Il grande silenzio

di Philiph Groning

Germania 2004
Premio della Giuria Sundance Festival
Premio della Critica. Berlino 2006

recensione a cura di A. Ermini 

“Noi pensiamo che dovremmo modellare le nostre vite da soli, che questo ci dia la libertà. Questo è il motivo per cui tanta gente ha paura. Il monastero è un luogo libero dalla paura. Ognuno ha fiducia che Dio gli provvederà”, ha dichiarato Philip Groning dopo la straordinaria esperienza di sei mesi vissuti nella Grande Chartreuse, sulle Alpi francesi fra Grenoble e Chambery, per girare, dopo quindici anni di attesa, il suo film sulla vita dei monaci certosini, l’ordine più severo della Chiesa cattolica.
Film anomalo, fatto di silenzi, di rare e soffuse conversazioni nei momenti deputati alla socializzazione dei monaci, di immagini ripetute come gli eterni rituali di cui è fatta la vita nel convento. Neanche la musica si intromette a distrarre lo spettatore, essendo la colonna sonora costituita unicamente dai suoni esterni della natura, dai rumori fatti dagli oggetti di uso quotidiano e dagli splendidi canti gregoriani che ci ridanno intatta la dimensione verticale del rapporto fra l’uomo e Dio ed evocano il vertiginoso slancio verso l’alto delle cattedrali gotiche.
Sbaglierebbe però chi pensasse la spiritualità dei certosini come svalutazione delle cose materiali. Al contrario, è proprio la scelta di sobria povertà che fa loro considerare preziosi anche gli oggetti più piccoli, dono divino mai da gettare con indifferenza. E’ per questo motivo che ogni cosa ha il suo posto e che anche i bottoni e la stoffa dei sai appartenuti a monaci morti vengono conservati e riutilizzati, a significare continuità e passaggio di testimone nella incessante ricerca dell’anima e della verità di Dio.
Sbaglierebbe anche chi si figurasse i monaci come uomini austeri e chiusi al sorriso. La scena dei più giovani che si divertono ingenuamente scivolando sulla neve rimanda al fanciullo, alla frase di Gesù che attribuiva loro il regno dei cieli, ed alla necessità di non uccidere il puer dentro di noi per non perdere la speranza.
L’alternarsi dei momenti di vita in comune (le funzioni in Chiesa, le passeggiate, i pasti in comune) con quelli di preghiera e meditazione individuale, sottolinea come l’esperienza religiosa, nel suo “colloquio” con Dio, non può rimanere confinata soltanto nell’intimità dell’individuo, ma deve necessariamente avere una dimensione collettiva, comunitaria. Individuo e comunità si alimentano vicendevolmente traendo senso e forza l’uno dall’altro, entro un ordine simbolico in cui ognuno ha il suo posto e nel quale la parola cede il passo alla potenza del silenzio. Nella comunità maschile dei monaci la comunicazione più vera e profonda passa attraverso il Sacro, non necessita di troppe parole; piuttosto di gesti silenziosi densi di amore e umana pietà verso il fratello, così che è anche attraverso la cura e la sollecitudine dell’uno verso l’altro che si manifesta la provvidenza divina di cui parla Groning nella dichiarazione riportata all’inizio.
Gli spazi della Grande Chartreuse, i suoi tempi e ritmi di vita così diversi da quelli a noi abituali , la sua lontananza dal mondo della “civiltà”, istituiscono infine un senso parallelo e analogo a quello attribuibile alla wilderness. Luoghi, è vero, molto diversi. Nell’uno si cerca lo spirito, nell’altro scorre una vita istintuale e per questo anche tumultuosa. Li accomuna però l’essere testimonianza di una vita che si muove, ed anche si trasforma, secondi ritmi non imposti dall’onnipotenza dell’uomo. E se è vero che siamo fatti di corpo e anima, di materia e di spirito, la loro esistenza diventa condizione per potere pensare al senso della nostra, apre alla possibilità di un altro mondo, o meglio di un mondo altro. A condizione che non li si vedano come curiose sopravvivenze , oasi protette ad uso degli studiosi della natura e degli antropologhi.

[04 maggio 2006]