In my country

Country of my skull
di John Boorman
Anno 2004. Samuel Lee Jackson e Juliette Binoche 

IL FILM E LA STORIA
In una delle terre più estese e misteriose del pianeta, si consuma il dramma dell’apartheid, la decadenza più manifesta del genere umano che discrimina, punisce, uccide un suo simile perché ha la pelle diversa.

Fino al 1994 uomini bianchi grassi e oziosi vivevano a pochi chilometri da altri uomini che, per strada, nelle loro case rotte morivano di fame e torture. Fino a pochi anni fa donne bianche complici del lusso sfrenato, artefici loro stesse della violenza razziale vivevano a poche miglia di distanza da donne nere impaurite, umiliate, amputate per il colore della loro pelle. Ancora oggi esistono posti dove certi bambini nascono con gli onori ed altri con i debiti, alcuni nascono per vivere nelle loro potenzialità, altri per essere schiavi o per morire prim’ancora di imparare a vivere.

Mai più oppressi, mai più oppressori.

LO SPIRITO DI RICONCILIAZIONE

Negli anni seguenti Mandela e gli altri capi attivarono oltre mille commissioni dette “della riconciliazione”. Obiettivo, evitare ulteriore morte, ulteriore devastazione, vendette, guerre civili e di razza. Nelle pubbliche sedute di riconciliazione gli oppressori ebbero la possibilità di pentirsi e raccontare la verità sugli ordini di violenza e repressione impartiti dall’alto. Poi toccò agli oppressi, alle vittime che raccontarono le loro drammatiche storie, per la prima volta liberamente, di fronte a giudici e fiumi di persone che accorsero da tutto il paese. Oltre ventimila persone testimoniarono la verità di fronte alle commissioni di riconciliazione.
Alcune di queste testimonianze sono state ricostruite in questo film/documentario che gira attorno ad una storia d’amore tra un uomo di colore afro americano (inviato del Washington post) ed una donna sud africana bianca (poetessa). Entrambi durante il film obbligati a rivedere le loro posizioni di partenza spesso condizionate da pregiudizi e malintesi atavici.

I RACCONTI

Una donna nera durante una seduta racconta: “quando mio figlio è scomparso, ci hanno detto che c’era un poliziotto a Porto Elisabeth che teneva una cosa in un barattolo sulla scrivania. E a chi gli ha chiesto che cosa fosse lui ha detto: - è la mano di un babbuino, è la mano in barattolo di un comunista! - mi hanno raccontato che prima di uccidere mio figlio gli hanno tagliato le mani perché non potessero prendergli le impronte digitali.”

Un uomo bianco, un sergente, confessa l’uccisione di un uomo nero, marito di una donna presente alla seduta, “era una spina nel fianco” dice, “io non avevo nulla di personale, eseguivo solo degli ordini, dovevo eliminarlo”, “e colpirlo 37 volte?” dice il sacerdote, “Hubert era una tigre, lottava per la sua vita” risponde il sergente con sorriso malizioso…

Le vittime piangono poco e cantano molto, gli oppressori invece confessano e piangono, un uomo nero spiega - “noi abbiamo pianto anni fa” - dice.

Un altro uomo confessa l’utilizzo delle scosse elettriche. L’uomo che ha subito le scosse è li di fronte a lui e gli dice che adesso non muove più le gambe, che non ha più erezioni, il sacerdote chiede il perché al carnefice, il bianco risponde “avrei perso la pensione se rifiutavo l’ordine” … curioso come le risposte dei generali sud africani assomiglino per tono e modalità difensiva a quelle dei soldati e delle soldatesse tedesche di Auswitch.


Il generale delle forze armate confessa: “quando catturavamo un terrorista nero lo pestavamo a sangue finché non tradiva i propri compagni così non sapeva più dove andare e cambiava versante. Queste persone diventavano i migliori killer per noi… se ti vendi non c’è perdono… quando disprezzi te stesso è molto più facile che disprezzi anche gli altri…”

Gli amici della poetessa non sono ancora coscienti del cambiamento in atto, durante un pranzetto in una lussuosa villa con piscina lei pone l’imbarazzante domanda: “si può uccidere per motivi politici?” altrettanto imbarazzante è la risposta del cretino di turno “be’… parlando da avvocato io comprendo la violenza per motivi politici… se è usata come tortura per ottenere informazioni, si può fare violenza per motivi politici”… le altre donne del gruppo poi si tolgono dall’imbarazzo tornando a parlare ed ocheggiare sulle solite superfluità.

Un padre, bianco, vittima di un aggressione dei ribelli neri (che sono imputati di fronte a lui) racconta la drammatica storia della perdita di suo figlio a causa di una mina: “sapete cosa si prova a cercare un figlio di soli 3 anni, il più piccolo, senza mai più trovarlo perché si è disintegrato in aria? - Il giorno dopo sono andato a cercare la gamba di mia moglie, ma ho trovato solo un frammento del cranio di mio figlio, c’erano ancora i pezzetti di cervello, li ho messi su un fazzoletto e li ho portati a casa per seppellirli.”

Il giorno dopo, un bambino appare in aula, non parla da quando un soldato ha ucciso davanti ai suoi occhi padre e madre. Il carnefice è li al bancone, come da prassi racconta e ripercorre nei dettagli l’uccisione violenta: “non sapevamo che ci fosse anche il bambino, è rimasto immobile a guardarmi, gli ho puntato contro il fucile per sparargli, lui non si è mosso, è rimasto li a fissarmi, non ci sono riuscito, ho disobbedito agli ordini... Non riesco a dormire, quando chiudo gli occhi vedo soltanto lui… mi occuperò di lui, gli pagherò la scuola, vi prego, fatemi essere utile, vi prego!” - l’uomo si alza e si inginocchia di fronte al bimbo muto, bimbo che si alza e gli si avvicina con l’aria apatica senza lasciar trapelare rabbia o emozione, attimi di silenzio, di attesa, d’improvviso il piccolo si lancia al suo collo e abbraccia l’uomo adulto, un primo piano staglia un lieve sorriso del bimbo e la possibilità di una vita nuova.

Fuori dalla commissione il protagonista americano incontra un uomo vecchio, dai capelli bianchi e dall’aria saggia ed elegante, egli dice: “Ciascuno di noi è parte dell’altro. Quando un uomo fa male ad un altro uomo, sta facendo male a tutto il mondo, ma anche a se stesso, ora abbiamo capito questa lezione, lei è americano, scriva su questa verità imparata in sud Africa. Il vecchio poi dona il bastone nero della sua famiglia all’afro americano e lo abbraccia. L’americano al suo ritorno mostrerà questo bastone ai suoi figli come simbolo della storia umana e della trasmissione dell’amore e della compassione da padre a figlio, e così sia per sempre.

Quando c’è amore non c’è rimpianto, anche se non c’è ritorno. UBUNTU in africano significa che siamo tutti legati, se tocca a te tocca a me, il perdono non è che l’unica via che abbiamo davanti, la vita scorre nel dolore e nella gioia, cerchiamo di sentirne i suoni, di vederne l’armonioso fluttuare, e di coltivare la terra con i nostri semi, unico modo per veder nascere altrettanti autentici frutti.
Il reverendo che presiede le commissioni recita così la preghiera della speranza: “Signore benedetto, facci sottrarre le vittime dalla morte che da l’oblio, facci raccontare la loro storia, e dare un senso compiuto alla loro fine. Amen.”

Recensione a cura di Fabio Barzagli

[05 marzo 2005]