Il Manifesto e il padre
A sorpresa, per una volta piacevole, Il Manifesto del 13 marzo 2011 si occupa di padre e paternità in modo non denigratorio o svalutativo, ma indicandone anzi alcuni aspetti o funzioni decisivi per la trasmissione fra generazioni.
Lo fa pubblicando alcuni passaggi del libro “Cosa resta del padre” (Cortina editore) dello psicanalista lacaniano Massimo Recalcati, collaboratore abituale di quel giornale. Quelle pagine meritano un commento nel merito non velato da pregiudizi, e questo cercherò di fare premettendo che non sono uno specialista di psicanalisi e tanto meno abituato al linguaggio un po’ criptico dei seguaci di Lacan.
Riassumendo per sommi capi, la tesi di Recalcati si può schematizzare in alcuni punti.
1) Il nostro è il tempo dell’apologia cinica del consumo e dell'appagamento senza differimenti.
2) L’esperienza del limite, della sconfitta, non ha più cittadinanza perché “il discorso sociale dominante esalta l'aggiramento della castrazione come perno della nuova morale iperedonista”.
Tanto che “Il disagio della giovinezza prodotto dal discorso del capitalista è un disagio legato a un effetto di intasamento e di intossicazione generato dall'eccesso di godimento e dal declino della funzione simbolica della castrazione”
3) Contemporaneamente, si registra non solo la difficoltà “normativa” della famiglia, ma è in crisi anche l’altro elemento dell’educazione familiare, ovvero la trasmissione del “desiderio da una generazione all'altra”, con la “difficoltà nel dare testimonianza di cosa significhi desiderare”.
Ne discende che “Il problema che contraddistingue il nostro tempo consiste nel come riuscire a preservare la funzione educativa propria del legame familiare di fronte a una crisi sempre più radicale e generalizzata del discorso educativo.”
4) Dall'egemonia incontrastata del discorso del capitalista scaturisce l'evaporazione del padre, il cui doppio compito consiste nell’ “Essere chiamati a introdurre un «No!» che sia davvero un «No!» (un mio paziente tossicomane si lamentava di non aver mai incontrato un «No!» di questo genere) e, al tempo stesso, saper incarnare un desiderio vitale e capace di realizzazione. Perché questo doppio compito è oggi così difficile da sostenere?”
5) La risposta alla domanda di cui sopra si situa in una doppia angoscia genitoriale.
“La prima è relativa all'esigenza di sentirsi amati dai loro figli. Questa esigenza è inedita e ribalta la dialettica del riconoscimento: non sono più i figli che domandano di essere riconosciuti dai loro genitori, ma sono i genitori che domandano di essere riconosciuti dai loro figli. In questo modo la dissimmetria generazionale viene ribaltata.” Da quì la difficoltà a pronunciare il “No”. Tuttavia per Recalcati “Resta indispensabile che qualcuno - al di là delle differenze di genere e anche al di là del legame di sangue perché, come usava ripetere spesso l'ultimo Lacan, «qualunque cosa» può porre in esercizio la funzione paterna - si assuma il peso dell'atto di introdurre la castrazione simbolica. Considerando però che in questo atto di interdizione è già in gioco un movimento di donazione. Perché la Legge che il padre incarna, senza pensare mai di esaurirla nella sua persona, non si manifesta affatto come una pura negazione repressiva, ma come ciò che sa rendere possibile il desiderio…”.
La seconda è quella “legata al principio di prestazione. Lo scacco, l'insuccesso, il fallimento dei propri figli sono sempre meno tollerati …..Le attese narcisistiche dei genitori rifiutano di misurarsi con questo limite attribuendo ai figli progetti di realizzazione obbligatoria…..”, laddove l’antica aspirazione di immedesimarsi in un proprio discendente (il “Diventa come me” del tempo dell’Edipo e del conflitto intergenerazionale, con tutto il carattere fallico dell’investitura e quello sacro dell’identificazione) hanno lasciato il campo alla “necessità di occultare ogni imperfezione”…. Avere un figlio senza difetti, capace di prestazione, riflette le angosce narcisistiche dei genitori…. terrorizzati dalla possibilità che l'imperfezione possa perturbare l'apparizione del loro figlio come ideale... Ne consegue che i nostri giovani non sopportano più lo scacco perché a non sopportarlo sono innanzitutto i loro genitori.
