Ritorno al fuoco
Come gli uomini possono ritrovare se stessi
di Gary Snyder
Coniglio Editore 2008
Recensione a cura di Armando Ermini
Quando si affronta il tema dell’ecologia esiste sempre il rischio di letture ideologiche che hanno, in parte, giustificazioni concrete ma che ormai, più che a chiarire, servono piuttosto a occultare la realtà dei problemi che abbiamo di fronte. Curata da Chiara D’Ottavi ed edita col titolo “Ritorno al fuoco”, la ricca raccolta di scritti del poeta della selvaticità, Gary Snyder, sfugge solo in parte a questo rischio. Presenta intuizioni profonde ma è, al tempo stesso, segnata da un’epoca e da una generazione, quella della beat generation, i cui assiomi sono all’origine di alcuni dei maggiori problemi della modernità.
La beat generation nasce in un’epoca in cui il mondo era dominato dallo scontro fra le democrazie occidentali e l’URSS, e si situa all’incrocio fra il capitalismo così come sviluppatosi in Occidente e il marxismo dei paesi a socialismo reale. Questa corrente di vita e di pensiero li rifiuta entrambi per gli esiti devastanti nei confronti dell’ambiente, ma ancor prima per la concezione del rapporto fra gli uomini e la natura, individuando invece nelle filosofie orientali (buddismo, taoismo) i concetti base, che trasportati e applicati anche in Occidente, permetterebbero di ricostituire quell’equilibrio complessivo messo in grave pericolo dagli stili di vita attuali. Nella condanna dei quali, Snyder coinvolge tra gli accusati le religioni monoteiste, ed in particolare il cristianesimo, in quanto responsabili almeno di aver costituito l’humus culturale su cui il disprezzo per l’ambiente ha prosperato e poi prevalso.
A questa interpretazione di Snyder si possono fare due obiezioni fondamentali:
- Il moderno capitalismo globale si è imposto contro, e non grazie, alle concezioni antropologiche (ed agli stili di vita) propri del cristianesimo, puntando a relegarlo ad esperienza interiore individuale e dunque scissa dalla vita politica pubblica nel migliore dei casi, o ad eliminarlo completamente dall’immaginario della modernità nel peggiore.
- I paesi culla delle filosofie a cui Snyder guarda con simpatia, Cina e India in primo luogo, sono ormai avviati a ripercorrere la nostra strada ed in tempi ancora più rapidi, il che significa che anche la loro pur millenaria cultura non li pone al riparo dai pericoli.
Snyder sottoscrive in pieno la definizione di wilderness di Tom Birch, suo antico amico del Montana: La wilderness mi tratta come un essere umano….Voglio dire che mi tratta come un adulto. Non prova a proteggermi né a viziarmi. Non mi offre ringhiere a cui appoggiarmi né mi mette davanti poliziotti o assistenti sociali per aiutarmi, non mi regola il riscaldamento né mi dà un cuscino su cui dormire. E nessuno sa dove mi trovo. Per me, essere completamente umano significa avere piene responsabilità delle mie capacità e delle mie mancanze ed essere consapevole che la morte è sempre in agguato. E quando sei completamente solo, nella tua vulnerabilità, allora puoi capire come ci si sente ad essere pienamente vivi.
Ciò da cui Birch anela fuggire è l’esatta descrizione della società attuale, all’edificazione della quale tanto hanno contribuito, però, anche la beat generation prima e i sessantottini nel mondo poi. Partiti dal rifiuto (in parte giustificato) dell’ipocrisia e dei formalismi borghesi, hanno finito poi per teorizzare la scomparsa del principio di autorità e del limite (a cui presiede l’archetipo paterno) in favore della soddisfazione immediata dei bisogni, quali che siano. Ma una società siffatta, che dà la precedenza al circuito (perverso) consumo-bisogno-desiderio a cui è delegato a provvedere lo stato, è precisamente fondata sull’archetipo materno. Un permanente maternage che esclude la responsabilità personale ed il rischio (spesso creativo), e che, distruggendo in nome dell’individuo astratto l’antica rete di strutture comunitarie e di organismi intermedi a partire dalla famiglia patriarcale, ha messo a repentaglio anche l’equilibrio ambientale, che pure era stato conservato per millenni e sempre consegnato integro alle future generazioni, come lo stesso Snyder ammette.
