Le ultime sciocchezze su Carl Gustav Jung (di Claudio Risé)

Quando Ernst Bernhard, il fondatore dello junghismo in Italia, presentò a Jung i suoi migliori allievi, futuri caposcuola della Psicologia Analitica nella penisola, il vecchio patriarca, dopo uno sguardo attento e una  lunga tirata di pipa, disse tra lo sgomento degli astanti: "Ringrazio il cielo di essere Jung, e non uno junghiano." Il significato "didattico" era chiaro: siate voi stessi, e non dei semplici discepoli.

Ma non é escluso che Jung, che come racconta il film "Prendimi l'anima", di Roberto Faenza, aveva la premonizione facile, avesse percepito che quel gruppetto di devoti qualche guaio post mortem gliel'avrebbe creato. Come per esempio quello di inventare il "mito Sabina Spielrein", una giovane schizofrenica da Jung curata e guarita da una regressione gravissima, e che però, da quando Aldo Carotenuto ha pubblicato le lettere della donna con Jung e Freud, é diventata una specie di Musa della psicanalisi ai suoi albori.
Mentre quelle lettere dimostrano piuttosto la fretta di Jung di dirottare la giovane Spielrein al maestro di Vienna, il quale dopo una collaborazione non particolarmente intensa le consiglia di rientrare nel suo paese natale, la Russia. Dove Spielrein (che aveva tra l'altro scritto un lavoro sull'istinto di morte) dopo essere scampata a una retata dei nazisti, si consegna con le figlie ai soldati tedeschi, e viene uccisa (mentre nel film appare come vittima della retata). Il film di Faenza, ha senz'altro il pregio di risparmiarci questa lettura agiografica della "paziente russa", i cui pochi scritti (che sia Freud che Jung ritenevano segnati dalla nevrosi ), sono lontani dalla genialità delle vere ispiratrici della psicanalisi, come Lou Andreas Salomé. O, per rimanere in ambito junghiano, dai lavori della moglie di Jung, Emma, raffinata conoscitrice dell'anima femminile, o della sua vera amante (non immaginaria come Sabina) e cioé Toni Wolff: personaggi di altro spessore, e solidità. L'aver lodevolmente evitato di cadere nella trappola di scambiare la sconvolta e invadente Sabina con un gigante del pensiero psicanalitico non autorizza però Faenza a presentare Jung come un collegiale alle prime armi, che dal primo scoprir di seno della fanciulla perde inesorabilmente la trebisonda, fino a rischiare di lasciarsi possedere dalla stessa sui divani dell' Opera di Zurigo.
Oltre a non essere vero, é una banalizzazione da cui il film non guadagna nulla, rischiando invece un'inutile  scivolata nel torrido filone "camice bianco - paziente assatanata". Jung era ben lontano dallo psichiatra "soft" rappresentato da Iain Glen, non avrebbe mai visto scodinzolando una mostra di Klimt come fa in Prendimi l'anima, detestava le pasticcerie, e tutti quei decor vagamente decadenti, più viennesi che zurighesi, tra i quali qui scivola come se niente fosse. Non avrebbe mai detto, rimproverando  gli infermieri per la camicia di forza messa a Sabina: "Quanta stupidità! Mi allontano per qualche settimana, e qui torniamo al Medioevo!" perché considerava quell'epoca la vetta della civiltà europea, e disse più volte di sé stesso di sentirsi un uomo del Medio Evo! D'altra parte Sabina Spielrein non era la semplice e testarda innamorata che qui appare: era una malata grave che nella sua mania di grandezza immaginava di impadronirsi del futuro della psicoanalisi, generando a Jung un figlio che avrebbe dovuto chiamarsi Siegfried, nella mitologia wagneriana   figlio di Sigmund, che é poi il nome di Freud. Quando Sabina confida a Jung il suo progetto, lo psichiatra svizzero rientra definitivamente in sé, e stende un'accurata relazione al collega viennese, pregandolo di liberarlo della paziente che, non paga di esser stata guarita, voleva un figlio da lui (e, simbolicamente, anche dallo stesso Freud). Certo, lo spettacolo, come il cuore, ha le sue ragioni. La prima delle quali dovrebbe però essere di rispettare la verità dei personaggi. Anche se scomoda e poco convenzionale. Ma proprio per questo più interessante.