A generare si è in due, e non solo nel concepimento, anche per Galimberti
A cura di A. Ermini
Su La Repubblica del 10/12/2006, Umberto Galimberti commenta un saggio della psicanalista Sophie Marinopoulus , “Nell’intimo delle madri. Luci e ombre della maternità” (Feltrinelli, 2006) sulla maternità oggi. Vi si parla dell’ambivalenza del sentimento materno, oscillante fra amore e odio, dovuto alla sensazione di espropriazione da sé che produce un figlio in grembo, ed ai sensi di colpa che ne conseguono. Il sentimento di scissione viene rimosso tanto è conturbante e contraddittorio rispetto all’immagine dell’amore materno senza ombre che amiamo rappresentarci. Eppure, scrive Galimberti, andrebbe riconosciuto e accettato come naturale, anche dalle stesse madri, perché bene e male, luce e buio, sono sempre profondamente intrecciati e non dovremmo avere paura di scrutarli e riconoscerli, come troppo spesso accade oggi, anche quando ci limitiamo a classificare nel rassicurante campo della psichiatria le azioni generate dal prevalere del sentimento negativo, come ad esempio per gli infanticidi.
Oggi questa situazione psichica di scissione, più femminile che maschile, è complicata dall’isolamento in cui vive la famiglia moderna mononucleare. I sentimenti, le contraddizioni, non hanno modo di sfociare all’esterno, essere in certo senso ammortizzati entro la rete protettiva offerta un tempo dalla comunità e dal confronto con gli altri. Altro elemento di complicazione è la trasformazione dei rapporti all’interno del nucleo familiare, dove l’uomo ha perduto l’autorità di un tempo, che comunque garantiva stabilità e punti di riferimento, e stenta a trovare una nuova dimensione diversa da quello di procacciatore di soldi in cui è stato, o si è, relegato.
Il rimedio suggerito, prosegue il pezzo, è allora quello di «accudire le madri», perché, per la forma che ha assunto la nostra società, forse, per molte donne, troppa è la metamorfosi del loro corpo, la rapina del loro tempo, l´occupazione del loro spazio fisico ed esteriore, interiore e profondo. E quando l´anima è vuota e nessuna carezza rassicura il sentimento, lo consolida e lo fortifica, il terribile è alle porte, non tanto come atto inconsulto, ma come svuotamento di quelle risorse che fanno argine all´amore separandolo dall´odio, allo sguardo sereno che tiene lontano il sentimento truce.
E allora non basta che i padri assistano al parto, come è costume dei tempi, molto più utile assistere madre e figlio nel logorio della quotidianità, accarezzare l´una e l´altro per creare quell´atmosfera di protezione che scalda il cuore e tiene separato l´amore dall´odio. Lavoro arduo, che tutti coloro che amano conoscono in quella sottile esperienza dove incerto è il confine tra un abbraccio che accoglie e un abbraccio che avvinghia e strozza.
La natura contamina questi estremi. E la madre, che genera e cresce nell´isolamento e nella solitudine, conosce quanto è fragile il limite. Non sa più cosa accade dentro di lei, e le sue azioni si compiono senza di lei. Per questo, natura vuole che a generare si sia in due, non solo al momento del concepimento e del parto, ma soprattutto nel momento dell´accudimento e della cura.
Ineccepibile, sotto ogni punto di vista. Perché si possa realizzare l’auspicio sono però necessarie due condizioni. La prima è che le madri riconoscano quella loro particolare fragilità e la necessità di essere accudite, e proprio dall’unica figura davvero in grado di farlo, il compagno o marito, padre del bambino. Ma il riconoscimento femminile della propria fragilità costituzionale, e quindi del bisogno, quanto è possibile in un mondo che ogni giorno cerca di convincere le donne della loro onnipotenza, del loro dover essere autonome, indipendenti, autosufficienti, soprattutto dal maschio?
La seconda condizione è che i maschi/padri siano consapevoli dell’importanza della loro funzione protettiva verso la moglie e i figli, che non può non conferire loro non dico autorità, ma certo autorevolezza , e soprattutto la perduta centralità nella famiglia, che significa una presenza attiva che assegna a ciascuno il proprio posto. Oggi non sembra sia più così. Certamente gli uomini hanno grandi responsabilità della loro emarginazione, ma limitarsi a constatarlo non aiuta a cambiare la situazione. A parte ogni discussione sulla famiglia ( e ci sarebbe molto da discutere con chi considera la sua forma tradizionale un noioso retaggio oscurantista), una società sana ed equilibrata ha il dovere di rivalutare le peculiarità del padre, e proprio a partire dall’inizio della vita. I governi e i comuni potranno inventarsi tutti i corsi che vogliono, potranno incentivare i permessi di paternità e escogitare qualsiasi altro marchingegno, ma se al padre continuerà ad essere negato perfino il diritto di parola sulla nascita del proprio figlio, che non significa affatto decisione esclusiva e esproprio della madre, nulla servirà allo scopo. Accudire e proteggere non può significare solo accondiscendere alle decisioni materne ma anche potersi assumere le responsabilità che gli competono nella specifica situazione di fragilità femminile . Altrimenti il padre continuerà a percepirsi sostanzialmente inutile una volta eseguito il suo “lavoro” di fuco fecondatore, un attore secondario di una vicenda che vede coinvolti solo madre e figlio. Al massimo si convincerà di poter aspirare ad essere una buona vice-mamma, ma non andrà lontano.
Coloro che ogni giorno alzano la bandiera del “primato femminile nella procreazione” e invocano orgogliosamente l’attribuzione alla donna di ogni decisione, avrebbero di che riflettere, se solo lo volessero.
[ 15 dicembre 2006]