Aborto, omofobia e femminicidio? Il come e il perché di menzogne mediatiche e dissimulazioni linguistiche

di Armando Ermini

La tecnica è collaudata. In una prima fase, col fattivo contributo di tutti o quasi i media, si gonfiano i dati fino all’inverosimile o si enfatizzano i fatti, per stimolare emozionalità nell’opinione pubblica e creare allarme sociale. Contemporaneamente si creano neologismi “tranquillizzanti” o, secondo gli obbiettivi che ci si propone di raggiungere, “allarmanti”. Preparato così il terreno, nella fase successiva si passa all’approvazione con largo consenso parlamentare e popolare di leggi discutibilissime sotto il profilo morale ed etico e costituzionalmente inammissibili. L’obbiettivo è raggiunto. Una volta che ci sia la codifica legislativa, il tempo stempererà le obiezioni ed anche gran parte degli oppositori si abitueranno a considerare normali e giuste le norme un tempo condannate.
Non occorre andare troppo lontano nel tempo, ai regimi totalitari che quelle tecniche hanno abbondantemente usato e che non vorremmo vedere mai più, per dimostrare che è così. Basta osservare il passato prossimo ed il presente del nostro e di altri paesi democratici.

 

a) La legge 194. Prima della sua approvazione, circolavano sulla stampa ed anche in parlamento cifre inverosimili (uno, due, perfino 3 milioni all’anno) sul numero di aborti clandestini e sulle donne morte a causa di questi (venticinquemila). Quelle cifre non avrebbero retto al minimo vaglio critico, eppure furono usate cinicamente per fare accettare all’opinione pubblica la legge che avrebbe legalizzato l’aborto. Lo si spiega in modo molto documentato in:
http://www.uccronline.it/2013/06/18/legge-194-la-grande-menzogna-degli-aborti-clandestini/
Ma non basta. Affinché quella legge fosse accettata, occorreva anche dissimularne il reale significato. Così l’aborto, che è la soppressione di una vita innocente, fu chiamato interruzione volontaria della gravidanza. E, in un crescendo di manipolazioni linguistiche, le leggi abortive furono (e sono) chiamate dai grandi organismi internazionali leggi sulla salute riproduttiva delle donne o addirittura di tutela sociale della maternità consapevole, mentre al bambino non ancora nato è stata tolta la dignità di essere umano chiamandolo prodotto del concepimento.
Infine, allargando il discorso dall’aborto in senso classico alle altre problematiche nate con il progresso delle tecnologie mediche, le pillole abortive vengono definite contraccettivi d’emergenza, mentre la fabbricazione artificiale di esseri umani destinati a non conoscere le proprie origini paterne o non sapere se la loro madre è quella che ha prestato l’utero o quella che ha donato il gamete, viene chiamata procreazione medicalmente assistita.

b) L’omofobia. Utilizzando lo sdegno, ovviamente giusto, per le discriminazioni contro gli omosessuali, sotto questa categoria vengono fatte ricadere tutte le obiezioni all’equiparazione giuridica delle unioni omosessuali col matrimonio tradizionalmente inteso, e conseguentemente alle adozioni da parte di coppie dello stesso sesso. In realtà si vuole ottenere uno scopo ancora più ampio e dalle incalcolabili conseguenze sul piano antropologico. Si vuole negare cioè la differenza sessuale fra uomo e donna, data in natura ma ritenuta solo un costrutto culturale, e attraverso ciò mutare profondamente il concetto di famiglia naturale. Non più l’unione potenzialmente feconda fra un uomo e una donna, e per questo socialmente riconosciuta e tutelata, ma una qualsiasi unione fra due persone dipendente solo dalla loro volontà (e perché non tre, ad esempio?). Così i termini marito e moglie, o padre e madre, perdono ogni significato specifico e sono stemperati nelle definizioni grottesche di partner oppure genitore A e B, come è già accaduto in Spagna. Inutile aggiungere che della salute psichica dei bambini nessuno si preoccupa minimamente e che, proprio per l’allargamento indiscriminato del concetto di omofobia, il nuovo reato che si vorrebbe introdurre costituirebbe un vero e proprio attentato alla libertà di pensiero. Eppure sarà così. Bel risultato davvero per chi si proclama democratico.