Perché, dunque, non tentare di rintracciare proprio nella nostra tradizione, senza per questo disprezzare le altre, principi e ragioni di un rapporto con l’ambiente più sano e rispettoso? Di tale tradizione fa parte integrante anche il Cristianesimo, che non teorizza il disinteresse per l’ambiente o l’uso dissennato delle risorse naturali, ma auspica al contrario che l’uomo usi con ragionevolezza e parsimonia le risorse che Dio gli ha donato. Una natura, dunque, né divinizzata né vilipesa, perché divinizzarla significherebbe metterla al posto del Creatore, vilipenderla significherebbe disprezzare i doni divini e non assolvere il dovere di conservarli. La realtà, oggi finalmente visibile, è che la contraddizione che ci attraversa non è quella fra destra e sinistra (signficativa, ma poi non sviluppata nelle sue logiche conseguenze, l’inclusione di Ezra Pound fra i poeti di riferimento di Snyder) come appariva nel secolo passato, ma fra chi inneggia senza condizioni al “progresso” e chi, al contrario, vede i pericoli di una sua acritica accettazione. E poiché non ci sono dubbi che proprio la sinistra abbia maggiormente fatto proprio il concetto progressista di società materna, sembrerebbe più opportuno, e logico, sostenere chi, pure in mezzo a mille e una contraddizioni, inizia a prendere consapevolezza della vera essenza del mondo che abbiamo costruito e cerca di recuperare (con grandissima fatica) quei principi di responsabilità personale sopra richiamati che con un solo termine potremmo indicare come principio paterno.
Questo ci introduce ad un altro snodo critico, quello del rapporto fra conservazione dell’equilibrio ambientale e giustizia sociale, accennati come equivalenti o almeno integrabili (nel volume di Snyder a pag. 31). E’ un fatto che, se per giustizia sociale si intende, come di fatto accade, un crescente accesso delle popolazioni povere a standard di consumi sempre più elevati secondo i criteri (economici e culturali) che hanno prevalso in Occidente negli ultimi due secoli, ciò finisce per compromettere l’equilibrio ambientale, perché la principale preoccupazione dei governi democratici (e non, vedasi Cina) sarà lo schema della crescita economica continua. Secondo Roger Scruton (“Il Manifesto dei conservatori”, Cortina Ed., 2007), l’esigenza improcrastinabile di mantenimento dell’equilibrio ambientale si integra con l’esigenza di mantenimento di un ordine sociale che, piaccia o meno, include un certo squilibrio nella distribuzione di ricchezze e proprietà. Scruton porta ad esempio Burke, quando perorava il modello della proprietà territoriale inglese che toglieva il patrimonio dal mercato, lo proteggeva dal depauperamento e creava, al posto di un possesso assoluto, un tipo di curatela che aveva come beneficiario l’usufruttuario. Questa istituzione, protetta dalla legge, difendeva la terra e le risorse naturali dallo sfruttamento, e donava agli usufruttuari un tipo di sovranità per tutta la vita, ma a condizione che lasciassero ai loro eredi la proprietà non gravata da ipoteche. E’ evidente, prosegue Scruton, che quel tipo di leggi è ormai troppo lontano dalla mentalità corrente, oltre che responsabile di disuguaglianze e ingiustizie oggi inaccettabili, e dunque improponibile. Si tratta allora di trovare le motivazioni giuste, e praticabili, per indurre davvero scelte non distruttive. Fino a questo punto le analisi di Snyder e Scruton coincidono largamente, e non potrebbe essere altrimenti anche per una questione semantica, laddove “conservatori” e “conservazionisti” sono termini di identica radice e di equivalente significato, seppure applicato a campi non perfettamente coincidenti quali la politica e l’ambiente.
