Claudio Risé: un'intervista "Passaggio al bosco", a Gianni Perotti, Re Nudo, Luglio/Agosto 1999

Tu parli nei tuoi libri e nelle conversazioni che tieni alla radio e nelle interviste di "passaggio al bosco" e di ricerca della "wilderness". Cosa intendi con questi termini e dove ti porta questo passaggio?

La selvatichezza - come preferisco tradurre il termine wilderness - è il luogo psicologico ma anche scientifico dove l'essere umano ritrova la sua direzione istintuale, la sua natura organica in relazione ad un aspetto trascendente. L'aspetto trascendente centra in quanto ogni terra è portatrice di un dio così come ogni bosco è contenitore di aspetti sacri. Quindi questa dimensione della selvatichezza, questa relazione con il wilderness rappresentano una continua rigenerazione. Tanto più determinante ed urgente quanto più noi oggi siamo alla fine di un certo tipo di civiltà che ha fortemente rimosso tutti gli aspetti organici istintuali e trascendenti di cui portiamo i traumi a partire dalla mancanza appunto di orientamento istintuale. E' il "vuoto" caratteristico della nostra epoca.

Nella donna il bosco prende il significato dell'interezza con se stessa; Artemide, Diana, è la regina dei boschi, è il luogo della sua indipendenza.

Per l'uomo il ristabilimento della relazione con la propria dimensione di selvatichezza è indispensabile per ritrovare non solo la propria totalità, ma soprattutto per rompere la separazione mente-corpo e la separazione del sacro, dal trascendente che è stata una caratteristica della modernità e che sembra rappresenti una profonda lacerazione alla quale in qualche modo con movimenti come la new age o altro alcuni settori cercano di reagire. Insomma non mi sembra un passaggio come un altro ma un passaggio fondamentale per l'uomo di oggi e di domani senza il quale è impossibile recuperare la libertà. E' impossibile uscire dalla schiavitù della civiltà del consumo dove ciascuno esiste in quanto consuma ed è ciò che consuma senza recuperare questo tipo di integrità e di forza che si acquisisce appunto attraverso il passaggio al bosco, metaforico e fisico, simbolico e psicologico. Il passaggio diventa necessario per liberarsi da tutti questi tipi di schiavitù, del consumo, del "political correct", dal dire ciò che non si pensi o di dirlo in un certo modo ecc. E, a partire da lì, avere delle relazioni libere. Le relazioni libere nascono dalla tua libertà.

Il bosco è anche il luogo del segreto, dell'insolito. Quando da bambino entravo in un bosco venivo assalito da un fremito di eccitazione ma anche di paura. Anche adesso per la verità: da una parte mi attira, dall'altra mi inquieta profondamente. Perché questo effetto perturbante?

C'è anche il discorso sulla morte: il bosco come grande dimora della morte in quanto luogo della dissoluzione, luogo in cui ci si perde, perciò luogo della paura. Ma ciò che ci fa più paura più di ogni altra cosa è la morte. Così il passaggio al bosco è innanzi tutto marcia verso la morte attraverso la più profonda meditazione su di essa. Percezione ed accettazione della stessa. Questa è una società che ha negato la morte, la morte è diventata uno sbaglio, non bisogna mai morire, tutta questa cosa che è un puro delirio paranoide, che oltretutto getta l'uomo nel terrore, a causa del quale egli passa la propria esistenza alla ricerca di qualche prodotto chimico o ideologico o di qualche frigorifero che gli garantisca la vita in eterno.

Viviamo in modo equivoco, da una parte la perfezione altissima, veloce della civiltà tecnologica dell'Occidente, il Titanic, insolente, ignorante delle forze primordiali, dall'altra la nave dei pirati o il bosco e le forze dionisiache e tutto ciò che dentro di noi sono in grado di suscitare. Noi siamo contemporaneamente sul Titanic, cioè su questa grande macchina tecnologica, perfezionatissima, lussuosa, volgare, convinta di essere eterna e che naturalmente si sfracellerà sul pak perché lui è già li molto prima di lei, e in una sensazione di insicurezza. Però se diventiamo consapevoli di tutto questo e se ci poniamo nella situazione in cui diventa possibile relazionarsi con la selvatichezza, cioè di come sviluppare una relazione con essa, ognuno di noi può interiormente, insieme con altri, passare al bosco. Sul Titanic ci siamo per tutta una serie di ragioni per cui non possiamo scendere perché c'è il mare aperto, però abbiamo la possibilità di coltivare non solo individualmente ma anche in piccoli o grandi gruppi questa dimensione del bosco.

Non dobbiamo pensare che la selvatichezza sia solo andare in un bosco, sicuramente è anche questo, questa dimensione ci manca totalmente, ne abbiamo una necessità urgente, ma è anche altro. Hans Pieterturche [i.e. Hans Peter Duerr] ci tiene molto a questa dimensione, lui che ha fatto una lunga polemica con un sociologo della civiltà delle buone maniere molto amato da tutti i liberals di tutto il mondo, quando gli hanno chiesto: "Ma per lei cos'è, come fa a trovare le wilderness?"

