“Chi ha visto me ha visto il Padre” (Gv 14, 9)
a cura di Marcello Menna
Davanti al Figlio di Dio incarnato, ciò che più viene messo violentemente in evidenza è il fatto che gli uomini non conoscono il Padre, né sanno quindi essere suoi figli:
“Voi – dice Gesù ai Giudei – non conoscete né me né il Padre, se conoscete me, conoscereste anche il Padre mio” (Gv 8, 19).
Fin dall’origine l’uomo ha contristato la sua coscienza filiale e, nonostante ogni elezione, è profondamente incapace di comprendere e vivere la propria dignità filiale.
Perciò Cristo, il Figlio, vivrà nel mondo come l’estraneo, il non-amato, perché è un mondo che ha rifiutato la paternità di Dio:
“Se Dio fosse vostro Padre, voi certamente mi amereste, ma voi avete per padre il diavolo” (Gv 8, 42).
Gesù ai suoi connazionali dirà: “io onoro il Padre e voi mi disonorate” (Gv 8, 50). Ecco tutta la novità e la tragicità della situazione.
Ora c’è finalmente nel mondo chi si prende cura dell’onore del Padre (il Figlio, appunto), ma è su di lui che cade irrimediabilmente il disonore.
Eppure, paradossalmente, proprio in ciò è nascosta la redenzione: poiché il figlio onora il Padre “facendo sempre la sua volontà”, ma questa – in quanto volontà di un Padre che continua ad amare fedelmente tutti i suoi figli – è volontà che il Figlio si renda totalmente solidale con i suoi figli perduti, fino a caricarsi dei loro stessi peccati.
Il Figlio quindi onora il Padre proprio lasciandosi disonorare e assumendo su se stesso la responsabilità del proprio disonore.
E’ esattamente questa potenza filiale di Cristo, di ricondurre tutto (anche il peccato e i peccatori) al rapporto amoroso col Padre, il senso più profondo dell’affermazione riferita da Giovanni: “Chiunque commette peccato è schiavo del peccato. Ora lo schiavo non resta per sempre nella casa, ma il Figlio vi resta per sempre. Se dunque il Figlio vi libera, sarete liberi davvero!” (8, 34-36).
Cristo svela pienamente l’uomo all’uomo proprio svelando il mistero del Padre e del suo amore. Queste parole contraddicono nettamente quella pseudo-cultura che fa dell’abolizione del padre il punto di forza per il riscatto della dignità dell’uomo.
L’uomo – dal primo Adamo all’ultimo ribelle – porta in sé una colpa d’origine: tende a percepire la dipendenza filiale da Dio come schiavitù, come sottrazione di libertà, e conseguentemente tende a percepire l’autorità del Padre come una gelosa ed inattaccabile proprietà, una ricchezza che gli è, per principio, negata. Per questo la presenza di Cristo, in quanto presenza del Figlio, scatenava “l’ostilità di peccatori” (Ebr 12, 3).
I Giudei non riuscivano ad accettare il Suo dirsi “Figlio di Dio”, per l’assoluta incapacità di accorgersi della “filialità” di Cristo. Quando Gesù parlava del Padre e perfino quando parlava agli uomini del loro essere figli, non aveva come punto di riferimento un qualunque rapporto umano, per quanto ripulito e potenziato.
Ma traeva il suo insegnamento da una sorgente misteriosa e a Lui solo nota: da quella carità trinitaria in cui l’Autorità è amore del Padre che si dona totalmente al figlio e l’Obbedienza è un continuo ricevere, da parte del Figlio, l’assoluta libertà di essere-se-stesso:
il discepolo vede in Gesù il Padre, perché egli vede che questo Gesù vive di qualcos’Altro, che tutto il suo essere è uno scambio con l’Altro, una provenienza da Lui e un riandare a Lui. Egli vede che questo Gesù in tutta la Sua esistenza è “Figlio”, che nel più intimo riceve se stesso da un Altro e vive se stesso come “accettato”.
In Lui è presente il fondamento nascosto; nell’azione, nei discorsi, nella vita e nei dolori di colui che è veramente Figlio si può vedere, ascoltare, avvicinare questo sconosciuto. Il fondamento sconosciuto dell’essere si rivela come Padre.
Aveva quindi ragione l’apostolo Filippo quando diceva: “Signore, mostraci il Padre e ci basta”. Ma aveva ugualmente ragione Cristo di rispondergli: “da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto? Chi ha visto me ha visto il Padre” (Gv 14, 9ss).
Questo infatti era il senso di tutta l’avventura umana di Cristo: vivere davanti ai discepoli come uno che accettava dal Padre, ad ogni attimo, tutto il proprio essere (1). Tutti gli altri insegnamenti erano per Gesù come cenni fuggevoli di questa intima auto-contemplazione in cui Egli contemplava il Padre.
Solo così possiamo comprendere ciò che Egli dice sulla ricchezza insondabile e sul potere che il Padre continuamente mette nelle Sue mani (“affinché tutti onorino il Figlio come onorano il Padre” – Gv 5, 23).
Fino ad esprimersi nei termini della più stretta e sostanziale unità: “Io e il Padre siamo una cosa sola (Gv 10, 30). “Io sono nel Padre e il Padre è in me” (Gv 14, 11).
Nota: (1) : Nella stessa riflessione teologica sulla nascita di Cristo e sul Suo concepimento verginale, spesso viene indebitamente trascurato il fatto che il primo significato del dogma della Verginità di Maria sta appunto nella decisione di Dio di rivelarsi come Padre, nel Figlio, documentandosi come tale – attraverso il segno della verginità della Madre – fino a livello corporeo.
Fonte: “La rivelazione della paternità di Dio” di Antonio Sicari, 1981
(dal periodico "Communio", novembre-dicembre 1981)