I cavalieri che fecero l'impresa

L’amicizia tra maschi, l’adesione al dono
ed al dramma del destino maschile nel film

Regia di Pupi Avati
con
Carlo delle Piane, Edward Furlong, Raoul Bova, F. Murray Abraham, Marco Leopardi, Thomas Kretschmann, Stanislas Merhar.

20th Century Fox, 2000 

Il significato simbolico della ricerca del Santo Graal, tema diffuso nei paesi anglosassoni, aveva bisogno di un corrispettivo nel mondo latino. Questo è uno dei motivi per cui Pupi Avati, affascinato da sempre dal mondo medievale, ha deciso di fare un film sulla quest della Sacra Sindone. Come il Graal la Sindone è la testimonianza del Mistero del Golgota, è la reliquia che comunica allo sguardo umile ed ingenuo, il significato della ferita. «La ferita è iniziazione alla vita, apre al senso del limite ed al male che pure c’è nel vivere, aiuta ad entrare in se stessi; apre al cammino individuativo ed al proprio destino maschile» (Ferliga).
1271 D.C. Le sacre spoglie di Luigi IX il Santo, che muore con il dolore di non avere sconfitto gli infedeli, vengono riportate in Francia dal suo esercito in ritirata attraverso gli Appennini. E’ nell’aura di questa sacralità che si incontrano quattro cavalieri, di provenienza ed estrazione diversa, e che si riconoscono votati ad un destino di dono in seguito ad alcuni fatti sorprendenti. Questo destino nasce dalla condivisione di un segreto: il desiderio di recuperare il Santo Lino nascosto a Tebe in Grecia da alcuni traditori del Re di Francia che lo venerano in forma eretica.
Ai quattro cavalieri si aggiunge Giacomo, che nulla sa di suo padre, ma è diventato spadaio nella fucina di un mastro armaiolo. Il maestro prima di morire gli lascia il compito di forgiare una spada invincibile e, quasi ad insaputa di Giacomo, gli insegna il segreto per renderla tale: un patto con Satana. Questo segreto è un fardello che lo renderà escluso e rifiutato dagli uomini, ma soprattutto dal gruppo dei cavalieri maschi. Solo sottostando ad alcune regole Giacomo viene accolto come scudiero, in cambio della spada, da uno dei quattro cavalieri. Eppure è proprio Giacomo, nel suo silenzio, il più laborioso ed utile all’impresa. Egli appartiene al mondo degli emarginati e degli stregoni, delle prostitute e dei mestieri illeciti, che è poi il mondo in cui nel Medioevo fu relegata la figura dell’Uomo Selvatico, a causa della paura di cambiamento che attanagliava un mondo teso «alla semplice riproduzione e sospettava di tutti quelli che, consciamente o inconsciamente, sembrano minacciare questo fragile equilibrio». (cfr. Le Goff J., Il meraviglioso e il quotidiano nell’Occidente medievale, Laterza, Roma, 1983, pp. 165-172)). Giacomo appartiene a quella categoria di uomini considerati folli, caratterizzati da «un modo diverso di essere e apparire agli altri, che è al tempo stesso perturbante per la sua stranezza, ed affascinante per la sua misteriosa sicurezza» (cfr. Risé C., Il Puer nell’esperienza cristiana: Gesù, Francesco, Parsifal, in Klaros, anno 3, n. 2, dic. 1990). Solo lui infatti potrà aprire, essendo fabbro, il nascondiglio della Sindone.
Ecco allora i giovani cavalieri che rimettono in sesto una nave mezza affondata e partono per la Grecia. Durante il viaggio non mancano gli episodi di amicizia affettuosa tra maschi come si nota nella scena in cui i quattro, addormentandosi, si raccontano le loro vicende di innamoramento cortese, o nella scena in cui Vanni delle Rondini accudisce Giacomo che ha subito un esorcismo, o infine, nello sguardo felice con cui gli amici nominano cavaliere lo scudiero, non tanto perché egli ha rinunciato al demonio ma semplicemente perché è riconosciuto nella sua solidarietà al patto maschile per l’impresa.
Il destino maschile però, in chi ne accoglie il mito e cerca se stesso nel difficile percorso, non tarda a compiersi. Il destino maschile coincide con il fatto che il capitano porta con sé gli altri maschi alla morte. E’ un destino di «sollecitazione all’impresa, al dono di sé, ad una morte dotata di senso perché suffragata da un’esistenza donata, rivolta al bene del mondo…e questo il maschio deve saperlo, come insegna l’Epopea di Gilgamesh» (cfr. Risé C., Il Mito di Gilgamesh, Seminario presso la Scuola LISTA, 2 gen. 2001, Milano).
Eppure se mosso da un desiderio e riferito ad una visione sacra della vita, questo dispendio totale, questo darsi completamente senza ricevere alcun premio terreno (sull’assenza di ricompensa cfr. l’intervista a Pupi Avati, Alla ricerca della Sindone perduta, in Famiglia Cristiana, 8 aprile 2001) è accompagnato dall’amore tra maschi e dal piacere: «Vi amo Cavalieri, difenderò con la mia spada ogni colpo inflitto al vostro corpo, ma ora andiamo e, contenti di combattere contro i più nobili cavalieri di Francia, muoviamoci e portiamo a casa la vittoria».
E’ questo piacere, questo amore che continua a riecheggiare, con le voci dei cavalieri, nella memoria di questa vicenda. Come una ferita da trasmettere.