Il suo nome è Tsotsi

regia di Gavin Hood

Sud Africa 2005
con Presley Chweneyagae (Tsotsi) e Terry Pheto (Miriam)
tratto dall’omonimo romanzo di Athal Fugard
Oscar 2006 per il miglior film straniero

recensione a cura di A. Ermini 

“Prendersi cura dell’altro è il miglior modo per prendersi cura di sé”. In questa frase potrebbe essere riassunto l’intero significato del film. Tsotsi è il giovanissimo capo di una banda di delinquenti di strada dell’immensa e degradata periferia di Johannesburg, il ghetto nero di Soweto. Gente che uccide gli estranei per pochi soldi, ma che non esita a massacrare anche l’amico, tanta è la violenza che pervade quelle vite.
Ci vuole un bambino, trovato sul sedile posteriore di un’auto per rubare la quale Tsotsi aveva ferito gravemente la madre, per innescare il cambiamento nel giovane fuorilegge.
Da questo momento il film si dipana come una lunga seduta psicanalitica in cui il protagonista, identificandosi col bambino, rivive la sua disgraziata infanzia dapprima alle prese con una madre malata di aids ed un padre violento, poi, dopo la fuga da casa, arrangiandosi con altri piccoli infelici come lui.
Tsotsi, prendendosi cura del bimbo e affezionandosi a lui, diventa pian piano padre di se stesso, cura le sue ferite e cresce fino ad assumersi per intero le sue responsabilità.
E’ un film aperto alla speranza; anche nelle situazioni apparentemente più devastate può scoccare la scintilla del cambiamento interiore, della trasformazione vitale, e non è un caso che la figura scatenante sia quella del fanciullo, del puer aeternus.
Se il modo con cui il film si sviluppa è troppo prevedibile, fino ad essere didascalico, è però anche vero che evita alcuni luoghi comuni, cosa non facile nel Sud Africa ancora abbastanza fresco di apartheid. La vulgata politicamente corretta usa attribuire le cause del male alla povertà e questa all’oppressione dei bianchi sui neri, facendo in definitiva ricadere sui primi la responsabilità del tutto e finendo così per fornire una qualche giustificazione “ideologica” alla violenza vendicativa del povero sul ricco. Il film, ponendo in rapporto il mondo del sottoproletariato nero con quello della borghesia nera, evita queste secche e ci dice che male e bene non dipendono né dal colore della pelle né dalla robustezza del portafoglio.
C’è infine un altro elemento importante da cogliere, nel film di Hood. Non può non colpire infatti la differenza fra il mondo di Tsotsi e delle gang maschili e quello di Miriam e delle donne, che pure coesistono nell’inferno di Soweto. Miriam è una bellissima giovane madre che Tsotsi “obbliga” a nutrire e curare il “suo” bambino, e dalla cui grazia e tranquillità il giovane è attratto.
Il contrasto fra i due mondi è troppo forte per non leggervi le diverse possibilità e i diversi destini dei due generi, laddove il fatto di essere madri, deputate alla cura e al nutrimento, offre alle donne una possibilità in più per sfuggire all’inferno rispetto ai maschi. Questi sono direttamente e quasi inevitabilmente “costretti” a confrontarsi con la violenza , alle volte anche per fini encomiabili, come accade appunto a Tsotsi quando, per procurare cibo e altre cose per il bambino, si trova a commettere un altro reato, in un circuito vizioso da cui si può uscire solo assumendosi, con immenso dolore, il carico della colpa e del male.

[16 marzo 2006]