lettura del film. Uno dei ragazzi sta in silenzio, è riottoso ad esprimere la propria opinione su ciò che ha letto, ma alla fine si lascia andare ad un commento pieno di rabbia e di amarezza. Quel libro, dice, è una gran porcata, una falsità, perché “dove vivo io nessun padre è mai tornato”.
Madri e insegnante capiscono bene, o comunque intuiscono, che non possono fare di più, che il futuro dei propri figli e allievi si giocherà nel rapporto con un altro maschio adulto che sappia guidarli e trasmettere loro un sapere maschile a cui non possono accedere, e non per demerito.
Battute verbali e immagini servono al regista per trasmetterci questo concetto, come quando la maestra giunge al campo di giuoco e si rivolge a Connor dicendogli : “spero che vinciate la vostra partita” [la frase forse non è esatta, ma il concetto e le parole in grassetto si]. Dice “vinciate” e non “vinciamo”, come a riconoscere il suo essere si trepidante e partecipe emotivamente, ma esterna alla vicenda. O come quando la cinepresa inquadra la tribunetta del pubblico, gremita di madri, fratelli più piccoli e sorelle che tifano, si entusiasmano o soffrono, ma sono visivamente separati dal campo di gioco da una robusta rete metallica, che disegna lo spazio maschile.
Si tratta dunque di un film sulla paternità, o meglio sull’assenza di paternità, e sulla figura del mentore, dell’insegnante uomo che supplisce a quell’assenza. Quello fra il coach e i ragazzi non è però un rapporto unilaterale, esclusivamente dall’alto verso il basso. E’ piuttosto un rapporto di scambio reciproco. Se Connor trasmette ai ragazzi il senso di appartenenza, il rispetto per i compagni e gli avversari, lo spirito di corpo, la rinunzia al privilegio e il rispetto di regole condivise, questi fanno riscoprire all’adulto la purezza dei sentimenti, la passione e l’entusiasmo innati in ogni essere umano e che le vicende della vita uccidono troppo presto. Ma soprattutto, per la fiducia che nutrono in lui e la delusione che si legge nei loro occhi quando Connor accenna a rinunziare, gli fanno apprendere, nonostante la tragedia che colpisce uno di loro, che la vita è bella ed acquista di senso solo quando non è vissuta interamente per se stessi, ma si offre, si dona agli altri. “Imparate dai fanciulli”, disse Gesù