Intervento alla conferenza sulla paternità

Dopo la lettura del comunicato stampa con l’ Appello per il padre, il nostro intervento  si è così articolato:

 Nel cercare di approfondire la genesi e le motivazioni dell’ Appello vorrei partire da quella che a me pare una evidente contraddizione.  Oggi al padre si rimproverano, spesso a ragione,  disimpegno e assenza, mancanza di autorevolezza e di empatia verso i figli. Basta parlare colle madri per rendersi conto con quanto vigore e quanta sconsolatezza vengono mossi questi rilievi. Basta osservare la produzione televisiva, (fiction e pubblicità), e cinematografica, basta leggere le più diverse ricerche statistiche per rendersi conto di quanto i padri sono messi oggi sotto accusa.

Nello stesso tempo però si è da un lato teorizzato l’inutilità o la fungibilità della funzione paterna, e dall’altro è stato portato a compimento pressocchè definitivo il processo di espropriazione delle sue funzioni, affidate o alla madre o assunte direttamente da enti sostitutivi.

Ora, delle due l’una,  o il padre è diventato un inutile retaggio del passato e quindi non c’è motivo di rimproverargli l’assenza, oppure occorre che venga arrestato questo  processo di espropriazione, promuovendo  un clima culturale che riconosca l’essenzialità del ruolo paterno,  lo traduca in leggi che con quel riconoscimento siano in sintonia, e quindi aiuti ed incoraggi i padri.

LA FUNZIONE PATERNA

La contraddizione nasce dal fatto che nonostante la scomparsa del padre  sia “necessaria” per i meccanismi di funzionamento della società dei consumi fondata sul principio materno della soddisfazione dei bisogni  (peraltro sempre più artificialmente indotti),  l’ assenza del padre, come principio psichico e come presenza attiva, genera patologie sociali ed individuali  che iniziano ad essere avvertite in tutta la loro gravità.

Sul piano simbolico e psichico il padre è colui che trasmette al figlio  la prima ferita, la interruzione della simbiosi del bambino con la madre, essenziale per lo sviluppo di una vita adulta e libera.

Solo attraverso il dolore di quella separazione il figlio potrà fortificarsi ed  affrontare le prove e le rinunce che la vita comporta,  senza perdersi nel pendolo fra rinuncia/sottomissione da un lato, e ribellismo distruttivo fine a sé stesso dall’altro.

La ferita paterna, l’uscita dal mondo materno della soddisfazione del bisogno materiale, che Erich Neumann  individua nel simbolo circolare dell’Uroboro, il serpente primordiale  all’interno del quale l’uomo vive in uno stato simbiotico, indistinto,  è quindi anche ri-nascita, individuazione. Ossia iniziazione alla vita psichica adulta, autonoma, apertura alla vita sociale e di relazione col mondo.

Sul piano concreto il padre è colui che accompagna il figlio nel suo divenire. Se ne  fa promotore e garante  attraverso il suo esempio ed il suo insegnamento, e quindi anche, necessariamente, custode ed educatore, ossia portatore della “norma” che seppure sgradita all’apparenza, è richiesta e accettata dal figlio se ed in quanto percepita come atto d’amore e non come puro esercizio d’autorità.

 

Non è questa la sede per ripercorrere in dettaglio le tappe della perdita  delle funzioni paterne,  né indagare sulle teorie che hanno accompagnato e indotto questo processo. E’ tuttavia importante sottolineare che si è sviluppato di pari passo con la secolarizzazione della società.

Dieter Lenzen sostiene ( Alla ricerca del Padre, Laterza 1994) che il punto di svolta si situa nella separazione operata dalla Riforma Protestante fra Regno di Dio e Regno del Mondo,  con l’assegnazione a quest’ultimo dell’esperienza matrimoniale e familiare.

Reciso questo legame, viene meno l’immagine del padre come “rappresentante sociale della legge del Padre Divino” nonché quella di “custode familiare per conto dell’ordine naturale e simbolico divino” (Risè, Il padre l’assente inaccettabile. San Paolo 2003). Nel momento in cui il romanzo familiare si svolge interamente nel campo dei fenomeni terreni ed umani, la ferita impressa dal padre che strappa il figlio dall’orizzonte materiale (e materno)  del bisogno,  per proiettarlo nella dimensione verticale dello spirito e della costruzione di un progetto di vita che vada oltre la corsa affannosa all’appropriazione  di oggetti, perde di senso.

