La donna a una dimensione

Femminismo antagonista ed egemonia culturale
Alessandra Nucci
Marietti 1820

a cura di Armando Ermini 

Femminismo ma non solo, in questo lavoro di Alessandra Nucci. L’autrice ci accompagna in un viaggio attraverso un progetto di ingegneria sociale di cui il femminismo antagonista è parte e strumento, ed il cui fine è la realizzazione della società “perfetta”, sogno di ogni totalitarismo. Il presupposto è che la natura umana sia modificabile [quindi manipolabile. Ndr] a piacimento secondo modelli precostituiti. Non esisterebbe, dunque, un’identità di genere che si fondi sulla diversità dei corpi ed ogni differenza, a parte la conformazione fisica ritenuta ininfluente, sarebbe solo un costrutto culturale, nello specifico quello che il patriarcato avrebbe imposto come dominio maschile sul femminile. Scopo del progetto è la costruzione di una nuova tipologia umana, l’androgino, essere capace di costruirsi individualmente la propria identità al di fuori di ogni contesto relazionale e sociale. Identità che, in quanto indefinibile a priori, è però così debole da conformarsi in realtà al nuovo stereotipo proposto (o meglio subdolamente imposto), e proprio in nome della lotta contro i vecchi stereotipi. E’ l’uomo nuovo, omologato nei pensieri, nei gusti, nella percezione del mondo, strettamente funzionale al pensiero unico dominante e all’economia globalizzata che necessita di un consumatore neutro e d’identità debole o inesistente. Affinché questo progetto sia realizzabile occorre, necessariamente, smantellare la famiglia tradizionale e nel suo ambito il ruolo del padre/maschio che ne è al centro; e con essa le religioni monoteistiche, in specie quella cristiana, che la considerano a fondamento dell’ordine sociale. L’alleanza col femminismo antagonista, non a caso incentivato e abbondantemente finanziato da fondazioni e centrali finanziarie internazionali, diventa naturale. Questo infatti, in perfetta sovrapposizione con lo schema marxista, legge la storia del mondo come storia della lotta fra i generi, e la famiglia, indefettibilmente associata al patriarcato ed alla religione cristiana, come il luogo per eccellenza dell’oppressione della donna. A questo schema ideologico è inutile opporre qualsiasi dato di verità e di realtà, a partire dal fatto che è dimostrato come maschi e femmine, ancorché indottrinati in senso contrario, una volta lasciati liberi di decidere tendano sempre a polarizzarsi intorno a scelte e opzioni tendenzialmente diverse fra sessi e omogenee al loro interno. Così come è inutile opporre e sottolineare le contraddizioni interne al mondo del femminismo (1). Non si esita a falsificare la storia cercando con certosina pazienza tutte le prove o gli indizi dell’oppressione maschile e tralasciando tutto ciò che dimostra il contrario, e neanche si ha riguardo alla concreta volontà femminile quando si esprime in senso contrario all’ideologia del femminismo antagonista. In questi casi, anzi, le donne diventano un altro nemico da abbattere, un ostacolo alla pari dei maschi e loro complici.
Si lotta per l’uguaglianza ma in realtà, dice la Nucci, si vogliono privilegi, ci si batte per i diritti delle donne ma si finisce per discriminare legalmente gli uomini, si predica la parità ma si sottende che la donna è moralmente superiore.
Prendiamo il caso dell’ecofemminismo di Vandana Shiva o Rigoberta Menchiu. E’ del tutto evidente come il rispetto della natura e delle tradizioni culturali e materiali dei popoli contro la globalizzazione economica imposta dall’occidente, sia in contraddizione irriducibile con la tradizione marxista a cui si richiama un altro filone del femminismo antagonista, perché il fondatore del comunismo “scientifico” considerava lo sviluppo industriale promosso dal capitalismo borghese la condizione essenziale per la “liberazione” dell’umanità dalla sottomissione proprio alla natura. Ed ancora, si sorvola allegramente sul fatto che proprio in quelle tradizioni le stesse femministe vedono la quintessenza della subordinazione femminile. Si è contro la cultura occidentale ma non si considera che l’emancipazione femminile è progredita lì e lì soltanto. Si potrebbe continuare all’infinito, ma come dicevo, tutto ciò non può essere opposto a chi non cerca la verità ma solo la propria egemonia culturale, con ogni mezzo.
Come ogni ideologia anche il femminismo antagonista cerca di dotarsi di propri strumenti concettuali e culturali. Ha creduto di trovarli nel vago spiritualismo new age che sacralizza la natura e pone l’essere umano esattamente sullo stesso piano di ogni altra sua espressione. Spiega Rosemary Ruether , femminista di estrazione cattolica, che l’immagine di Dio Padre è una proiezione dell’io maschile trascendente che sacralizza la cultura patriarcale e rende inferiori le donne in quanto simboliche della natura, ed è perciò che non possiamo criticare la gerarchia di maschile su femminile senza arrivare a criticare e superare la gerarchia degli esseri umani rispetto alla natura. La critica al patriarcato che trascina con sé quella alla famiglia, al maschio oppressore ed infine al cristianesimo, porta il femminismo, sulla scorta delle teorie engelsiane, ad ipotizzare un’età dell’oro matriarcale al cui centro erano i culti della Grande Dea, le donne occupavano una posizione sociale preminente e l’equilibrio naturale perfettamente rispettato (2).

