La Passione di Cristo

di Mel Gibson

di Pietro De Marco
professore di Sociologia della religione all'Università di Firenze

a cura di Marcello Menna 

Ho visto finalmente The Passion, da comune spettatore. Mi è obbligo testimoniare, cattivo ultimo, che si tratta di opera degnissima quanto alla sostanza religiosa (in contesto di preghiera lo si potrebbe anche "vedere in ginocchio", come si è detto), con momenti di grandezza che a mio parere implicano, inscindibilmente, anche qualità filmiche. Ma bisogna saper leggere l'implicazione Scrittura/Immagine, ovvero sapere e vedere, e così "saper vedere". Le obiezioni stroncatorie, nella stessa critica specializzata (ultimo Roberto Escobar, sul "sole24ore" di domenica 18 aprile), appaiono nella sostanza ideologiche, armi usate contro qualcuno, o meri e irriflessi giudizi di gusto.

Guardiamone alcune, anzitutto ideologiche. Non vi sarebbe, si ripete, nel film senso o prospettiva della salvezza cristiana. L'obiezione oltre che scorretta quanto alla lettera del testo filmico risulta di sorprendente superficialità: la narrazione percorre i Misteri dolorosi ovvero le rispettive stazioni del Rosario, segue l'economia della Via crucis nella sua teologia propria, non fungibile né con la fuga in avanti verso la Gloria, cui la Passione è ordinata ma da cui non è tematicamente annullata; né con la fuga all'indietro (così frequente nelle attuali sensibilità 'teologiche') verso un'ordinaria umanità di Gesù che sarebbe più significativa della sua Passione. La rinuncia, se non la ripugnanza, a contemplare i Misteri del dolore nella loro portata salvifica è in conflitto con la densità del Venerdì santo, affermata e vissuta dalla Tradizione cristiana.Dom Columba Marmion, maestro benedettino di spiritualità, apriva con un sommario il capitolo Sui passi di Gesù (che il cruento genio di Gibson ci rende nella loro durissima Verità soprannaturale) di un volumetto del 1919, spesso ristampato, Le Christ dans ses mystères, in questi termini: "Perché la contemplazione dei dolori del Verbo incarnato è sovranamente feconda per le anime; nessun dettaglio è senza importanza [n'est négligeable] nella passione di Cristo, Figlio di Dio, oggetto della compiacenza del Padre; Gesù manifesta particolarmente le Sue virtù nel corso della Passione; vivente ancora, produce in noi la perfezione che contempliamo nella sua immolazione." E il capitolo inizia: "La Passione costituisce il "santo dei santi" dei misteri di Gesù". Produce insofferenza, fino all'ira, che si debba spiegare questo ai cristiani contemporanei. Un altro punto. Si è detto in molti modi e in molte sedi che quell'insistenza sul corpo di Cristo flegellato, reticolo di piaghe e di sangue, è esercizio di sadomasochismo. Vediamo. Gesù è subito (fino dall'arresto nell'Orto) reso da Gibson irriconoscibile. Genialmente, l'occhio chiuso e il volto tumefatto accompagnano l'intero percorso della Passione. La ragione è precisa. Dall'Inizio della via della Croce Gesù è, infatti, realizzazione del Servo sofferente (Isaia 53, 2-3): "Non est species ei, neque decor; et vidimus eum, et non erat aspectus"; "quasi asconditus vultus eius et despectus [disprezzabile]". Gibson sa, con la tradizione cristiana, che nel suo vir dolorum, sciens infirmitatem, "uomo dei dolori, che conosce la fragilità (o: il patire)", è la realizzazione della profezia di Isaia (richiamato in esergo al film, ove si cita Is. 53, 5). E Isaia è con ciò la chiave di quella totale maschera, ed anzi veste, di sangue del corpo di Gesù. Ma segna tutto il film l'inizio stesso del testo profetico (Is. 1, 6): "A planta pedis usque ad verticem, non est in eo sanitas; vulnus, et livor, et plaga tumens, non est circumligata, nec curata medicamine, neque fota [lenita] oleo" (figure della condizione di Israele). 