Le divergenze iniziano al momento di individuare le soluzioni. Per Snyder, che ha come riferimento le antiche civiltà est-asiatiche, che non avrebbero mai operato una netta distinzione fra l’umano e il resto della natura biologica, la soluzione sta in un’assunzione di responsabilità verso la nostra terra, e nell’imposizione di limiti alla crescita demografica per lasciare spazio anche alle altre creature, secondo il concetto di capacità portante di un territorio che egli individua non in entità politiche (gli stati), ma in entità omogenee biologicamente (le bioregioni). Due sono i punti da sottolineare. La responsabilità degli esseri umani è vista non verso altri umani ma verso la natura in generale (la terra): Ma ciò di cui alla fine abbiamo più bisogno sono degli esseri umani che amino il mondo. Da qui l’assenza, solo in parte spiegabile con l’oggetto del libro, di qualsiasi parola a proposito degli esiti della tecnoscienza che pure influenza in modo decisivo i rapporti fra gli uomini alterandone la visione tradizionale come aderenza ai processi naturali, e dunque anch’essi parte decisiva della questione ecologica. Il secondo punto, che può essere fatto derivare dal primo, è l’approccio alla tutela dell’ambiente che, pur insistendo più di una volta sul concetto di comunità, finisce alla fine per scivolare su soluzioni di tipo globale e planetario. Da qui l’idea di un Piano Forestale Millenario, la richiesta di politiche demografiche di contenimento della natalità oltre che, naturalmente, l’attacco generico alle multinazionali ed ai governi occidentali. Particolarmente inquietante, e contraddittorio, è l’accenno alle politiche denataliste. Sia perché, in linea di principio, una nazione a crescita demografica zero, o peggio ancora in decrescita, perde di vitalità. E come un qualsiasi altro organismo, invecchiamento significa deperimento. Ma non solo: secondo Snyder una politica di crescita demografica sostenibile la si può attuare in vari modi. Attraverso metodi naturali che rispettino i desideri delle persone e il principio di intangibilità della vita, oppure attraverso metodi quali l’aborto. Che poi ciò avvenga per imposizione di Stato come in Cina, o attraverso il convincimento “culturale” che l’interruzione di gravidanza sia un “diritto civile” di libertà contrabbandato come “salute riproduttiva”, poco importa. Ebbene, questo tipo di politica demografica è proprio ciò che le grandi agenzie internazionali (Onu in testa), che pure Snyder contesta, propongono e impongono. Il problema andrebbe affrontato dal lato opposto, ossia dall’osservazione che nelle società tradizionali l’equilibrio demografico è sempre stato assicurato. L’eventuale squilibrio attuale non è dunque causa, ma semmai l’effetto del sistema economico planetario, ed è questo che andrebbe corretto, se non si vuole limitarsi a curare i sintomi e in più, elemento aggravante, con provvedimenti che contraddicono il richiamo alla natura ed ai suoi processi. Spiace constatare che quasi nessuna riflessione su questo tema appaia nel libro in questione, e quelle esistenti lascino un senso di ambiguità che sarebbe meglio fosse dissolta.
