Il giro del miele (recensione di Monica Blondi)

Sandro Campani, Il giro del miele, Torino, Einaudi, 2017, 243 pp.

La sera che Giampiero, assopito davanti al camino e indeciso se raggiungere la moglie Ida già a letto, vede la sagoma di Davide stagliarsi nel riquadro della porta, ne ha un po’ paura. Lo accoglie con il tono che si usa per ammansire una belva, mentre si chiede se può ancora fidarsi di quel giovane alto, robusto, che dopo l’abbandono della moglie, l’adorata Silvia, aveva iniziato la sua pericolosa discesa agli inferi, smettendo i panni del gigante buono - all’epoca in cui guidava il pulmino della scuola - per vestire quelli del buttafuori, incosciente e inaffidabile, con un’inquietante propensione all’alcool. Gli occhi spiritati e il corpo attraversato da un nervosismo animale lo fanno apparire “sotto il dominio della lince”, lo schivo felino che alcuni dicono di aver avvistato appena fuori dal paese. Si capisce fin da subito che la lettera destinata all’ex moglie, che Davide affida a Giampiero, è solo un pretesto che nasconde il vero motivo della visita: un impellente, disperato tentativo di liberarsi di un peso.

Davide e Giampiero, due esponenti di una generazione di uomini poco avvezzi a parlare dei loro sentimenti, dopo parecchi anni dal loro ultimo incontro si ritrovano uno di fronte all’altro, nella notte più lunga della loro vita. A separarli, una bottiglia di grappa sulla cui etichetta hanno tracciato un segno con un pennarello da falegname, ponendo così un limite al tempo a loro disposizione. Nella manciata di ore che li separa dall’alba si intrecciano ricordi, aneddoti, e infine confessioni. La voce narrante è affidata a Giampiero, il quale interviene mettendo ordine nel racconto di Davide, aggiungendo dettagli, fornendo un altro punto di vista.

Alla base di questo intenso romanzo ambientato in un paese dell’Appennino tosco-emiliano c’è il delicato, complesso rapporto tra padri e figli. Un rapporto spesso reso difficile dall’incapacità di esprimere i propri sentimenti per pudore, per carattere, o per le ferite inferte dalle avversità della vita. È un romanzo sull’essere uomini, ma anche, più in generale, sulla fragilità degli esseri umani, sulla necessità di perdonare e di perdonarsi, perché solo così si può sperare in un riscatto.

Il rapporto tra Davide e suo padre era fatto di silenzi e incomprensioni. Un tempo “spassoso” e “dal sorriso rassicurante”, dopo la morte della moglie, quando Davide aveva solo quattro anni, Uliano si era chiuso in se stesso diventando l’uomo duro dai modi bruschi che mal tollerava la presenza del figlio nella falegnameria che gestiva insieme a Giampiero, il giovane apprendista da lui scelto anni prima. Per Davide la falegnameria costituiva un luogo proibito a cui accedere di nascosto: vi era entrato a otto anni per costruirsi un giocattolo, ferendosi a una mano; da adulto, nelle notti in cui tornava dal bar, a volte si fermava a sbirciarne l’interno attraverso i vetri, per sentirsi ancora una volta bambino. Poiché Davide non aveva nulla a che fare con la falegnameria, suo padre non lo aveva preso in considerazione al momento di ritirarsi dal lavoro, intuendone forse tutta la fragilità. Durante il discorso solenne che rivolge ai figli e a Giampiero, in una scena quasi surreale, è a quest’ultimo che propone di rilevare l’attività; ammutolito, lo sguardo fisso, Davide non lascia trasparire nulla di ciò che prova mentre Giuliana, sua sorella, attende invano che lui faccia esplodere tutta la sua frustrazione.

