Fuori a rubar cavalli

fuori

Per Petterson

Fuori a rubar cavalli
Parma, Guanda, 2010, pp. 247
recensione a cura di Monica Blondi

Può la ferita dell’abbandono del padre bruciare ancora a distanza di anni, quando stiamo vivendo l’ultima parte della nostra vita? Per Trond Sanders, il protagonista di questo bel romanzo di formazione, la risposta è senz’altro positiva. Fuori a rubar cavalli era l’espressione usata da lui, quindicenne in vacanza con il padre in una baita norvegese, e dal suo amico Jon, per indicare un gioco trasgressivo quanto pericoloso: catturare uno dei cavalli che pascolavano nella tenuta del ricco Barkald e cavalcarlo a pelo. È l’estate del 1948 e quella vacanza segnerà per sempre la sua vita.
Il padre aveva deciso di portarlo con sé in questo villaggio in riva a un fiume ai confini con la Svezia, lasciando a Oslo il resto della famiglia. Qui Trond partecipa ai lavori di ripristino della vecchia baita e al taglio degli alberi, trascorrendo il tempo libero insieme a Jon. L’uomo conosceva il luogo per esserci capitato per caso sei anni prima, “a caccia di un posto dove poter pensare” che avesse un corso d’acqua nelle vicinanze.
È in posto molto simile a questo che, all’età di sessantasette anni, rimasto da poco vedovo, Trond si ritira in solitudine, con la sola compagnia del fedele cane Lyra. Le sue giornate sono scandite dai lavori di sistemazione di una baita in disuso situata di fronte a un lago, dai notiziari radiofonici e dalla meticolosa preparazione dei pasti per sé e per Lyra. Durante una passeggiata notturna fa la conoscenza del suo misterioso vicino, l’altrettanto solitario Lars, uscito a cercare il suo cane. Da questo incontro cominciano a riaffiorare i ricordi di quella che fu per lui l’estate di tutte le iniziazioni. Egli, infatti, riconosce in Lars uno dei fratelli minori del suo amico Jon che, proprio in quei giorni ormai lontani, dodicenne, sparò accidentalmente al fratello gemello Odd, uccidendolo, con il fucile da caccia che proprio Jon si era dimenticato di scaricare.
Jon è colui che, trascinando il giovane protagonista in un gioco pericoloso, lo inizia al dolore. Infatti, per imitarlo, Trond cerca di catturare uno dei cavalli di Barkald ma cade e si ferisce. “Calmo e violento al tempo stesso”, rappresenta l’istinto: “Mi aveva insegnato a fregarmene, mi aveva insegnato che, se mi lasciavo andare senza pensarci troppo, potevo fare cose che non mi sarei mai sognato.” (p. 27). Dopo la morte del fratello, lacerato dai sensi di colpa, si imbarcherà su una nave e di lui non si saprà più nulla.
Verso il padre, invece, Trond prova una profonda ammirazione (“quell’uomo mi piaceva”), lo considera il suo idolo, il suo punto di riferimento. Del resto, era un uomo che piaceva a tutti: “Agli uomini piaceva mio padre, alle donne piaceva mio padre, e io non sapevo di nessuno a cui non piacesse […]. E la cosa strana è che non era come mi è capitato di vedere tante volte, in seguito, nel corso della vita, che le persone benvolute da tutti spesso sono insulse e modeste e fanno il possibile per non provocare. Mio padre non era affatto così, è vero che sorrideva e rideva molto, ma lo faceva perché gli veniva naturale, non per soddisfare il bisogno di armonia degli altri. (p. 135). Dal padre, inoltre, Trond impara l’importanza del lavoro manuale (“gli piaceva fare le cose che era necessario fare perché tutto avesse un’aria di legittimità”), della solidarietà maschile e della fiducia verso gli altri uomini. Lo vediamo in occasione del taglio degli alberi che li vede entrambi coinvolti insieme al boscaiolo Franz e ai genitori di Jon. Era un lavoro duro ma anche pericoloso: una volta tagliati, i tronchi venivano accatastati e poi liberati nel fiume, la cui corrente li avrebbe trasportati fino alla segheria; i picchetti che trattenevano la catasta venivano tolti in un colpo solo per cui era fondamentale lavorare in perfetta sintonia, pena il rischio di venire travolti.
Ciò che lo unisce al padre è anche una certa rivalità per l’attrazione che entrambi provavano per la madre di Jon, l’unica donna in quel gruppo di uomini, incaricata di portare il pranzo ai boscaioli. La sua vicinanza turba Trond, che si sente sensualmente attratto dalla donna, nonostante avesse l’età di sua madre. Per questo rimane sconvolto quando, non visto, scorge suo padre e la donna seduti su una panchina mentre si baciano ardentemente.