Su questa sanguinante veste messianica si scatena l'Uomo, portandoGli testimonianza nell'offesa: Rex verminosus! grida il soldato al Coronato di spine. Col salmo: Ego sum vermis et non homo ( Ps. 21, 7).
Certo: nella insistita ferocia dei flagellatori di Gibson (come nel calcolo dei giudici e degli accusatori) vi è l'Umanità secondo il peccato nella sua ribellione al Salvatore. Trascorre Satana alle spalle degli spettatori; è lui il capo dei flagellatori. E mima una contromaternità, l'Anticristo, pronta ad occupare la storia dopo quel fallimento del Figlio che egli attende (l'abiura sotto i tormenti, la croce mancata).
Sempre la tradizione cristiana ha letto universalisticamente, per ogni uomo, i protagonisti della Passione, gli atti dell'uccisione del Figlio-Dio (leggo su www.christianitytoday.com./global/printer. html/…, che Gibson ha detto qualcosa del genere: "Each of us is responsible for Christ's crucifixion"). Dopo aver commentato l'atto (decisivo) con cui dalla croce si attribuiscono maternità e figliolanza a Maria e all'apostolo Giovanni, per cui l'uomo subentra al Figlio nella maternità di Maria, un celebre gesuita, il p. Longhaye, nella Retraite annuelle de huit jours d'après les Exercices de Saint Ignace (1932) scriveva in forma di preghiera: "E' un delitto, un deicidio cui io [io Longhaye, io Uomo] prendo parte, che mi rende nuovamente figlio di Dio. (..) Se io lo voglio, il salario definitivo, eterno di ciò che Gli ho inferto [mon attentat], sarà il Suo amore e il Vostro [di Maria]. Possibile? Sì, perché è vero, è la fede."
È il Christus patiens, cosparso di sangue come lo hilasterion, il propitiatorium dei riti di espiazione del Santuario, che prende il posto dell'arca, luogo della presenza e dell'oracolo di Dio: icona (qui, come nella tradizione dell'arte sacra) del cuore dell'evento redentivo. Intenso e perfetto l'episodio di Maria e Maddalena che ne asciugano (in realtà raccolgono, dono e patrimonio) il sangue dal pavimento della flagellazione.

Maria, dunque. Nei detrattori di Gibson anche la "comprensione" nei confronti della figura di Maria mi pare si riduca a poca cosa. Si sono evocati persino, e scontatamente, la Dea Madre e securizzanti arcaismi. La Maria di Gibson (e della Morgenstern) non è solo nella tenerezza di Madre, così accessibile alla nostra commozione. È anzitutto consapevolezza di essere colei che collabora col Padre nella destinazione del Figlio alla croce (Longhaye). Come risulta dalle voci di diversi forum americani il mondo protestante lo ha colto. Nessun arcaismo, ma mistero trinitario. Da qui la "misura" della condotta di Maria: il sapere sopraffà l'emozione, poiché non vi è per Lei, per dire così, sorpresa dagli eventi. Nella comunicazione Madre-Figlio vi è, secondo le evidenze (Tornielli), la mistica e stigmatizzata austriaca Anna Katharina Emmerick che scrive: "Ella sapeva e sentiva nella sua carne quanto succedeva al suo diletto Figlio e soffriva con lui" (ricordo che Maria ha la certezza della cattura prima della notizia; e un immediato sapere della presenza del Figlio nella cella che è sotto i suoi piedi). Ma in Passion vi è di più: la Madre sa, e sa da sempre (dall'origine), che quella carne è per la Croce.
Gibson e i suoi sceneggiatori sembrano insomma ispirarsi ad un tema teologico-spirituale che dà la vertigine, e che troviamo nella pagina del Longhaye: "Poco più di trent'anni prima la Vergine aveva firmato, presso il Padre, il contratto di nozze gioioso del Verbo con l'umanità personale di Gesù. Non sottoscriverà ora, presso il Padre, il contratto delle nozze di sangue dell'Uomo-Dio con l'umanità battezzata? (…) Il naturale e comune figlio del Padre e della Vergine è consegnato [alla Passione] dalla comune Volontà del Padre e della Vergine Madre. Il Padre lo sacrifica a noi senza poterne soffrire; la Vergine Madre ce lo sacrifica lacerando il suo cuore. E per parte sua Gesù si offre al Padre e Maria al tempo stesso glielo offre. Ella vuole [che sguardo nel Mistero, in questo "vuole"] la Morte di Gesù in comunanza col Padre che la decreta; la vuole in comunanza con Gesù che liberamente accetta il decreto e lo esegue su se stesso". Altissimo momento, in questo senso, il Cristo di Gibson e di James Caviezel che spende le ultime forze per stendersi da solo sulla croce: Oblatus est quia ipse voluit. 

