Manifesto contro la democrazia

Sudditi
Manifesto contro la Democrazia

di Massimo Fini (Marsilio; Venezia, 2004)

Sin dal titolo, i libri di Massimo Fini hanno questo di buono: arrivano dritti come pugni nello stomaco. Non che lo sguardo dello scrittore milanese sia totalmente immune da tratti di cinismo, rischioso relativismo, persino nichilismo: sia detto, ben inteso, senza puntare il dito, nella consapevolezza, trasmessaci dal Solitario di Wilflingen, della necessità di caricarsi in prima persona la terribile accusa. Ma le riflessioni di Fini hanno il pregio di rimanere fuori dal coro, l’attitudine/ambizione di risvegliare nelle coscienze verità elementari. Perciò difficili da digerire per i monotoni frequentatori degli universi conoscitivi preconfezionati, dove tutto è ovattato, edulcorato, piacevole anche, falso; verità, insomma, sconosciute ai docili sudditi dei tempi moderni: gli uomini ridotti a consumatori/elettori delle democrazie borghesi; gli ipnotizzati del potere, ambito e/o contestato (di solito per prenderne il posto).

Premessa: del libro che ispira queste note non ci interessano i giudizi dell’autore sulle scelte di questo o quel governo. Trattasi di giudizi, per definizione, discutibili. Il prezzo da pagare per discuterli, però, è l’abbandono istantaneo delle vie selvatiche, la mobilitazione, l’accettazione delle regole del gioco (che, ad un certo livello della nostra esperienza, è inevitabile, forse auspicabile, purché non comprometta la nostra intima natura). Si rischia, per l’appunto, di rimpicciolirsi a cittadini dello Stato (va da sé: democratico), ri-creando incessantemente, magari senza averne coscienza, il sistema politico fondato da quella razza d’uomo degenerato, psicologicamente sofferente, spiritualmente decaduto, che fu magistralmente descritta da Donoso Cortés. Dio ce ne scampi.
Il libro di Fini ci sembra invece molto utile perché con parole semplici, a volte colorite, smaschera efficacemente le ipocrisie, le bugie e le finzioni costitutive del «migliore dei sistemi possibili»: la democrazia rappresentativa e liberale, la Terra Promessa della «fine della storia». Fini non attacca lo Stato democratico da sinistra, per non aver realizzato l’uguaglianza sociale, neppure da destra, per essere un governo di mediocri. Accusa la più moderna organizzazione politica per la sua incoerenza, per aver tradito le premesse, i postulati, su cui pretende di fondarsi. Lasciamo alla curiosità del lettore che desideri farlo, il compito di verificare le argomentazioni di Fini. Qui basterà ricordare che se la democrazia è soprattutto un metodo fondato sulla «mitologia del voto»(1) , il giornalista milanese sembra vicino alla realtà quando afferma che essa è «un regime di minoranze organizzate, di oligarchie politiche economiche e criminali che schiaccia e asservisce l’individuo, già frustrato e reso anonimo dal micidiale meccanismo produttivo di cui la democrazia è l’involucro legittimante».
Con ciò – precisazione necessaria, soprattutto di questi tempi -, non si intende affatto cedere a posizioni “pentitiste” ovvero salire sul carro, oggi assai affollato e maleodorante, dei terzomondismi più o meno autoflagellatori. Per amore dei padri, e di verità, avremo cura di distinguere tra Stato moderno e Civiltà d’Europa e d’Occidente.
Proprio in questa prospettiva, riteniamo conveniente sottolineare alcuni punti critici del ragionamento di Fini che, a nostro giudizio, sono causa dello sguardo vagamente disperato, perciò disarmato, dell’autore. Procediamo con ordine. Anche in questo pamphlet viene significativamente ripresentata, sia pure di passaggio, la tesi cara a Fini, e ad altri no global, secondo cui il pensiero unico e le tendenze totalitarie della modernità sarebbero radicati, o troverebbero sponda, nelle «tre grandi religioni monoteiste». Idea, questa, che appare quanto meno opinabile se riferita alle religioni ebraica e islamica, mentre è palesemente falsa, sia sul piano teologico che su quello storico-politico, per quel che concerne il cristianesimo. Basterà ricordare, a questo proposito, che nel pensiero cristiano «il gioco dell’alterità è in Dio stesso» (2). E’ falso, dunque, che la fede nel Dio Trinitario renda inconcepibile, inaccettabile, il pluralismo identitario. Come d’altro canto dimostra anche l’esperienza storico-politica: nel periodo di più profonda unità del pensiero cristiano europeo, l’idea imperiale, con quella «pluralità di patriottismi» (S. Weil) che le è propria, ha vissuto una sua fase di grande splendore. Infatti è precisamente il tramonto dell’egemonia (unità) del pensiero cristiano europeo ad aver innescato il processo di costituzione dello Stato moderno, assoluto prima, democratico poi, seguendo la linea degli espropri e delle neutralizzazioni lucidamente descritte da C. Schmitt.
Questo vizio, neppure troppo oscuro, della posizione intellettuale di Fini, a nostro modesto giudizio, depotenzia fortemente il suo lavoro. Ritenere che il recupero di una visione trascendente della vita, quindi anche della politica, il superamento della «società orizzontale», possa avvenire, in Occidente, per mezzo di una «religiosità senza Padre», è un’idea che rischia di rendere le voci di Fini, e degli altri che la pensano come lui, magari eccentriche ma, nel profondo, non autenticamente alternative all’antimondialismo e all’antiamericanismo più superficiali(3) .