Fuori a rubar cavalli era anche la frase in codice utilizzata dal padre durante l’occupazione nazista della Norvegia. È Franz che svela a Trond questa parte della vita di suo padre a lui sconosciuta. La sua presenza in quella zona non destava sospetto nei soldati tedeschi che presidiavano il territorio perché i lavori di ristrutturazione della vecchia baita, di proprietà di Barkald, erano la sua copertura. Il villaggio era l’ultimo avamposto prima del confine con la Svezia, l’ultimo tratto che serviva a portare fuori dal paese messaggi e filmati della Resistenza. Anche la madre di Jon collaborava con i partigiani, percorrendo il fiume con la barca portando cibo, messaggi o fuggitivi da nascondere. E così il padre, giorno dopo giorno, si era affezionato a quei luoghi tanto da volerci tornare insieme al figlio, per poi stabilirvisi definitivamente. Infatti, alla fine dell’estate, nonostante la promessa di raggiungerlo ad Oslo dopo aver sistemato alcune questioni, accompagna Trond all’autobus ma quella sarà l’ultima volta che i due si vedranno.
Anziano, Trond va alla ricerca degli stessi elementi che costellavano lo scenario tanto caro al padre: una vecchia baita da sistemare, degli alberi, un corso d’acqua. Qui ha l’occasione di vivere nuovamente l’esperienza del lavoro manuale eseguito in compagnia di altri uomini: quando una vecchia betulla cade nel cortile abbattuta dal forte vento, è con Lars che lavora in sintonia, imbracciando ognuno la propria motosega. Trond riflette su come l’amore per i lavori manuali gli derivi dal padre: “Quello che faccio, e non l’ho mai raccontato a nessuno, è chiudere gli occhi ogni volta che devo iniziare qualche lavoro pratico che va oltre le incombenze quotidiane che tutti hanno, poi m’immagino come l’avrebbe fatto mio padre, oppure come effettivamente l’ha fatto davanti ai miei occhi, e allora lo imito finché non trovo il ritmo giusto e il lavoro diventa chiaro […] (p. 78). L’incontro con il padre avviene ogni volta che deve affrontare un lavoro, nel ricordo dei gesti compiuti dal padre. All’età di sessantasette anni Trond sente ancora bruciare dentro di sé la ferita dell’abbandono del padre, aggravata dalla mancanza di una vera elaborazione del lutto (“piacerebbe anche a me che fosse così facile, che uno potesse soltanto sentire la mancanza del proprio padre e basta”). L’ultima volta che vide suo padre l’uomo aveva quarant’anni; Trond non aveva avuto la possibilità di vederlo invecchiare (“per me non invecchierà mai”) né morire.
In quell’estate del 1948 si era sentito un privilegiato rispetto alla sorella rimasta ad Oslo: a lui il padre aveva concesso di accompagnarlo in quei luoghi tanto amati, forte del legame speciale che si era creato tra loro. Lo vediamo nella descrizione dello sguardo che padre e figlio si scambiano quando l’uomo torna a casa dopo la guerra e abbraccia moglie e figlia: “Sopra le loro spalle vidi lo sguardo di lui: dapprima smarrito e inerme, poi cercò il mio e il mio cercò il suo. Annuii leggermente. Lui mi restituì il cenno del capo con un sorriso debole, un sorriso pensato solo per me, un sorriso segreto, e io capii che da quel momento in avanti si trattava di me e lui, che c’era un patto tra noi. E per quanto fosse stato via a lungo, lo sentii più vicino quel giorno che prima dell’inizio della guerra. Avevo dodici anni e con lo scambio di un’occhiata la mia vita passò da un punto a un altro, da lei a lui, e prese un nuovo corso.” (p. 194) . Per questo si sente tradito quando il padre decide di non fare ritorno in famiglia. Nella scarno messaggio arrivato per
posta in autunno inoltrato, l’uomo si limita a ringraziare per il tempo trascorso insieme, annunciando che non sarebbe più tornato, senza una parola speciale per lui. Trond si sente tradito anche perché il padre lo lascia da solo a confrontarsi con un mondo femminile opprimente, rappresentato dalla madre che giorno dopo giorno scivola in una pesante letargia. Da adulto, Trond manterrà spesso un atteggiamento scontroso e ostile nei confronti delle donne, come lui stesso confessa.
In finale di romanzo vediamo Trond varcare il confine e recarsi in Svezia con la madre per ritirare del denaro lasciato loro dal padre, ricavato dalla vendita del legname. Denaro che la madre utilizza in parte per comprargli un vestito nuovo. Lo vediamo ammirarsi soddisfatto nello specchio del camerino e scoprirsi improvvisamente uomo. Una volta fuori, con la madre sottobraccio e stretto nel suo nuovo vestito blu, Trond si sente stranamente leggero. La ferita dell’abbandono resta ma, come gli aveva detto il padre quella famosa estate, quando si era rifiutato di estirpare le ortiche dal cortile temendo di pungersi, “sei tu che decidi quando fa male”.