c) Il femminicidio. È un termine coniato da molto tempo per designare l’uccisione di una donna, ma entrato nel lessico corrente dal 1992, quando la criminologa Diana Russel lo definì come una violenza estrema da parte dell’uomo contro la donna «perché donna». Ormai ogni giorno lo ascoltiamo dai telegiornali e lo leggiamo sulla stampa, perché in pratica ogni omicidio di donna viene catalogato sotto questa definizione, sostenendo che la violenza contro le donne è arrivata a un punto insostenibile. La campagna partì alcuni anni orsono allorché i media iniziarono a diffondere la notizia che la violenza sarebbe stata la prima causa di morte per le donne da 16 a 44 anni d’età, più del cancro e degli incidenti stradali. Fu diffusa da Amnesty International, ed in Italia fu usata ripetutamente in parlamento dall’allora ministro per le pari opportunità Barbara Pollastrini. Si tratta, sarebbe bastato il buon senso e una semplice verifica su internet, di un falso clamoroso che però è stato ripetuto all’infinito e lo è ancora ancora oggi, nonostante che la stessa Amnesty sia stata costretta a fare marcia indietro, sia pure a denti stretti. Intanto però il danno era fatto e nessun organo di stampa e nessuna TV che aveva diffuso quella bugia l’ha mai smentita.
La parola femminicidio evoca immediatamente quella di genocidio, che secondo una definizione ovunque accettata viene inteso come ciascuno degli atti seguenti, commessi con l'intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso. In tale categoria sono compresi, fra gli altri: “L’uccisione di membri del gruppo; lesioni gravi all'integrità fisica o mentale di membri del gruppo; il fatto di sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale”. Se ai gruppi citati si aggiunge quello composto dalle donne, il gioco è fatto. L’immaginario collettivo sarà portato a pensare il proprio Paese come un immenso lager in cui un gran numero di donne, solo perché donne, vengono quotidianamente uccise, stuprate, violentate etc. etc. È verosimile, anche semplicemente alla luce dell’esperienza quotidiana di ciascuno di noi? Ovviamente no, ed infatti, lo dicono le statistiche Onu, il nostro è uno dei Paesi più sicuri per le donne, molto di più, ad esempio dell’emancipatissima Finlandia, o della Svizzera. Eppure si continua imperterriti a parlare di femminicidio di fronte a 120 omicidi femminili (dati ufficiali 2012) su una popolazione di circa trentamilioni, nonostante che gli omicidi maschili siano tre volte superiori per numero, nonostante che non tutte quelle donne uccise lo siano state per mano maschile, nonostante sia impossibile far risalire tutte quelle morti ad un odio di genere indiscriminato. Il femminicidio, dunque, non esiste come fenomeno socialmente allarmante. È perfino oltraggioso dover ripetere, per tentare di evitare le accuse di complicità latente o di negazionismo, che ogni omicidio è esecrabile a qualunque genere appartengano la vittima e l’autore, e che alle vittime deve essere data piena solidarietà. Ma, lo dimostrano i numeri, non si tratta comunque di femminicidio. Anche noi vorremmo che non ci fossero assassinii (nemmeno di uomini o di bambini, ovviamente), anche noi vorremmo che quei maschi che agiscono la violenza sul più debole anziché difenderlo, e che per questo dimostrano una preoccupante carenza di virilità, sapessero gestire in altro modo le situazioni che vivono, anche quando sono obbiettivamente difficili ed esasperanti. Anche noi vorremmo che non ci fossero più infanticidi o aborti, ma sappiamo realisticamente che è impossibile per il semplice motivo che l’uomo è imperfetto.