Tale è la Madre, "sacrificatrice col Padre, vittima col Figlio", che agisce in The Passion. La vediamo, nella vigile protezione ch'esercita sulla fedeltà del Figlio al contratto segnato, alla parola data (da Lei), percorrere la salita al calvario in parallelo e antagonismo con Satana, il tentatore del Figlio. Straordinaria intuizione che avrebbe meritato ancor maggiore sottolineatura drammaturgica. L'esclamazione di Maria ai piedi della croce (citazione dalle rivelazioni della Emmerick): "Lascia [cioè: fai] che io muoia con te", è testimonianza della scienza che Maria ha della divinità del Figlio, e della volontà che la Madre ha di ricongiungersi con la Vittima.
The Passion provoca e vuole riflessione religiosa. Niente vi "offusca il messaggio stesso della Passione"; molto vi dichiara che "solo l'amore dà un senso e un indirizzo al dolore" (per citare un luogo del card. Ratzinger usato contro Gibson), ma senza ridurre questo enunciato a inoffensiva metafora, birignao omiletico. E neppure "sangue solo" in The Passion. Né "fondamentalismo" (come invece ancora suggerisce Giovanni De Luna, sulla "Stampa"); piuttosto la dimensione cristiana dell'Occidente (anzi del mondo) vigile e cosciente di sé. In realtà l'opera ‘parla’ a quanti hanno volontà di guardare con occhi fermi, con o senza lacrime, la Croce, necessaria e fidelis.

P.S. Aggiungo. Quell'alleanza "davvero storica tra ebrei e cristiani, in piena attuazione", di cui ha scritto Phyllis Chesler (Foglio del 7 aprile, ove riconosce lealmente che il film "ha una sua maestà e integrità teologica"), non trova un ostacolo nel rischioso fascino di The Passion. La contemplazione aperta del dramma originario che divide eppure lega inseparabilmente, carnalmente, ebrei e cristiani diviene anzi un nuovo (fosse pure traumatico) momento di unità; altri sono i nemici. Valuti la scrittrice quanti critici ostili di Israele vi siano tra i nemici di Passion, e tema piuttosto coloro che non vogliono gli Ebrei capaci di stato e di politica nazionale nella storia mondiale, molto più di coloro che nel crucifige! irrogato al Giusto dall'antica autorità ierocratica del suo popolo vedono l'irruzione della comune Salvezza. Il popolo ebraico non ha più niente da temere dalla Croce, il dulce lignum che ha fatto e fa della vocazione d'Israele il perno spirituale della storia del mondo. Ma, ebrei e cristiani, abbiamo necessità di occhi teologici per intendere, non di 'laica' indisponibilità (penso all’intervento di Wieseltier, Foglio del 2 marzo) di fronte a quel Mistero che fonde la nostra colpa con la nostra salvezza.