Non esiste più alcun motivo perché le funzioni pedagogico/educative siano appannaggio paterno. La vita familiare tende così ad accentrarsi interamente sulla figura materna.  Parallelamente,  le necessità del processo produttivo spingono nello stesso senso, ritagliando al maschio/padre un ruolo essenzialmente economico,  per trasferire dapprima sulla madre poi sempre più su enti ed istituzioni statali  (scuola, organizzazioni del tempo libero, etc), gli  altri compiti paterni.

Non solo, una volta separata la paternità dalla sua funzione numinosa, la sua stessa autorità appare sempre più come ingiustificata, arbitraria ed oppressiva.

  

 

LA RIVOLTA CONTRO IL PADRE

C’erano dunque ormai tutte le condizioni perché si realizzasse  quella “rivolta contro il padre” che ha subito una brusca accelerazione negli ultimi trent’anni.  Nel momento in cui delle antiche,  complesse, attribuzioni paterne appariva solo l’aspetto autoritario/repressivo, anche quest’ultimo, ormai privo di senso, doveva essere spazzato via, con l’obbiettivo di costruire una società libera,  antiautoritaria, e non repressiva, alle cui fondamenta porre l’espansione continua dei “diritti” individuali.  Sul piano legislativo tutto ciò si è tradotto in leggi che  nella loro applicazione concreta hanno favorito l’estraniarsi del padre dalla famiglia e dal rapporto coi figli. Sto parlando della legge sul divorzio, che, nata per sanare situazioni insostenibili ed offrire una nuova possibilità di ricostituirsi una vita familiare, è stata applicata, complice una rete burocratica di assistenti sociali, avvocati, psicologi, giudici (tutti interessati all’espansione della litigiosità coniugale), in modo sistematico contro i padri, sottraendo loro la possibilità di mantenere un proficuo rapporto psichico e materiale coi figli. E sto parlando, soprattutto, della legge sull’aborto, che in nome dell’autodeterminazione femminile, elimina tendenzialmente ogni influenza paterna  dalla scena della riproduzione della specie, privandolo persino del diritto di parola sulla vita del proprio figlio.

Eliminazione che si sta completando con la complicità di una scienza che, dietro il paravento dell’inesistente  “diritto alla maternità” (che è invece una “possibilità” offerta dalla natura), risponde in realtà a precise logiche di creazione di nuovi mercati e di possibilità di profitto.

Le tecniche di inseminazione artificiale ed i futuribili esperimenti sulla riproduzione senza l’intervento del principio fecondante maschile, hanno tutti lo stesso segno. Quello di ridurre il maschio, nella migliore delle ipotesi, a puro, anonimo, donatore di sperma,  e di eliminare il padre dalla scena familiare. 

Se in Italia queste problematiche sono ancora in parte attutite, non dobbiamo tuttavia farci illusioni.

Il nostro futuro, a meno di cambiamenti di rotta, è tracciato dagli Stati Uniti, che notoriamente anticipano i fenomeni  in quanto nazione pilota dell’occidente.

 

PATOLOGIE DELLA SOCIETA’ SENZA PADRE

La società senza padre non è però quell’Eden che si era sperato. Al contrario, si stanno manifestando gravi patologie, a livello individuale e sociale, proprio a partire dalle condizioni materiali stesse in cui si svolge la vita del fatherless. Claudio Risè, nel suo libro già citato,  riporta alcuni dati statistici riferiti agli USA, secondo i quali il 90% dei senza dimora non avevano il padre in famiglia, il 70% dei giovani delinquenti ospitati in istituzioni statali e ben l’ 85% dei carcerati provengono da famiglie senza padre, mentre la percentuale dei giovani suicidi con padri assenti ammonta al 63% del totale. Ancora, sempre in Usa, le statistiche ci dicono che ben il 72% degli adolescenti omicidi, il 60% degli stupratori, il 70% dei detenuti a lunghe pene, è cresciuto in case senza padre, mentre la percentuale dei ragazzi senza padre che a scuola manifestano comportamenti violenti è di 11 volte superiore a quella dei ragazzi che vivono in una famiglia tradizionale. L’assenza di padre, d’altra parte, manifesta i suoi effetti anche sulla sicurezza , per cui ben il 69% dei bambini vittime di abusi sessuali vivono in case dove il padre non c’è.

