Senza padre - Intervista a cura di Maria Serena Palieri

Da L’Unità del 28 settembre 1996

Claudio Risé è un uomo dall’identità professionale singolare: è psicoanalista junghiano, insegna all’Università Polemologia – chissà se la sua «scienza della guerra» è più vicina ai poemi di Omero o alle strategie del pentagono – e cura per le edizioni Red una bella, originale collana di psicologia. Risé (che vive a metà tra il Sud Tirolo e Milano e ha due figli, uno di 23 e l’altro di 4 anni) in libri come Parsifal, Il Maschio selvatico, Maschio amante felice (pubblicati i primi due per Red, il terzo per Frassinelli) ha affrontato il tema bollente dell’identità maschile. Bollente perché sull’argomento regna la più grande e sperequata confusione: di maschile in giro, a vedere con occhi di donna, ce n’è fin troppo, sul palcoscenico sociale continuano a esibirsi e comandare dappertutto gli uomini; però ce n’è troppo poco: non c’è uomo che non manifesti una specie di senso di colpa per il proprio sesso.

D - Prof. Risé, lei ha scritto che la malattia dell’identità maschile deriva dalla scomparsa dei padri. Quand’è che i padri avrebbero cominciato a farsi evanescenti?

R - Il fenomeno è diventato eclatante con la fine della seconda guerra mondiale. Per un fatto concreto: gli uomini, lì, sono stati lontani a lungo e la vita familiare e sociale nel frattempo è stata retta dalle madri, poi molti non sono tornati perché erano morti. Alla fine della guerra è cominciato anche un nuovo modo di vivere: è finito il rapporto tra padri e figli durato dalla bottega medievale ala piccola impresa ottocentesca. Quel legame che nel tempo libero si basava sull’istinto e nel lavoro sulla trasmissione di un sapere. Le grandi aziende hanno tolto i padri alle famiglie, come grandi madri li hanno cooptati azzerando il loro rapporto coi figli.

D - I “senza padre” sono gli uomini che hanno dai 60 anni in giù?

R - Ha cominciato quella generazione, poi è diventata una consuetudine.

D - Ciò che lei chiama “matrizzazione” allora è un fenomeno nato dalla politica e dall’economia?

R - Le cose, lei sa, vanno insieme. Robert Bly, l’iniziatore del movimento degli uomini negli Stati Uniti, sostiene correttamente che la figura paterna comincia ad incrinarsi nell’Ottocento, con l’industrializzazione. Cita dei bellissimi passi in cui D.H. Lawrence racconta del padre, minatore, che la sera tornava sporco e si lavava via il nero nella tinozza in cucina, mentre la madre, maestra, diceva a lui, bambino, che avrebbe dovuto studiare per sottrarsi a quel tipo di maschilità primitiva, vergognosa.

D - All’Ottocento però annettiamo anche un’idea solenne di padri-Mosé: Marx, Tolstoi

R - E’ il secolo che mette l’uomo sotto i vincoli della produzione capitalistica, chiude le relazioni dentro il modello della famiglia-piccola azienda, dove è la donna, piuttosto, a portare la cultura, l’uomo porta la fatica. E di istinto non ce n’è più per nessuno. Però il processo è lento.

D - I padri a cosa servono?

R - Secondo la psicanalisi classica c’è una tradizionale divisione dei compiti: il neonato acquista appartenenza corporea attraverso la relazione col corpo della madre e sviluppa l’affettività nel rapporto affettivo con lei, il padre fa da ponte col mondo, la norma, l’ideale.

D - Oltreché classica ritiene l’idea giusta?

R - Secondo me si. La madre, il femminile, ha una forte relazione col bisogno e la capacità di soddisfarlo. Il padre, il maschile, porta una spinta ideale, verso una direzione lontana: è un aspetto molto importante della spinta fallica.

D - Cos’è in concreto, questa spinta ideale?

R - Quello che gli americani chiamano “vision”: la produzione di progetti sociali che vanno oltre la soddisfazione dei bisogni. Proprio quello che hanno fatto quegli uomini con la barba dell’Ottocento. Visioni giuste o sbagliate, l’azzardo di produrle è essenziale per la società.

D - Di spinta ideale abbiamo bisogno tutti, uomini e donne. Ma che cosa in più ha bisogno, in maschio, di ricevere dal padre?

R - La trasmissione di un’identità di genere: un modo di percepire e comunicare l’emozione e il sentimento, una cultura, in senso antropologico, del rapporto col corpo, con la natura, con l’istinto, con gli altri.

D - Cita la “comunicazione silenziosa” come tratto tipico del rapporto tra padre e figlio. Che cos’altro una madre non può insegnare?

R - La fisicità maschile, naturalmente, perché ha un altro corpo. Quella maschile si sviluppa molto nel cimento, nella prova. Non parlo tanto di competitività tra uomini: questa mi sembra un’invenzione delle donne che tra loro sono molto competitive. Ma di cimento col mondo, per esempio con la natura. Questo, che è molto importante nella formazione di un giovane uomo, deve venire da un maschio, se non è un padre sia un istruttore sportivo, una guida alpina…Sennò l’uomo avrà una relazione vacillante col proprio corpo. E già l’uomo ha un funzionamento della corporeità labile, perché non ha, come la donna¸un corpo pulsante, ciclico, costretto a generare. Tant’è che è disposto molto di più a mettersi a rischio fisicamente.

D - Se questo insegnamento al corpo manca, al figlio che cosa succede?