Estromesso da un’eredità morale oltre che materiale, Davide sceglie di continuare un hobby del padre, l’apicoltura, e cercare di farne un lavoro. L’apicoltura aveva fornito a padre e figlio un terreno di incontro, l’unico, che li aveva visti lavorare uno accanto all’altro in silenzio fin da quando Davide era un adolescente (“Suo figlio allora diventava un compagno sotto lo stesso giogo, e non un nemico […]”). È grazie al miele che rivede Silvia, anzi la Silvia, la ragazza che ama da sempre, un giorno in cui si spinge fino a Bologna per effettuare una consegna. Qui Silvia si era trasferita per studiare e quando Davide la incontra è reduce da una notte trascorsa all’addiaccio all’uscita da una festa. Approfittando della presenza del giovane, la ragazza decide di tornare al paese quello stesso giorno, lasciando per sempre l’università e mettendo fine a una vita sregolata. Solitaria, con pochi amici, a Bologna Silvia non si era mai sentita veramente a suo agio in un ambiente dove la superficialità e l’incapacità di scegliere venivano scambiati per fermento creativo. In mezzo a tanti personaggi finto alternativi (bella la descrizione delle diverse tipologie di fauna universitaria), aveva dato prova di concretezza dimostrando di saper andare davvero controcorrente: era tornata al paese e aveva sposato quel ragazzone che conosceva fin da quando era una bambina. I continui litigi dei genitori e un certo disagio l’avevano spinta all’autolesionismo. “Gentile, intelligente, misurata”, il giorno del matrimonio ci viene descritta meravigliosamente a suo agio tra gli invitati. Nello stesso tempo non nasconde una certa rigidità, in particolare quando si rifiuta di perdonare il marito, reo di aver accettato un prestito dal suocero senza averla prima consultata, o di aver iniziato il lavoro di buttafuori a sua insaputa.

Silvia aveva creduto di trovare in Davide il suo porto sicuro e per un po’ era stato così, nel breve periodo in cui la felicità aveva sfiorato le loro vite. L’apicoltura funzionava bene e Davide sentiva di avere un talento per quel lavoro e anzi di poter superare il padre, di cui avvertiva la velata approvazione. Una felicità che poggiava su basi fragili: l’apicoltura non era un’attività redditizia, malattie e atti vandalici rischiavano di annullare i sacrifici e compromettere i guadagni. Senza contare la transumanza, che Davide sceglie per produrre miele migliore, e che lo obbliga a restare lontano da casa per lunghi periodi. Ma tutto precipita quando Davide, per arrotondare, accetta di lavorare come buttafuori in una discoteca. Dopo essere stato catechizzato a dovere da Lucio, un vecchio amico incontrato per caso che diviene il punto di riferimento, scopre di apprezzare quel lavoro. Al buio, stordito dalla musica, si sente a suo agio e grazie alla presenza dei colleghi ha l’impressione di trovarsi in una famiglia. Silvia invece odia tutto del suo nuovo lavoro - in particolare la tenuta para-militare costituita da anfibi e manganello – che sembra volerla ricacciare nel mondo da cui era fuggita, costringendola tra l’altro a lunghe serate trascorse in solitudine.

Il senso di fallimento e il timore di perdere la stima di sua moglie e del padre, che nel frattempo si era ancora più chiuso nel suo mutismo (“Certi spazi di rispetto «da uomo a uomo» avrebbero anche potuto essere ignorati, qualche volta”), spingono Davide a bere sempre di più. Un atteggiamento, il suo, che sembra dettato dall’incapacità di gestire in modo costruttivo la rabbia nei confronti di Uliano, reo di non averlo “scelto”, di non aver creduto in lui. Un’ostilità che si trasforma in rabbia distruttiva rivolta verso se stesso e che lo fa scivolare nell’alcolismo, e in frustrazione nei confronti del mondo: la sua violenza esplode in discoteca ai danni della testa calda di turno alla quale assesta qualche pugno in più del necessario, o in strada sul punto di scatenare una rissa tra automobilisti, e addirittura nei confronti del cane del vicino, i cui latrati, modulati ogni volta diversamente, sembrano costituire la colonna sonora dei momenti di maggior tensione emotiva del protagonista.

Se Silvia poteva contare su Giampiero e sua moglie Ida, che la consideravano una figlia, e Giampiero a sua volta era come un figlio per Uliano, ricevendo da lui un prezioso bagaglio di nozioni tecniche e consigli di vita, a Davide non era toccato in sorte nessun genitore alternativo che fosse per lui esempio e guida nel difficile percorso di ricerca della propria identità. Lo stesso Giampiero, per la differenza di età che li divideva, era più che altro una sorta di fratello maggiore. Davide aveva creduto di trovare dei padri putativi tra i suoi pari, i colleghi buttafuori con i quali si sente al sicuro, in particolare si era attaccato a Lucio, così autorevole e rassicurante sul lavoro da guadagnarsi la sua ammirazione (“[...] non appena c’è qualcuno che mostra un qualche tipo di sicurezza, che sia un mio amico come Lucio, o un signore che sa a che ora parte il treno perché deve prenderlo anche lui, io lo vedo come un genitore e mi ci aggiusto accanto.”), il quale tuttavia si sottrae presto da questo ruolo, non senza un certo imbarazzo. Sua sorella Giuliana, che lo aveva cresciuto, più che una figura materna era una versione femminilizzata del padre, con il suo indumento-feticcio, quel chiodo che indossa estate e inverno, quasi una seconda pelle per lei, o una corazza. È piuttosto un’alleata del padre. La sua inflessibilità è solo in parte mitigata da una certa leggerezza. Tra loro manca la complicità tipica dei fratelli.