Tutti questi dati statistici ci rimandano, direttamente o indirettamente, alla essenzialità della funzione paterna, simbolica e concreta. L’ incapacità di sopportare la perdita o la negazione, l’incapacità alla rinuncia consapevole in vista di progetti di più ampio respiro (in favore della soddisfazione istantanea del bisogno, da perseguire  a qualsiasi costo), la difficoltà a rapportarsi colla norma, l’oscillazione fra sottomissione incondizionata ed esplosione incontrollata di violenza ed aggressività, anche contro sé stessi, sono tutti sintomi patologici di una persona cui è mancata la presenza e la guida, affettuosa e severa, del padre.

Più in generale, anche quando le patologie non sfociano in fatti di interesse penale, possiamo osservare una perdita complessiva di vitalità adulta, del gusto per l’autonomia e per la sfida,  che si manifesta, ad esempio, nel rimanere più a lungo possibile nella casa genitoriale, o in un preoccupante aumento della sterilità, per cui quasi il 40% dei maschi bianchi occidentali  è incapace di fecondare.

 

INVERSIONE DI TENDENZA?

In questo panorama sconfortante è però da notare che nonostante sia stato fatto di tutto per emarginare il padre,  anzi proprio per il disagio sociale che la sua assenza provoca, la sua “ricerca” da parte dei giovani non si è mai interrotta, come testimoniano diverse inchieste in cui i giovani  confrontano le immagini reali e ideali del padre. Ma, soprattutto, in questi ultimi anni diversi movimenti, in varie parti dell’occidente, stanno cercando una strada per recuperare , insieme con un’immagine positiva di padre, uno stile di vita improntato ai suoi valori ed al suo insegnamento.

Proprio laddove i guasti prodotti dalle legislazioni divorziste e abortive  sono più evidenti (Stati Uniti, Australia), fermentano movimenti che chiedono agli stati la possibilità di costruirsi un progetto di unione di coppia  vincolato in partenza a regole che favoriscano scelte mature e consapevoli. Mi riferisco alle leggi di Covenant marriage, che danno la possibilità di regolare il matrimonio civile secondo patti precostituiti fra i coniugi, diversi dalle leggi ufficiali. Mi riferisco alle richieste di coinvolgere a pieno titolo i padri nell’educazione e sulle decisioni relative ai figli di coppie separate, che anche nel nostro paese hanno trovato una sponda legislativa e politica nel disegno di legge sull’affido condiviso.  Mi riferisco ai casi sempre più frequenti di giovani uomini che si oppongono all’aborto deciso unilateralmente dalla donna, e che sono disposti ad assumersi tutte le responsabilità dell’educazione e della crescita del bambino. Ma non sono solo gli uomini che avvertono l’urgenza del problema. E’ dei primi giorni di aprile la notizia di quella ragazzina sedicenne che ha querelato i genitori che la volevano spingere ad abortire. Evidentemente, e per fortuna, si stanno generando anticorpi nel seno stesso della società.

 

L’APPELLO

L’appello di cui ho dato lettura  si focalizza  sulle storture della legge 194 in quanto rappresenta l’esito del processo di emarginazione del padre ed insieme la sua drammatizzazione ed accelerazione finale. L’ esclusione persino del diritto alla parola sul proprio figlio ha come conseguenza una vera e propria mutazione psichica nel modo in cui la paternità e la maschilità vengono percepite, dalla società, dai maschi, dalle donne.  Le conseguenze, già descritte, svelano l’illusorietà dei presupposti  ideologici che hanno fatto da sfondo alla rivolta contro il padre.

Quello di una società senza padre come più giusta, più libera e più uguale.

Quello, coltivato anche da molti uomini, che una autentica maschilità possa esistere a prescindere dall’introiezione del principio psichico della paternità.

Quello che un’autentica liberazione femminile possa avvenire contro il principio maschile/paterno, laddove, al contrario, proprio la mancanza della sua azione equilibratrice ed emancipatrice  imprigiona   la donna  entro  l’archetipo della Grande Madre divorante.