6) Il fallimento, invece, è necessario in quanto antidoto al narcisismo del nostro tempo. “Perché ci sia incontro con la verità del desiderio è necessario smarrirsi, fallire, perdersi. Chi non si è mai perduto non sa cosa sia ritrovarsi...” I giovani sono coloro che “Sanno perdersi e ritrovarsi... Ma è fondamentale la presenza degli adulti perché questo avvenga. Sono necessari una casa, un legame, un'appartenenza perché l'erranza dia i suoi frutti. È necessario che i genitori sappiano tollerare le angosce di questo andirivieni. “
7) La società capitalistica moderna, che sostiene il potere feticistico, idolatrico, delle cose e “astutamente ne sfrutta l'inconsistenza” è il regno della «libertà immaginaria», della libertà del godimento che in realtà è una manifestazione del Super-io, ovvero dell'istanza che nega ogni forma possibile di libertà, che rende schiavi”. Ma “questa libertà non è il lievito del desiderio, per usare un'immagine evangelica, ma una nuova forma di schiavitù che rigetta ogni forma di responsabilità.”
In questa schematizzazione, se sono riuscito a condensare bene il pensiero di Recalcati, esistono alcune indubbie verità, la prima delle quali è quella sul carattere falsamente libero della società moderna. Sembra di leggere Zigmut Baumann, il teorico della società liquida di cui ci siamo occupati più volte. Fin qui nulla di nuovo, siamo su un terreno già ampiamente arato da Il Manifesto, e sul quale concordiamo ampiamente. Invece gli elementi di novità che propone Recalcati, per certi aspetti dirompenti nell’ambito culturale di quel giornale, sono essenzialmente due: il riconoscimento dell’importanza del legame familiare per l’educazione dei giovani e, più ancora, il riconoscimento della funzione paterna della quale non solo si sottolinea positivamente l’aspetto normativo (il No, ovvero la castrazione simbolica), ma anche l’aspetto di apertura verso il futuro, dunque di apertura ai valori del sociale che si sostanzi innanzi tutto nella scoperta/appropriazione di un desiderio autentico. In linguaggio junghiano diremmo “la conquista del sé”. L’investimento di Recalcati sulla figura paterna, però, mi sembra fortemente limitativo allorchè scrive che “qualunque cosa” può porre in esercizio la sua funzione specifica.
Il primo interrogativo che si pone è se il principio paterno e l’ordine simbolico che ne scaturisce, possano essere scissi del tutto da ogni riferimento concreto a ciò da cui hanno origine. In altri termini se è davvero possibile che la funzione paterna sia esercitata compiutamente ed efficacemente a prescindere dal padre reale, o volendo allargare il campo, da un maschio adulto che assuma la sua maschilità in senso alto, dunque anche come paternità putativa o spirituale.
Non così, ad esempio, pensa Luisa Muraro rispetto all’ordine simbolico della madre, che la filosofa della differenza mette sempre in relazione stretta col vissuto concreto delle donne, siano esse biologicamente madri o meno. Il che mi sembra del tutto ragionevole, pena la completa astrattezza del simbolo e il suo perdersi in spazi siderali fino all’annullamento di ogni sua valenza psichica, di ogni suo utilizzo nel processo di identificazione, e quindi persino, infine, della stessa riconoscibilità della definizione. Se infatti la funzione paterna può essere assolta indifferentemente da chiunque, la madre o la Società o lo Stato, che senso ha più chiamarla “paterna”?
Se poi osserviamo la storia, e in particolare la storia sociale e giuridica della paternità, ci accorgiamo che il tentativo di surrogare il padre è stato, e soprattutto è, già ampiamente in atto con gli esiti disastrosi che lo stesso Recalcati sottolinea più volte. Diversi autori si sono cimentati nel lavoro di documentazione di questa tendenza. Solo per citarne alcuni: Alexander Mitserlich (Verso una società senza padre), Dieter Lentzen (Alla ricerca del padre), Luigi Zoia (Il gesto di Ettore), M. Cavina (Il padre spodestato), Paolo Ferliga (Il segno del padre), e Claudio Risè (Il padre l’assente inaccettabile).