Non ci stupisce, quindi, che nel suo interessantissimo Manifesto contro la democrazia l’autore faccia affermazioni di questo tenore: «La legittimità del potere democratico non è diversa da quella del potere regale o carismatico o tradizionale o di qualsiasi altro tipo. Nel senso che non esiste»; «Nessun potere politico è di per sé legittimo per la semplice ragione che si deve rifare a un punto di partenza concettuale che è, per forza di cose, arbitrario»; «Non c’è nessun Assoluto che possa essere preso come punto di riferimento, da cui far discendere una gerarchia fra ciò che è Bene e ciò che è Male. Sono solo credenze, illusioni, sono i sogni degli uomini». Parole che tradiscono uno sguardo perso nel vuoto.
Se infatti il potere contingente e storico prevede sempre una finzione(4) (la stessa Repubblica ideale immaginata da Platone contempla la bugia dei governanti), esso possiede altresì una sua dimensione assoluta, simbolica, che si esprime nell’Autorità (5). Ed è esattamente questa la dimensione che marca la differenza tra le organizzazioni politiche artificiali della modernità, e gli organismi politici premoderni, da quelli più semplici ed esotici a quelli più strutturati: lo Stato democratico, essendo fabbricazione razionalista, secolarizzata, formalizzata, è figura del potere senza autorità. Il fatto che Fini definisca «una favola», l’immagine della derivazione divina dell’autorità (a cui si sarebbe sostituita l’ugualmente fiabesca «mitologia del voto»), tradisce l’incapacità di riconoscere e accettare veramente il fondamento simbolico e metafisico della Comunità, tanto rimpianta dallo stesso Fini (6).
Fondamento che, nella sua fase coscienziale, occidentale, viene sancito dall’identificazione con la figura maschile, dalla benedizione del Padre, sorgente eterna di giustizia e superiore unità, di ricomposizione armonica dell’ineliminabile conflitto politico. Che nei tempi moderni è esploso, e nello Stato democratico si manifesta nell’azione dei “partiti”, da Fini considerati un tradimento dei presupposti teorici della democrazia, mentre in realtà sono l’essenza di quel sistema statuale nato simbolicamente il 3 ottobre 1793, quando il deputato del Basso Reno Philippe Rühl distrusse la Sacra Ampolla con cui venivano consacrati i Re di Francia (7).
Va da sé che l’Antico Regime era da tempo innervato da forti tendenze dissolutive, benché ci sembri ancora materialista, troppo sociologica e dunque tutta interna alla visione della modernità, la tesi di Fini secondo cui la rivoluzione democratica sarebbe la conseguenza del tradimento del sistema dei privilegi (e dei corrispondenti oneri) su cui si basava l’ordine feudale.(8)
Si legga ciò che scrisse Julius Evola: «Non si sente forse ripetere che, se una rivoluzione ha trionfato, è segno che i capi antichi erano fiacchi e che gli antichi ceti dirigenti erano degeneri? Veduta, questa, quanto mai unilaterale. Si dovrebbe certamente pensare a ciò, qualora si avessero come dei cani selvaggi alla catena, che alla fine prendono la mano […] Ma le cose stanno diversamente quando si rigetti la teoria dell’origine violenta del vero Stato e quando il punto di partenza sia la gerarchia spirituale […] Una tale gerarchia può decadere ed esser rovesciata in un solo caso: quando il singolo decada, quando egli usi della sua fondamentale libertà per dir no allo spirito, per privare la sua vita da ogni superiore punto di riferimento e costituirsi a sé come un moncone […] Questo è il mistero della decadenza, questo è il mistero di ogni rivoluzione sovvertitrice. Il rivoluzionario ha cominciato con l’uccidere in sé la gerarchia, mutilandosi di quelle possibilità, alle quali corrispondeva il fondamento interiore dell’ordine, che egli poi va ad abbattere anche esteriormente. […] Quando il mito cattolico riferisce la caduta dell’“uomo primordiale” e la stessa “rivolta degli angeli” al libero arbitrio, esso si riporta, in fondo, allo stesso principio esplicativo. Si tratta del terribile potere, insito nell’uomo, di usare la libertà nel senso di una distruzione spirituale, per respingere tutto ciò che può assicurargli una dignità supernaturale»(9) . Parole, queste, che andrebbero attualizzate, proprio in riferimento alle innaturali e dis-ordinate organizzazioni statuali del nostro tempo, meditandole assieme a queste altre, di Ernst Jünger: «Il confronto con il Leviatano, che si impone come tiranno ora esterno ora interno, è il più vasto e universale del nostro mondo. Due grandi paure dominano infatti l’uomo quando il nichilismo è al suo apice. L’una riposa sul terrore del vuoto interiore e lo costringe a manifestarsi esteriormente ad ogni costo: con lo spiegamento di forza, con il dominio dello spazio e un’accresciuta velocità. L’altra agisce dall’esterno verso l’interno come attacco del mondo e della sua potenza insieme demoniaca e automatizzata. L’invincibilità del Leviatano nel nostro tempo si fonda su questo doppio gioco. Essa è illusoria; ma proprio questa è la sua forza. La morte che essa promette è illusoria e perciò più terribile della morte sul campo di battaglia. Neppure valenti guerrieri le tengono testa: i loro ordini non contemplano la sconfitta delle illusioni. Dove conta la realtà ultima, superiore all’apparenza, la fama guerriera non può che sbiadire. Se si riuscisse ad abbattere il Leviatano, lo spazio reso libero dovrebbe essere riempito. Ma di ciò è incapace il vuoto interiore, la disposizione di colui che non crede. Per questo motivo, quando vediamo crollare un’immagine del Leviatano, vediamo subito emergere come teste dell’Idra nuove creazioni. Il vuoto stesso le esige»(10) .
C’è molto spazio per l’impegno, dunque, e per gonfiare il cuore di speranza. Senza scomodare i Nuer.