L’ Appello si rivolge all’opinione pubblica e chiede alle forze politiche di assumersi le loro responsabilità rispetto a due problemi precisi, fra di loro strettamente connessi.

-         Favorire la possibilità , laddove esistano le condizioni minime,  che nuove vite non siano soppresse.

-         Riconoscere l’importanza sociale  e favorire l’assunzione di  responsabilità del padre,  come coautore della vita nascente e suo geloso custode.

La comunità deve avere tutto il rispetto e la considerazione necessari per gli stati di disagio che inducono all’aborto. Tuttavia, poiché nel grembo materno non c’è un grumo di cellule ma   una vita, certamente dipendente da quella della madre che la ospita, ma altra da questa., come implicitamente ammettono anche tutte le leggi sull’aborto che stabiliscono precisi limiti temporali alla sua praticabilità,  è necessario affermare che il diritto a vivere non può, almeno in linea di principio, essere subordinato a nessun altro, e che nessuno può vantare, neanche la madre, un diritto di vita o di morte su un altro essere. Ci imbattiamo, con l’aborto, in un’ altra delle contraddizioni in cui l’Occidente è immerso, in quella forse più simbolicamente significativa.  Da un lato si rimuove la morte come non senso, la si esorcizza in tutti i modi possibili e se ne procrastina artificialmente il momento, mentre dall’altro la si consente ai suoi inizi.

L’ appello per il padre, tuttavia, non vuole essere una crociata contro qualcuno o qualcosa, bensì, molto più laicamente e in coerenza ai principi da cui muove, dare  spazio e possibilità alla vita nascente, e coinvolgere il padre in questo progetto. 

Il nocciolo della proposta è chiaro: consentire al padre del bambino, la cui madre lo voglia abortire, di assumersi interamente, esentandone per sempre la genitrice, ogni responsabilità della sua crescita e della sua educazione, naturalmente quando si dimostri degno e capace. Siamo consapevoli che ciò comporta una rinuncia della donna, limitata e temporanea, al diritto di disporre incondizionatamente del suo corpo. Nella vita, però, spesso diritti diversi e tutti meritevoli di tutela, entrano in conflitto. Occorre allora che la società si faccia carico di una scelta che tenga conto di ogni circostanza ma che non rinunci, pilatescamente, a stabilire alcune priorità.

Come abbiamo detto poc’anzi, dobbiamo avere il massimo rispetto per le donne che sentono l’aborto come un trauma che le segna per la vita, ma proprio per questo non ci stanchiamo di fare loro una domanda,  alla quale non giungono risposte.  Come è possibile considerare più traumatico portare a termine la gravidanza ed affidare il figlio a colui che è coautore del suo concepimento, e con il quale si è vissuto un sia pur fugace momento d’amore, piuttosto che sopprimere quella vita?

L’ appello per  ridare al padre senso e dignità della sua funzione non è la rivendicazione di un diritto in stile simil-sindacale.  E’ semmai la rivendicazione della responsabilità maschile e paterna e di un dovere,  soltanto dal quale il diritto può scaturire come suo corollario e possibilità di compimento.

Dovere che, come noi lo intendiamo, è norma interiore, morale, non  adesione coatta alle mille leggi e regolamenti che, nati  con la modernità per sopperire alla mancanza di legge interiore e con lo scopo di un capillare controllo sociale, avvolgono ormai l’uomo dell’occidente in una inestricabile rete  burocratica.

Dovere che il padre, solo in quanto lo assume su di sé, può ritrasmettere al figlio.