Si può dire che nel corso dei secoli, compiti, ruoli e funzioni della figura paterna sono stati via via limitati e spostati verso altre figure (la madre o lo Stato), tanto sul piano simbolico, che su quello teorico e legislativo, e di conseguenza su quello concreto. Ma sono precisamente gli esiti a cui richiama Recalcati che dimostrano l’insurrogabilità del padre, e per conseguenza, per ciò che ha di peculiare, della madre. Non si tratta di negare a quest’ultima un qualsiasi ruolo normativo all’interno della sfera familiare o di negare al padre anche un ruolo di accoglienza o di cura verso i figli. Sappiamo bene che Animus e Anima convivono nei due generi e che l’integrazione di quello controsessuale è importantissimo affinchè l’aspetto specifico di un genere si esalti e si completi anziché insterilirsi nell’unilateralità.
Ma da qui all’intercambiabilità e all’indifferenza ce ne corre. Un altro effetto sottovalutato della mancata “castrazione” paterna, come sottolinea Risè, che preferisce chiamarla ferita, è anche il fatto che “i figli rimangono a terra, in preda ai bisogni materiali per tutta la loro vita”. Ed è precisamente ciò che la società iperedonista dei consumi sfrutta a proprio vantaggio, ma su questo tornerò fra poco. In ogni caso, tutti i dati empirici dimostrano che ove il padre sia assente fisicamente o figura debole del nucleo familiare, nei figli si sviluppano patologie. Prima di tutto sul piano identitario , laddove il corredo istintuale umano di partenza è debole e l’essere maschio o femmina deve essere appreso, ma poi anche su quello sociale.
La tendenza dei giovani a delinquere, ma anche al suicidio e infine a diventare vittime di altrui violenze, è tanto più frequente quanto più i ragazzi sono cresciuti in famiglie fatherless, come dimostra C. Risè nell’opera citata sulla scorta di dati statistici Usa, peraltro analoghi a quelli raccolti in altri paesi, quelli che hanno capito la necessità di mettere in correlazione certi eventi e non si rifiutano di farlo in nome del politicamente corretto dominante. Se padre e madre non sono intercambiabili, tanto meno possono essere surrogati da parte dello Stato. In questo senso ogni tentativo da parte delle istituzioni di sovrapporsi alla famiglia, si è rivelato sempre fallimentare. Nei paesi del socialismo reale, dove i genitori venivano considerati in pratica dei funzionari statali addetti all’educazione dei giovani, ma anche nei moderni paesi occidentali, dove esigenze produttive e mainstream culturale spingono incessantemente a sollevare le famiglie dai loro compiti primari per attribuirli ad enti statali. Un’altra grave conseguenza sul piano sociale dell’affievolimento della figura paterna e dell’assunzione dei suoi compiti da parte di altre figure è la fine delle “iniziazioni”, considerate un inutile retaggio delle società patriarcali.
Scrivevo all’inizio della positività del richiamo di Recalcati al legame familiare, ma anche qui è bene intendersi sul concetto di famiglia. Si tratta di una semplice unione d’amore fra due persone, indifferente sia al loro sesso che all’istituzionalizzazione del legame, oppure perché si possa sviluppare pienamente la sua valenza positiva sono necessarie, o meglio auspicabili, certe condizioni fondamentali, come ad esempio la presenza di un padre e di una madre? Ancora una volta la differenza è decisiva affinchè il discorso di Recalcati abbia senso positivo e non si perda nell’indeterminatezza, o peggio funga da supporto proprio a quelle tendenze che si dice di voler contrastare. Problema, d’altra parte, che è pienamente presente nella linea culturale de Il Manifesto, da sempre in prima linea nel negare validità alla famiglia tradizonale, considerata anzi il principale crogiolo delle violenze nonché l’ostacolo per eccellenza al dispiegarsi della libertà soggettiva, soprattutto femminile. Da questo punto di vista sono “esemplari” le battaglie condotte da Il Manifesto per negare non solo qualsiasi specificità paterna, ma per mettere in discussione la sua stessa importanza per un sano ed equilibrato sviluppo psichico dei figli, a tutto vantaggio della figura femminile/materna. Prova ne siano le campagne a favore della fecondazione eterologa per coppie lesbiche o per madri single, casi in cui la mancanza del padre è programmata fin dall’inizio della vita, evidentemente perché se ne disconosce l’insostituibilità per il figlio.