Scruton opta per un’altra impostazione: dobbiamo fare un passo indietro e dal globale tornare al locale, in modo da affrontare i problemi che possiamo identificare collettivamente come nostri, con i mezzi che possiamo controllare, per le motivazioni che sentiamo. E fra i sentimenti su cui far leva individua innanzi tutto la responsabilità concreta e l’amore per i propri figli (e gli antenati) e, tramite esso, per il territorio su cui concretamente quelli abiteranno, ossia lo stato nazionale considerato, prima ancora che un territorio fisico delimitato da confini, lo spazio entro il quale si cementano le relazioni umane e si traduce il sentimento di comune appartenenza in decisioni collettive e leggi emanate volontariamente. Se è comune con Snyder la critica ai grandi organismi sovranazionali, il WTO tra gli altri, come principali pericoli per l’ambiente, non solo per le politiche distruttive delle economie locali autosufficienti, ma anche perché ostacolano le decisioni locali (nazionali) miranti a frenare gli obbiettivi delle multinazionali, Scruton dubita tuttavia che la gente comune, potendo scegliere, opterebbe per politiche di sostenibilità a lungo termine piuttosto che per una gratificazione immediata. In realtà, argomenta a nostro avviso realisticamente, più che per un generico e necessariamente astratto amore verso la terra o il mondo, la gente è pronta a fare sacrifici, e dunque far prevalere sobrietà e moderazione, solo per le cose che può amare in concreto. In questo senso anche l’espansione abnorme delle multinazionali nasce dalle miriadi di scelte individuali che ciascuno compie sul libero mercato, e la chiave per ridimensionarne il potere non sta tanto in grandi strategie quanto piuttosto in un cambiamento a livello di scelte soggettive, che necessita appunto di motivazioni individuali forti e concrete.
Se questi sono i principali appunti critici da fare al lavoro di Snyder, c’è tuttavia da mettere in evidenza anche gli aspetti positivi. In primo luogo il suo concetto di wilderness che include una presenza e una storia delle popolazioni stanziali con i loro usi e le loro pratiche. Questa concezione lo situa lontano dal fondamentalismo ecologista, che in nome della terra e della natura finisce per odiare l’uomo, attribuendogli ogni male per il solo fatto di esistere. Ma c’è un’altra questione da sottolineare maggiormente: il notevole concetto, da cui il titolo del libro, che il fuoco è elemento della natura dalla doppia valenza, distruttiva ma nello stesso tempo a lungo termine benefica. Ci racconta come da sempre gli incendi naturali hanno rappresentato un fattore di rinnovamento del territorio, ma anche e soprattutto che nella millenaria gestione “tradizionale” dello stesso, sono stati indotti artificialmente e controllati per distruggere quel tanto che era sufficiente per scongiurare danni maggiori agli alberi di alto fusto e aumentare il tasso di fecondità, e dunque di rinnovamento, delle terre su cui erano lasciati sviluppare. E’ solo da quando il fuoco è stato eletto a nemico assoluto da inibire in qualsiasi circostanza, che gli incendi sono diventati devastanti. Snyder individua con ciò un modo di essere della modernità valido anche in altri campi, in particolare in quello relazionale: dei rapporti umani. Si è ormai abbandonata la concezione che, vedendo istinti e pulsioni come elementi naturali, puntava a incanalarli e gestirli in favore del bene comune, in altri termini ad integrarli anche attraverso complessi riti iniziatici che rendessero l’individuo consapevole di sé e del proprio ruolo nella comunità. La modernità politically correct, anziché portare istinti e pulsioni alla luce per conoscerli e ri-conoscerli, pretende invece, attraverso condanne moralistiche, di estirparli ed eliminarli. Ma naturalmente si limita a ricacciarli nell’inconscio dove rimangono liberi di agire e di dirigere in modo occulto le azioni umane. Il risultato, come nel caso degli incendi boschivi, è la loro improvvisa, incontrollabile e devastante eruzione, come accade sempre più spesso per la violenza e la guerra. Negandole in assoluto, rifiutandosi di vederli come inestricabilmente connessi con l’umano, e dunque da usare con intelligenza, realismo, e per scopi nobili, si favorisce in realtà la loro proliferazione diffusa e incontrollabile.
Da qui, da questa rinnovata integrazione, occorre dunque ripartire per bonificare l’ambiente naturale e quello psichico, ed è nostra convinzione che non sarà possibile finché non avremo fatto giustizia dei tanti luoghi comuni che hanno ammorbato la nostra cultura quantomeno negli ultimi decenni, o forse secoli.
[5 settembre 2008]