Qual è, allora, lo scopo di questa martellante campagna?

È duplice. Da un lato instillare la convinzione che la violenza in quanto tale sia maschile e che sia principalmente rivolta contro le donne per opprimerle, e dall’altra, sull’onda del primo punto, preparare l’opinione pubblica ad una legge di incalcolabile gravità che, come già accaduto in Spagna, preveda pene maggiori per identici delitti quando la vittima è una donna. Alcuni disegni di legge in tal senso sono già in cantiere. È immediatamente evidente che si tratterebbe di un insopportabile vulnus alla democrazia, nonché di un provvedimento palesemente incostituzionale in quanto violerebbe il principio di uguaglianza di ogni cittadino di fronte alla legge. Ma questo sarebbe ancora il male minore. La cosa più grave è sul piano simbolico prima ancora che legislativo. Si sancirebbe cioè che la vita maschile ha un valore, e una dignità, inferiori a quella femminile e quindi è maggiormente spendibile o sacrificabile. O viceversa, ma è lo stesso, che quella femminile vale di più di quella maschile e che per questo, quando subisce un attentato, il colpevole deve essere punito con maggior severità. Si tratterebbe di un regresso culturale di enorme portata che sul piano simbolico, e nel tempo anche concreto, riporterebbe l’umanità indietro di millenni. Sul piano storico fu, si noti, proprio il tanto esecrato patriarcato a superare il diritto di sangue di origine materna sancendo il principio che la norma deve valere erga omnes. In realtà nelle società precristiane quel sacrosanto principio non fu applicato integralmente perché esisteva una distinzione fra essere umano ed essere umano. Ai tempi dell’antichità romana, ad esempio, esisteva la figura dell’homo sacer, una non persona esclusa dagli omnes, e che di conseguenza poteva essere ucciso senza che l’atto fosse qualificato come omicidio e punito. Solo il Cristianesimo intese rompere questa insopportabile discriminazione sancendo la piena uguaglianza di ogni essere umano, e solo i regimi totalitari moderni hanno inteso invece spogliare alcuni uomini appartenenti a determinati gruppi razziali o sociali della loro identità di persona, premessa indispensabile affinché qualsiasi atto nei loro confronti non fosse catalogato come delitto. Non dico, ovviamente, che sia questo il caso, ma soltanto che, una volta rotto un principio simbolico, tutto diventa possibile. Dipenderà solo dai rapporti di forza che di volta in volta si instaureranno. D’altronde non è neanche la prima volta che accade o che accadrebbe, perché come abbiamo già argomentato a proposito dell’aborto, quel principio è già stato aggirato derubricando il bambino non nato a prodotto del concepimento, quindi eliminabile a piacere in funzione delle decisioni insindacabili del soggetto a cui è stato affidato il potere decisionale.
Chiudo con un’ultima ma fondamentale annotazione. Quanto sopra non implica affatto una concezione piattamente sindacale dei rapporti fra uomini e donne, né invoca una parità ed una simmetria assolute nei comportamenti maschili e femminili. Da sempre, anche se ormai lo si disconosce, gli uomini si sono sacrificati per le donne o al loro posto, in guerra, sul lavoro o per salvarle quando si sono trovate in pericolo. È l’essenza del dono maschile, perso il quale gli uomini perderebbero se stessi, e con se stessi tutta l’umanità. Quel dono, per poter essere tale, presuppone la libertà di donarsi con un atto di volontà o semplicemente d’istinto. Ma la libertà, a sua volta, è fondata sull’uguaglianza simbolica. Ritenersi invece spendibili o sacrificabili perché la propria vita vale di meno di quella altrui, sarebbe l’opposto, e quell’atto donativo scadrebbe ad omaggio dovuto a chi si ritiene superiore, perdendo con ciò ogni valore intrinseco ed ogni senso. E questo che si vuole davvero?