R - E’ un po’ nei guai…La base è un’angoscia, magari mascherata. Il modo più facile di coprire uno sviluppo corporeo insicuro è sviluppare l’intelletto. E questo i maschi l’hanno fatto molto bene. Ma l’intellettualismo non vale niente, anche perché la razionalità maschile non è così ferrea, qualunque insegnante sa che donne ragionano molto meglio. Quanto alla sintomatologia dell’angoscia maschile, è cronaca di questi giorni: dai mariti che, abbandonati dalla moglie, la inseguono per quindici anni, ai ragazzi che chiudono con le donne alle prime difficoltà, magari si danno un diverso orientamento sessuale senza avere prima ben esperito la propria gamma istintiva. C’è un tratto dei maschi “fatherless” che mi sta molto a cuore: l’incapacità di rischio, la fantasia di poterlo abolire e l’enorme delusione ogni volta che esso riappare sotto forma di frustrazione. Questa visione assicurativa della vita è proprio il risultato della sparizione del padre da dietro le spalle.

D - L’ammonimento classico dei padri ai figli, almeno così si legge nei romanzi, si condensava nella frase «sii uomo». Cioè «reprimiti». L’appello «sii uomo», che in fondo lei lancia coi suoi libri, ha lo stesso senso?

R - Questa frase è stata dileggiata anche oltre misura. Certo, l’uomo quando deve piangere può piangere. Ma nel diventare uomini, perché tali non si nasce, si diventa culturalmente, si impara anche trasformare la manifestazione del sentimento: la lacrima è riservata ai momenti inderogabili, il bambino viene tolto dal capriccio dicendogli: «ti tocca un’altra “strada” oltre quella di piangere perché non ti è stata data la cioccolata». Certo, poi le traduzioni sono più o meno precise, raffinate o anche sadiche.

D - Non è un messaggio sessista?

R - L’elaborazione del femminismo, per gran parte, ha indagato la differenza tra maschi e femmine. C’è, e va valorizzata.

D - Non piangere fa parte davvero dell’identità maschile?

R - Ha sempre a che fare con la questione del cimento. Imparo a non piangere per la cioccolata perché poi avrò perdite molto più gravi. Nell’immagine di sé che gli uomini si sono fatti, ma anche per quel che ricavo dalla mia osservazione psicologica e antropologica, c’è questo impegno a consegnarsi alla società: le emozioni sono tutte buone e valide, ma si può piangere per quelle personali importanti. Oppure transpersonali: i momenti di emozione che riguardano la società in cui, in quanto uomo, si è chiamati dal padre a svolgere una funzione fallica, di donazione. Le lacrime del presidente americano quando accolse le bare coi soldati morti che tornavano dall’Iraq, il pianto di gioia o di dolore dell’atleta per la vittoria o la sconfitta.

D - Abbiamo chiesto agli uomini di imparare a esprimersi di più, a scoprire il proprio “femminile”, e lei dice: uomini, siate maschi?

R - E’ una questione di tempi. Lo sviluppo della parte femminile nell’uomo è un passaggio totalmente essenziale, ma secondo me non può avvenire utilmente finché non è stata sviluppata l’identità maschile che apre la porta, ama quest’altra parte del Sé e le dà la parola. Altrimenti, c’è una copiatura malfatta di una maniera femminile, l’uomo dolce che in realtà è una contraffazione, quello che gli americani chiamano “soft male”.

D - Lei sostiene che, nei paesi occidentali, ha prevalso una cultura che denigra tutto ciò che è fallico. Di nuovo: polemizza col femminismo?

R - Non c’entra niente. C’entra la scomparsa dei padri. Le donne hanno fatto tutto quello che potevano per tirar grandi questi figli, spesso da sole. Anzi, per certi versi il femminismo è una reazione a una situazione che finisce per privare tutti di autenticità, e il recupero di un’identità profonda da parte della donna. Di cui il movimento degli uomini si sta giovando molto.

D - Il movimento di Bly ne copia il separatismo.

R - La riscoperta di genere si fa così, ritrovandosi tra simili e raccontandosi, ognuno nei propri territori: le donne si trovavano più nelle case, gli uomini nei boschi.

D - Nelle foreste in cerca di nuovi riti collettivi. Quelli vecchi, come il calcio, onestamente le sembrano scomparsi?

R - La partita di calcio vista, anziché allo stadio, a casa sul divano accanto a moglie e figlia è già significativa. In Sud Tirolo dove vivo parte dell’anno mi è capitato di vedere case a schiera dove lo spazio maschile è già previsto: in cantina, il posto del Black and Decker per rifinire gambe delle seggiole. Anche nelle metropoli l’uomo è diventato una specie di topo che sta nei sottosuoli a fare “bricolage”.

D - I “suoi giochi”…

R - Detto giustamente, con compatimento. Perché poi negli uomini si sviluppa una dimensione ossessiva. Uomini e donne soffrono, ognuno a proprio modo di una cultura creata da un modello economico.

D - Lei ha scritto per “Il Giornale” un articolo molto polemico contro la proposta di dare ai figli la possibilità di scegliere, a diciott’anni, il cognome della madre. Lei stesso citava invece come evento positivo la marcia del milione di neri a Washington l’anno scorso.

R - Ciò che mi interessa è quando gli uomini sentono di nuovo il bisogno, come quegli americani, di riprendersi le responsabilità dello status di padri. Non sto a dire cosa devono fare le donne, ognuno parla per sé, ma mi sembra un interesse comune. Se invece prevale la logica di potere, chi ne ha di più o chi ce l’ha e non lo molla, si va allo scontro e nello scontro tutti perdono.

D - I maschi sotto i quarant’anni sembrano lieti di fare i genitori. Però con una cosiddetta «nuova tenerezza». Sono dei padri «matrizzati»?

R - L’imitazione del materno è frutto di quell’assenza di identità maschile, è disarmonica. La tenerezza va benissimo. Il padre che sta col bambino ci sta con tutto, istinto e tenerezza. Se la tenerezza manca, poi, non passa niente. Ma l’importante, col figlio, è starci.