Voglio citare, a questo punto, un personaggio scomodo per tutti e ormai, purtroppo, da tutti dimenticato, Pier Paolo Pasolini, che nella postilla in versi alle Lettere Luterane (Einaudi, 1976),  fa dire ad alcuni ragazzi che si rivolgono ai maestri e ai padri:

“. . . .non vogliamo essere subito già così sicuri, non vogliamo essere subito già così senza sogni.  Sciopero, sciopero, compagni! Per i nostri doveri. . “  ed ancora  . . “. . Vogliamo sorridere come i ragazzini di Balsorano . .Voi pensate ai nostri doveri chè ai nostri diritti, se vorremo, ci penseremo noi . . “

 

UN PERICOLO DA EVITARE

Per finire ritengo opportuno sottolineare un pericolo che io vedo  in questo rinnovato fervore sul padre. Che per nuovo padre, si intenda in realtà un mammo,  duplicazione in veste maschile della figura materna. Da tutto quanto è stato detto in precedenza  risulta evidente  come la femminilizzazione della figura paterna sarebbe una grave iattura sia per la confusione che ingenererebbe nei figli, sia per gli elementi di competizione che rischierebbe di scatenare nella coppia genitoriale. Il mammo, per noi,   sarebbe in sostanza fonte di aggravamento della situazione presente, anziché di sia pur parziale miglioramento.  Nulla da obbiettare sulla ricerca di maggior empatia e maggior vicinanza anche fisica del padre  verso i figli, anzi la riteniamo necessaria.

C’è però un modo al maschile ed uno al femminile di fare gesti analoghi. Un modo maschile di cambiare un pannolino ed uno femminile, un modo maschile di tenere in braccio il bambino ed uno femminile. Quello che è diverso, e tale deve rimanere, è la valenza psichica e simbolica del gesto. Il Gesto di Ettore, che il prof. Zoia ha voluto come titolo del suo libro,  lo slancio del figlio verso l’alto, verso il cielo, basta  ad illustrare quanto intendo dire. C’è in quel gesto, prettamente maschile, l’essenza della paternità. Una linea verticale dalla terra al cielo, che tuttavia non si interrompe, a simboleggiare l’unione fra materia e spirito.  Ho voluto sottolineare questo aspetto perché mi pare che il pericolo esista.   A livello istituzionale, laddove la legge sui permessi di paternità nei primi tre anni di vita del bambino mi sembra inserita nel filone delle malintese pari opportunità, quando invece i permessi di paternità sarebbero   essenziali in una fascia d’età più alta dei figli.  A livello di consapevolezza del corpo sociale, laddove sono  molti padri per primi a essere confusi sul proprio ruolo. Un aneddoto servirà a far luce su quanto intendo dire. La scena, reale, si svolge fra due insegnanti donne di un liceo romano. Una di esse si lamenta con la collega per i contrasti col marito,  relativi alla gestione della figlioletta di 4/5 anni, più o meno con queste parole: “ Con mio marito è impossibile ragionare. Vuole essere lui a decidere su tutto. Sulle scarpine e sui vestiti da acquistare, sui cibi da cucinarle, sulle amicizie. Su tutto, meno che sulle regole da imporle, su quelle devo essere io a decidere”. 

 

Voglio concludere questo intervento a nome dei Maschiselvatici con le parole di una donna, l’antropologa americana Margaret Mead. Quali che siano le opinioni sulla sua concezione della paternità come invenzione sociale, le parole seguenti, tratte da Maschio e femmina (Il saggiatore, 1962), mi sembra si attaglino bene alla situazione attuale e offrano anche una speranza ed una prospettiva.

“Così, alla base di quelle tradizioni che ci hanno permesso di conservare la coscienza della nostra umanità, v’è la famiglia, un tipo di famiglia in cui costantemente gli uomini mantengono e si prendono cura delle donne e dei bambini. In seno alla famiglia, ogni nuova generazione di ragazzi apprende ad essere sostegno adeguato e sovrappone alla mascolinità, implicita nella sua costituzione biologica, la parte di padre, che ha appreso dalla società. Quando la famiglia è abolita, come succede durante la schiavitù, in periodi di grandi sconvolgimenti sociali, durante le guerre etc. . . ., questa delicata linea di trasmissione si spezza. E’ probabile che in tali periodi  . . . . . . i vincoli biologici tra  madre e figlio ridiventino i più importanti, mentre vengano violate e falsate le speciali condizioni nelle quali l’uomo ha conservato le sue tradizioni sociali.  Fino ad ora, nelle società a noi note, le società umane hanno sempre ristabilito le forme temporaneamente abbandonate. . . . . . . Fino ad ora l’abolizione della famiglia non s’è mai prolungata tanto a lungo da annullare negli uomini il ricordo di quanto sia preziosa.”

Armando Ermini