Resta da vedere, e a livello informativo è la parte più interessante del libro, come si tenti di imporre la nuova egemonia culturale. Scrive Alessandra Nucci, parlando della saldatura fra femminismo antagonista e ideologie totalitarie: Ma il mondo unito che non sono riusciti ad attuare con la forza Napoleone, Hitler e Stalin, potrebbe essere dietro l’angolo grazie alla coercizione soft delle strutture e delle comunicazioni di massa, se procede incontrastato il processo culturale di omologazione di cui le femministe sono uno dei principali motori nel mondo.
Gli strumenti principe sono il controllo dell’Etica, ovvero della possibilità di stabilire ciò che è giusto (3), la penetrazione sistematica in tutti gli organismi internazionali che si suppongono al di sopra delle parti e dediti disinteressatamente al bene dell’umanità (le varie agenzie dell’Onu e le ONG accreditate), ed infine una sistematica adulterazione del linguaggio per dissimulare presso i governi nazionali e le popolazioni concetti altrimenti “indigesti”. Esempio di quest’ultimo metodo è l’uso sistematico del termine “diritto alla salute riproduttiva” con ciò intendendo diritto di aborto libero e incondizionato (da usare anche come strumento di controllo demografico), oppure quello di “lotta alle discriminazioni” con ciò intendendo la legalizzazione del matrimonio omosessuale o le adozioni gay, ma è la descrizione precisa e documentata degli indirizzi e delle direttive che le agenzie Onu prescrivono sistematicamente ad impressionare di più. OMS, UNESCO, UNICEF ed in generale tutta la galassia di organismi internazionali che vi ruotano attorno ed alla cui testa troviamo sistematicamente femministe o uomini femministi, agiscono secondo un unico schema. Danno per acquisiti come naturali e incontrovertibili i loro schemi concettuali e si interrelato fra di loro ad opera di altre agenzie o segretariati incaricati di far circolare le prese di posizione di ognuna in modo tale da costituire una base di conoscenze e di politiche comuni.
La pressione per attribuirsi un sempre crescente potere decisionale a scapito dei governi nazionali e l’insipienza e cecità, quando non espressa complicità, di questi ultimi fanno il resto. Nel 2002, ad esempio, l’UE (sotto la presidenza del “cattolico adulto” Prodi) aumentò di 32 milioni di euro il suo contributo annuo alle organizzazioni internazionali che promuovono la pianificazione familiare [leggasi promozione dell’aborto. Ndr] …subito dopo che il governo Bush in Usa aveva deciso di sospendere lo stesso contributo per le stesse organizzazioni (in particolare per il Fondo delle Nazioni Unite per la Popolazione, a causa del suo comprovato sostegno alle politiche di aborto forzato in Cina). Quello dell’UE è un altro capitolo nero che Alessandra Nucci non manca di sottolineare, a partire dalla direttiva del 2001 che ribalta il principio della presunta innocenza in materia di molestie sessuali.
Si tratta insomma di un panorama impressionante al quale si oppone, praticamente sola, la Chiesa Cattolica a cui vengono infatti riservati gli strali critici più acuti.