Lui disse: "Io mi ricordo la prima esperienza più forte che ho avuto di wilderness, più forte di tutti il mio lavoro di antropologo, è stato proprio quando da bambino giocavo tra le rovine di Dresda in mezzo alle ortiche che erano molto più grandi di me." Per cui la wilderness o la selvatichezza benché per la nostra civiltà del Titanic per forza di cose sia da cercare nella natura selvaggia, è anche nelle metropoli. Se le "immagini" sono selvatiche, se i gesti sono selvatici, l'uno non esclude l'altro. Servono tutte e due le cose, perché la selva ha una sua forze specifica: l'orientamento, l'acqua, il fuoco, ecc. che nella dimensione urbana non ci sono. Però come in tutte le relazioni anche questa va da qui a molto lontano per cui l'uomo che sta in questa relazione la porta sicuramente anche molto molto lontano. A questo punto si possono raccogliere solo dei dati esperienzali, delle vere esperienze di relazione.

Perciò a questo punto non posso che domandare a te in che modo ti senti coinvolto in questo discorso e come tu rimetti in circolo le tue energie in relazione al corpo e al sacro.

Il mio "maschio selvatico" è la parte di me che sviluppa nell'introversione e nel silenzio la sua opposizione all'estroversa e rumorosa società occidentale tardomoderna dello sterminio, del consumo e dello spettacolo.

Io l'ho incontrato molte volte nella mia vita, mi ha insegnato ad amarlo, a dargli spazio. E' entrato nelle mie giornate di bambino, quando le passavo da solo, nel giardino che mi sembrava sterminato, ai piedi dell'Ossola risuonante di spari, e intorno e attraverso passavano facendo fuoco e inseguendosi i tedeschi, le brigate partigiane di Moscatelli, i repubblichini di Salò. Mia sorella piangeva, spaventata; io salivo sulle piante. Poi tante altre volte, dopo, il Selvatico mi ha preso per mano. Nella Milano bombardata del dopoguerra, mi ha portato tra gli orti, o a fare il bagno nelle rogge con le alghe lunghe che accarezzavano la schiena, e le rane che saltavano a riva spaventate. Era sempre lui, più tardi, a tirarmi giù negli stagni bassi della Camargue, a inseguire i tori nuotando accanto al cavallo, all'alba, nella scia rossa di piscio dei neri cornuti, lucenti. Perché è lui, il maschio selvatico, che porta gli uomini, ma anche i bambini (come il Cristoforo con Gesù bambino), dove è vitale anche quando il delirio della fabbricazione ha distrutto tutto ciò che è naturale, e istintivo, a cominciare dalla libertà. E' lui sempre a condurmi in quell'al di qua, che è poi la selva, il bosco (fuori e dentro di me), che riapre la dimensione dell'immaginario, del sogno, quindi della vita. Che mi aiuta a ritrovare quella selvatichezza, che gli stereotipi, i ruoli, le "buone maniere" non hanno ancora completamente ucciso. Se ce l'ho fatta anch'io vuol dire che ritrovare la selva, il mondo interiore ed esteriore del Selvatico non è impossibile. Per fortuna ogni bimbo, malgrado il politically correct, il buonismo e la festa della mamma, basta che chiuda gli occhi e sente (come descrive perfettamente Rilke) "l'oscura compagnia, le liane striscianti, lo strozzante rigoglio, in forme dallo slancio ferino… l'originaria foresta".

Che è orrida, ma gli sorride "di rado hai sorriso così teneramente tu, mamma.". Anche tu, mamma società, mamma azienda, mamma Megastore, che sorridi dai manifesti, da scaffali stracolmi di prodotti. E' per ritrovare quel sorriso più autentico, quello slancio che si ricerca il Selvatico e si "passa al bosco". Come del resto l'uomo ha da sempre dovuto fare. Come fa Parsifal, quando lascia la madre, ma lascia poi anche Artù, con la sua Ginevra, compìta, ma falsa. Come appunto Gesù bambino, quando non ne può più neppure lui, e ricorre appunto al Selvatico pagano, il Cristoforo, per farsi portare al di là del fiume. Perché solo il Selvatico porta al di là, e quindi si (e ti) salva, come assicurava Leonardo da Vinci.

Ma "di là" dove? Come passare alla "Selva", e diventare "selvatici", se di foreste non ce ne sono più, o quasi? Il Maschio Selvatico si aggira ormai in una selva solo interiore, come quella che si spalanca davanti al bimbo di Rilke? Per fortuna non ancora. Un altro amante della Wildnis-Wilderness-selvatichezza, l'antropologo Hans Peter Duerr, raccontò come la Wildnis e il bosco lui li trovò bambino, giocando tra le sterpaglie alte che crescevano tra le macerie di Dresda. Il teatro del Selvatico infatti non è certamente il Parco Nazionale, con contorno di WWF e ristoranti vegetariani. No, il bosco del Selvatico è il primordiale che irrompe, il non convenzionale, la natura viva e "scorretta". Anche i deserti metropolitani sono pieni di selve risuonanti, purché ci si entri come in un tempio del primordiale soltanto travestito da tardomoderno, e non come in un niente (o in un tutto di prodotti, che è poi la stessa cosa). Solo allora l'orrido della selva-metropoli ci sorriderà. E noi lo ameremo. E saremo salvi. Perfettamente selvatici.

Claudio Risé