Paolo Marcon


(1) Cfr. C. Bonvecchio, Imago Imperii Imago Mundi. Sovranità simbolica e figura imperiale, Cedam, Padova, 1997, Nota 1, pag. 9.

(2) «Nel mistero della Trinità è presente la più radicale differenza che si possa sperimentare o anche semplicemente intuire. La massima differenza all’interno della più assoluta identità» (A. Scola, Uomo-Donna. Il caso “serio” dell’amore, Marietti 1820, Genova-Milano, 2003, pag. 18).

(3) Ha ragione da vendere Claudio Risé, quando afferma: «Ora, (e qui parlo più della società europea che di quella americana, molto più variegata e complessa), una cultura che è ancora sotto l’ala plumbea della visione nichilista novecentesca, non ha più visione trascendente, cioè il Padre, ed ha solo una visione orizzontale, che si snoda lungo le corsie dei centri commerciali. La religiosità “compatibile” con questa visione è spiritualità da centro commerciale: un neopaganesimo ben modulato, come ogni prodotto che ambisca al successo (ad ognuno il suo dio), espulsi i temi forti del cristianesimo, il sacrificio e la croce, il corpo e il sangue rimpiazzati da un’enogastronomia etnico/religiosa, travestita da recupero culturale e identitario» (Padre e società occidentale, intervista a C. Risé, a cura di R. Paradisi, Officina, agosto 2003).

(4) Cfr. su questo punto il fondamentale testo di G.M.Chiodi, La menzogna del potere. La struttura elementare del potere nel sistema politico, Giuffrè, Milano, 1979.

(5) Cfr. C. Bonvecchio, Potere-Simbolo-Democrazia, in Immagini del politico. Saggi su simbolo e mito politico, Cedam, Padova, pagg. 133-143.

(6) Su questo punto, cfr. C. Bonvecchio, Il simbolico e la comunità, in id. Il pensiero forte. La sfida simbolica alla modernità, Settimo Sigillo, Roma, 2000, pagg. 117-136.

(7) Cfr. C. Bonvecchio, Il duplice volto del politico moderno, in id., La maschera e l’uomo. Simbolismo, comunicazione e politica, Franco Angeli, Milano, 2002, pagg. 87-106.

(8) Sistema volgarmente liquidato come fonte di soprusi dalle ideologie egualitariste della modernità. Per una critica alle moltitudini che nelle Terre desolate si sono rovinate lottando contro i privilegi si veda anche J. Ortega y Gasset, Discorso sulla caccia, Vallecchi, 1990, pagg. 21-22.

(9) AA.VV. Gerarchia e Democrazia, Edizioni di Ar, Padova, 1977, pagg. 22-23.

(10) E. Jünger, Oltre la linea, in E. Jünger, M. Heidegger, Oltre la linea, Adelphi, Milano, 1995, pagg. 91-92.