Rimangono a mio avviso, per concludere, due interrogativi. Uno di ordine generale. Come è possibile che la colonizzazione dell’ONU e tutto quanto sopra descritto sia potuto accadere praticamente senza alcuna seria opposizione? Passi, almeno in un primo tempo, per le donne a cui è fatto balenare strumentalmente un futuro radioso di libertà (ma da chi se non dall’odiato maschio e alla fine anche da se stesse?). Ma gli uomini? Non intendo quelli al potere la cui coincidenza d’interessi col femminismo Alessandra Nucci ha ben documentato. Intendo quelli che, nei media e nel sistema di comunicazioni di massa, hanno accettato senza reagire, anzi a loro volta riproducendole, “verità” preconfezionate senza sentire il bisogno di approfondimenti e verifiche, e quelli che vivendo una normale vita di lavoro e familiare, si sono sentiti rovesciare addosso una annichilente montagna d’accuse, ed hanno voltato lo sguardo altrove piuttosto che difendere la loro dignità morale, per la quale non mancavano loro argomenti forti e di cui avevano comunque il diritto. Il libro non offre in questo caso, nessuna risposta.
L’altro interrogativo nasce dalla sibillina frase finale del libro che la Nucci riprende e, sembra far sua, da W. McElroy, femminista indipendente in aperta polemica col femminismo organizzato e ufficiale: La cultura si cambia comunicando con una persona alla volta, quindi la responsabilità e nelle mani di ognuno, o meglio, di ognuna, perché in questo caso la voce degli uomini non serve, e può prestare il fianco, anzi, a ulteriore antagonismo.
Se intende che tutto il dibattito debba avvenire all’interno del mondo femminile e che gli uomini debbano tacere, per opportunità o altro, di fronte allo scempio di verità che lei stessa ha documentato ampiamente, proprio non ci siamo. Tutto ciò getterebbe anzi una luce inquietante su come l’autrice intenda davvero i rapporti fra i generi, e dimostrerebbe di non aver cognizione di cosa è, o dovrebbe essere, un uomo. Gli uomini, i maschi, hanno non solo il diritto ma il dovere di dire la loro verità a voce alta di fronte a tutti e tutte, e non sono abituati a farsi cavare da altri le castagne dal fuoco. Sarebbe in contraddizione con la loro (nostra) natura e missione nel mondo e, per inciso, non porterebbe a risultato alcuno. Perché le donne, come gli uomini, non sono un microcosmo autosufficiente ed hanno bisogno, per vedere la verità delle cose, anche dello sguardo e della parola altrui, e perché la libertà donata da altri e non conquistata con le proprie forze, costi quel che costi, non è vera libertà ma una forma dissimulata di sottomissione.

(1) Come scrive Rino Della Vecchia in “Questa metà della terra” (AltroSenso saggi. 2004) siamo nel campo della Etosfera, lo spazio del bene e del male in cui i ruoli sono già assegnati a priori. Il bene è ciò che giova alla causa del femminismo, il male tutto il resto.

(2) Non importa, anche qui, che ogni serio studio di antropologia non trovi traccia di matriarcato sociologico smentendo le originarie ipotesi di Bachofen, e neanche che lo stesso Bachofen considerasse il superamento del matriarcato ad opera del patriarcato come un progresso dell’umanità. Tanto meno il femminismo può prendere in considerazione che la dialettica matriarcato/patriarcato si situi non sul terreno dei rapporti sociali quanto piuttosto nel campo dello sviluppo psichico dell’umanità e che rappresenti un momento decisivo nel processo di individuazione e di emersione della coscienza soggettiva. Anzi, secondo Erich Neumann, che scriveva nei primi anni del secondo dopoguerra, il pericolo della modernità è che l’umanità regredisca paradossalmente a stadi psichici precedenti, in un processo che egli definiva come ricollettivizzazione delle masse e femminilizzazione della coscienza. A cinquant’anni di distanza vediamo quanto avesse ragione.

(3) cfr Rino Della Vecchia, op. cit. pag. 22/23 e segg.

[23 novembre 2007]