Un altro punto da evidenziare positivamente dello scritto di Recalcati, è il richiamo al narcisismo dei genitori odierni che si sostanzia nella incapacità di sopportare l’imperfezione dei figli. Eccellente analisi e descrizione della realtà, ma se guardassimo il problema oltre l’aspetto più evidente, ci accorgeremmo che di esso fa parte, anzi ne è alla base, anche la libertà di abortire un figlio appunto non perfetto secondo i parametri “prestazionali” vigenti, nonché quella di scegliere il “migliore” fra gli embrioni installati nell’utero materno con le tecniche di fecondazione assistita. Incombe il tema del ritorno strisciante di concezioni eugenetiche, sia pure non imposte dallo Stato ma lasciate alla “libera”, in realtà socialmente indotta, determinazione dei singoli. Ed anche in questo caso risulta evidente la contraddizione irriducibile con quanto Il Manifesto ha sempre sostenuto in materia. Allorchè la libertà individuale non viene ancorata, dunque anche in qualche modo autolimitata, alla ricerca del vero e del bene o meglio di un vero e di un bene che non siano puramente autoreferenziali, si finisce anche non volendolo con lo sposare la concezione borghese, e nichilista, dell’individuo.
Infine, proprio a proposito di borghesia e capitalismo, non può non rilevarsi un’altra contraddizione.
Scrive Recalcati che “dall'egemonia incontrastata del discorso del capitalista scaturisce l'evaporazione del padre”. Se le parole hanno un senso, allora capitalismo e patriarcato sono in contraddizione l’uno con l’altro, del tutto differentemente da come un giorno si e l’altro anche leggiamo su Il Manifesto e su altri giornali d’area. Allora, dal momento che non può darsi un patriarcato senza padre e che la scomparsa del padre viene associata, giustamente, a evoluzioni sociali negative, ne discende che la definizione del patriarcato come un sistema teso all’oppressione delle donne (e dei figli) è una banalizzazione. Come ogni fenomeno umano, per coglierne i complessi significati deve essere valutato nel contesto in cui sorse, alla luce di ciò che c’era prima e per gli sviluppi che ha generato, mentre le semplificazioni unilaterali falsano il problema a partire dall’origine, ossia dalla sua stessa definizione. Ne discende anche che la lotta contro il patriarcato non coincide affatto con la lotta contro il capitalismo. Anzi, se è il capitalismo a determinare l’evaporazione del principio paterno, allora guerra antipaterna e capitalismo finiscono per coincidere. Non appare quindi come un caso che il femminismo più antipaterno e antimaschile, sia sorto nelle società borghesi capitalistiche e che di queste, nonostante i proclami avversi, abbia pienamente assunto i principali fondamenti culturali e antropologici. Fondamenti che solo oggi, per parafrasare Marx, appaiono finalmente evidenti, spogliati da tutti quei paludamenti funzionali ad una sua fase ancora embrionale e di cui si sta rapidamente sbarazzando. Pier Paolo Pasolini lo aveva intuito già molti anni orsono. Ne discende infine che, fermo il fatto che delle libertà fa necessariamente parte anche la libertà d’impresa, qualsiasi critica culturale e antropologica al capitalismo e/o alle storture della modernità , dovrebbe partire dalla critica alla distruzione sistematica da esso operata di tutto ciò che nel corso del suo sviluppo gli è diventato d’ostacolo. In primo luogo, appunto, dall’”uccisione” progressiva del padre, avvenuta dapprima scindendo la sua funzione di “limitatore” e “incanalatore” delle pulsioni psichiche elementari da quelle più ampie di educatore complessivo (non è questo lo spazio per farlo, ma sarebbero anche da analizzare i nessi fra questo fenomeno e quello della secolarizzazione). E poi, a separazione avvenuta, dimostrando che la funzione di “limitatore” così isolata e resa fine a se stessa, discendeva direttamente dalla natura oppressiva e autoritaria in sé della paternità. Ma come può farlo Il Manifesto che di quel processo tutto condivide?
Armando Ermini