Davide sembra condurre un’esistenza “trattenuta”: nei confronti del padre, a cui non si è mai ribellato, preso da un terrore paralizzante; non a caso lo chiama ancora “il babbo” come quando era piccolo, eternamente imprigionato in una dimensione psicologica infantile (l’unico episodio di aperto dissenso nei confronti del padre è simboleggiato dalla canna da pesca - che usava controvoglia durante le uscite con il padre - spezzata con rabbia e gettata nel lago). Con Silvia, poi, di fronte alla quale si sente sempre inferiore e inadeguato, non riesce a vivere liberamente l’amore fisico, posticipando il piacere a quando, in solitudine, rievoca il viso della moglie.

Il racconto, estremamente efficace, del picnic fallimentare organizzato da Silvia come estremo tentativo di salvare il loro matrimonio, è un crescendo di angosciante consapevolezza della fine. Il paesaggio descritto, costellato di immagini di morte e degrado, è in sintonia con lo stato d’animo dei due protagonisti: una radura invasa da erbacce e rifiuti in cui si fronteggiano due faggi morenti vampirizzati da grossi funghi dall’aspetto inquietante. All’inizio il luogo sembra abbandonato ma poi scopriamo che è frequentato da qualcuno, probabilmente un pastore, che ne ha fatto uno scannatoio per agnelli. È lo stesso luogo che ritorna nei sogni angoscianti di Davide, quasi a simboleggiare il sacrificio della loro innocenza.

Ciò che accomuna Davide e Giampiero è sicuramente una certa ingenuità. Il primo si era illuso di poter vivere per sempre felice con Silvia prendendosi cura delle api, il secondo si era fidato, a dispetto del suo istinto, del nuovo socio della falegnameria che alla fine lo aveva derubato. Quell’istinto incarnato dalla lince, animale dalla ricca simbologia che ritorna continuamente. Il predatore famoso per la sua vista che si diceva potesse vedere nelle immagini degli oggetti il riflesso di ciò che vi era nascosto all’interno. Sia Davide che Giampiero, inoltre, devono confrontarsi con la perdita: della moglie e del rispetto di sé per il primo; di una mano nell’incendio della falegnameria e della fiducia verso il prossimo per il secondo. Quest’ultimo è anche tormentato dal senso di colpa per aver scippato a Davide il ruolo di figlio al cospetto di Uliano, e per il privilegio di aver conosciuto l’uomo prima del lutto, quando ancora sorrideva e amava la vita. Inoltre ha perso l’amore per il proprio lavoro, sentendosi “parte di un’onda che si sta ritirando”, da quando la produzione in serie sembra aver soppiantato il lavoro artigianale fatto di cura, dedizione e rispetto degli oggetti. Tutti i personaggi maschili, fatta eccezione per il padre di Silvia, vanesio e superficiale, si considerano inferiori alla donna che li ama, beneficiari increduli di una fortuna immeritata.

Prima dell’alba c’è ancora tempo per un’ultima confessione che riguarda proprio Giampiero e la verità sull’incendio della falegnameria. Grazie a Davide, che sta provando a rilanciarsi come apicoltore cercando di coinvolgere l’amico, un nuovo inizio sembra ancora possibile (“Penseremo a un posto a cui tornare, che giustifichi le manovre e lo stridore delle ruote sulla ghiaia. Proveremo l’angoscia di non averlo mai avuto per davvero, e insieme la rassicurazione di avere fatto quel che potevamo per averlo […]). Le api ci ricordano che siamo fragili e che necessitiamo di molte cure, come del resto tutto ciò che conta. Ma sono anche il simbolo della resurrezione, dopo che per i tre mesi invernali spariscono senza dare segni di vita, per riapparire poi in primavera. Per gli antichi greci, l’ape rappresentava l’anima discesa tra i morti che si prepara al ritorno.

E allo spuntare di un mattino senza nuvole, “ogni ferita diventa cicatrice”; la lince è ancora là fuori, ma fa un po’ meno paura.

Monica Blondi