Il Selvatico e la guerra
a cura di Armando Ermini
Da sempre la guerra è un fenomeno centrale nell’esperienza esistenziale maschile. Volontario o coscritto, soldato regolare o guerrigliero, generazione dopo generazione il maschio ha messo a disposizione se stesso, il suo corpo e la sua anima, al servizio delle cause più diverse, giuste o sbagliate che fossero. Qualche volta l’ha fatto con buona dose di retorica guerresca, più spesso silenziosamente, per difendere la propria terra o i propri cari, o anche solo per senso del dovere.
Il Selvatico sa che la guerra è un dramma immenso che è suo dovere cercare di evitare, ma sa anche che non sempre è possibile e giusta la rinuncia a ricorrervi, e sente sue le parole pronunciate nel lontano 1957 da un ex combattente (1), in occasione della commemorazione del IV Novembre.
“È da questo inferno, dal ricordo di questa tragedia ripetutasi alcuni anni dopo che deve finalmente scaturire la condanna della guerra: la guerra alla guerra: che ad ogni 4 di novembre i combattenti si facciano interpreti di questo anelito perché questa speranza diventi certezza, per noi e per i nostri figli, per i figli dei nostri figli e così via. Il combattentismo vive del ricordo dei suoi morti. Glorifichiamo ed esaltiamo il loro sacrificio come comandamento a perseverare sulla via del dovere, traslato nella vita civile, nella famiglia, nella società:”
La guerra, è stato detto, è “maschile”. E’ vero, il “guerriero” è, insieme a quello del padre e dell’errante, uno degli archetipi di riferimento del maschio, senza i quali egli perde la sua identità. Ed è vero nel senso che in essa il maschio sperimenta necessariamente la sua dimensione più arcaica, primordiale, il suo corredo istintuale di aggressività ma anche di spirito di sacrificio e di generosità spinti all’estremo, che lo portano a riconoscere nell’altro, il commilitone ma anche il nemico, un essere umano che condivide lo stesso destino e col quale sono più le cose che uniscono da quelle che dividono.
Il Selvatico non ama la guerra ed è lontanissimo da ogni sua esaltazione retorica. Tuttavia scorge che anche in essa, fra il lutto e il dolore che ne sono corredo, riesce a farsi strada l’Uomo, indipendentemente dall’appartenenza ideologica, territoriale, e dalla sua collocazione sociale.
In questo senso può essere annoverata fra i grandi riti d’iniziazione maschile, o almeno lo poteva, finché era dato poter guardare il nemico in volto.
Nell’epoca del terrorismo contro i civili e degli “asettici” bombardamenti missilistici dall’alto, ci piace allora citare qualche frase da due libri sulla guerra. Libri scritti da due uomini, Paolo Monelli e Mario Rigoni Stern, che quelle guerre combatterono, e che non si occuparono di strategie o tattiche, ma di cronache, di episodi di coraggio e di paura, di morte e di vita, testimonianza viva del modo di essere maschile.
Scrive Monelli (2), quasi a riassumere in una frase tutto il senso dei suoi racconti dalle trincee della prima guerra mondiale:
"....Dilegueranno. Minatori pastori carrettieri boscaioli. Non firmeranno nessun memoriale, non scenderanno a comizio, non brigheranno un posto alla pappatoia dello stato. Non li troveremo più se non andandoli a cercare sulle montagne o fuori dai confini. Ma saranno gli uomini che il giorno che la miniera crolla ricercheranno con il solito coraggio freddo sotto la minaccia, i cadaveri dei compagni, che partiranno nella tormenta a ricercare gli sperduti; che saranno nudi nel fondo della galleria, o morsi dal freddo nel bosco invernale, o esiliati sulla cima brulla a rotolar sassi, o ansanti a battere sul pistoletto per aprire la via della montagna, o travagliosi al cidolo, o arrancanti dietro ai carri dei tronchi. E il giorno che il Re manderà a dire che bisogna tornare a mettersi in fila e marciare per quattro, si ricalcheranno in testa il cappello con la penna, con qualche bestemmia innocua, e non domanderanno d'imboscarsi. Tutt'al più domanderanno di passar conducenti".
Dal canto suo, Rigoni Stern (3), racconta un episodio di cui fu protagonista durante la ritirata dell’Armir dal fronte russo, durante la Seconda Guerra mondiale. Una marcia lunghissima ed estenuante, in mezzo alle nevi delle sterminate steppe russe, con poche armi e ancora minor cibo, sotto la continua minaccia dei partigiani e delle truppe regolari nemiche.
"....Corro e busso alla porta di un'isba (capanna tipica dei villaggi russi, ndr). Entro. Vi sono dei soldati russi, là. Dei prigionieri? No, sono armati. Con la stella rossa sul berretto! Io ho in mano il fucile. Li guardo impietrito. Essi stanno mangiando intorno alla tavola. Prendono il cibo con il cucchiaio di legno da una zuppiera comune. E mi guardano coi cucchiai sospesi a mezz'aria. Datemi da mangiare (in russo nel testo, ndr), dico. Vi sono anche delle donne. Una prende un piatto, lo riempie di latte e miglio, con un mestolo, dalla zuppiera di tutti, e me lo porge. Io faccio un passo in avanti, mi metto il fucile in spalla e mangio. Il tempo non esiste più. I soldati russi mi guardano, le donne mi guardano, i bambini mi guardano. Nessuno fiata. C'è solo il rumore del mio cucchiaio nel piatto. E d'ogni mia boccata. "Spazibe" (grazie), dico quando ho finito. E la donna prende dalle mie mani il piatto vuoto. "Pasansta", mi risponde con semplicità. I soldati russi mi guardano uscire senza che si siano mossi. Così è successo questo fatto. Ora non lo trovo affatto strano, a pensarci, ma naturale di quella naturalezza che una volta doveva essere stata fra gli uomini. Dopo la prima sorpresa i miei gesti furono naturali, non sentivo nessun timore, né alcun desiderio di difendermi o di offendere. Era una cosa molto semplice. Anche i russi erano come me, lo sentivo. In quell'isba si era creata tra me e i soldati russi, e le donne e i bambini, un'armonia che non era un armistizio. Era qualcosa di molto di più del rispetto che gli animali della foresta hanno l'uno per l'altro. Una volta tanto le circostanze avevano portato gli uomini a saper restare uomini.............Finché saremo vivi ci ricorderemo, tutti quanti eravamo, come ci siamo comportati. I bambini specialmente. Se questo è successo una volta, potrà tornare a succedere. Potrà succedere, voglio dire, a innumerevoli altri uomini e diventare un costume, un modo di vivere...".
(1) Domenico Salvatori, Discorso in occasione del 4 Novembre 1957. Tratto da “Il combattente”, Organo della Federazione Provinciale combattenti e reduci di Brescia, novembre 1971.
(2) Paolo Monelli, “Le scarpe al sole, storie di gaie e tristi avventure di alpini, di muli, di vino”, Milano, 1971.
(3) Mario Rigoni Stern, “Il sergente nella neve”, Milano, 1971.