In cerca del padre

galeottiGiulia Galeotti
IN CERCA DEL PADRE
Storia dell'identità paterna in età contemporanea

Edizioni Laterza

Va detto, come premessa, che il punto di vista con cui l’autrice affronta il tema è quello prevalentemente legislativo/giurisprudenzale, che se è fondamentale per comprendere alcuni cardini dell’ordine sociale, lascia in gran parte inesplorate sia le pratiche concrete della paternità, sia il significato che i padri stessi le attribuiscono dal punto di vista psicologico. Anche se il modo con cui i giudici interpretano le norme di legge è frutto di sensibilità sociale in evoluzione e le contese giuridiche offrono uno spaccato di vita concreta nonché indizi su come i padri interpretano se stessi nel rapporto coi figli e con la loro madre, tuttavia poco ci dicono rispetto a cosa avveniva e avviene nella grande maggioranza della popolazione. Non solo, le leggi e le sentenze non bastano a esplorare compiutamente il ruolo paterno nelle questioni educative perché si limitano a trattare solo gli aspetti dell’attribuzione del nome e quelli economico/ereditari connessi. E’ significativo che l’autrice non abbia sentito il bisogno di indagare la paternità in senso ampio, almeno per cenni o anche limitandosi a nominare gli intrecci fra leggi, sentenze, ruoli e funzioni. Ne risulta un quadro a mio giudizio assai limitato, tanto che mi sembra eccessivo parlare, come nel sottotitolo, di “storia dell’identità paterna”. Tutto il libro è attraversato da un pregiudizio, quasi che la storia della paternità fosse in sostanza la storia dei tentativi (più o meno riusciti) di sfuggire alle proprie responsabilità, attribuendosi il titolo di padre solo quando, e se, fosse per qualsiasi motivo conveniente, o al massimo quando lo richiedessero esigenze di mantenimento di un ordine sociale certo. Ed anche quando si accenna ai nuovi padri ed alla crescente consapevolezza del loro ruolo, se ne sottolineano solo gli aspetti materiali di cura e accudimento del figlio piccolo in un contesto di collaborazione paritaria con la madre, quelli cioè meno importanti e significativi dello specifico paterno, come se non esistesse altro al di là della funzione tradizionale di provider e di quella nuova di “aiutante” della donna.
Fatta questa premessa, e prima di addentrarsi in una problematica a mio avviso oggi decisiva, si può, seguendo l’autrice, schematizzare l’evoluzione del concetto giuridico di paternità in quattro periodi ovviamente non divisibili rigidamente: l’epoca di piena vigenza del diritto romano, quella degli influssi sociali e giuridici della concezione cristiana, l’era borghese moderna (prendendo come parametro forte la Rivoluzione Francese e il codice napoleonico), il tempo attuale con i problemi giuridici emersi a causa delle nuove tecniche riproduttive.
Nella prima fase (diritto romano) la paternità dipende dal diritto e dalla volontà dell’uomo. Dal diritto perché si era automaticamente padri solo del figlio nato in corso di matrimonio legittimo a prescindere dalla paternità reale, ed era vietata la ricerca del padre biologico di un bambino nato fuori dal matrimonio. Dalla volontà perché nell’ambito matrimoniale stesso “l’uomo poteva formalmente rifiutare la prole, rifiutarsi di allevare il bambino partorito dalla propria consorte, decidere di eliminare i neonati malformati, respingere i figli dalla propria casa ed esporli, appena nati, alla colonna lactaria, perché qualcuno li raccogliesse e li allevasse.”
L’autorità maschile era cioè assoluta, anche se nel corso dei secoli furono emanate legge che la mitigavano senza tuttavia intaccarne la sostanza. Con Luigi Zoia (Il gesto di Ettore. Bollati Boringhieri, Torino, 2000) potremmo dire che “la paternità era un diritto del padre, non un diritto del figlio”.
Il Cristianesimo promuove una visione molto diversa, sia per il richiamo al concetto di “doveri” paterni e di responsabilità nei confronti dei figli, sia perché il padre del cristianesimo, analogamente al Padre divino, è un padre misericordioso e affettuoso. E, soprattutto, non ha un potere indiscusso sulla prole, la quale, semmai, appartiene a Dio. Il padre terreno, la figura maggiormente esemplificativa del quale è San Giuseppe, riceve i figli “in consegna”, e questi hanno obblighi che superano quelli nei confronti della famiglia d’origine in nome del legame spirituale col Padre Dio. Sul piano giuridico questa concezione produsse effetti crescenti man mano che il cristianesimo acquistava prestigio e autorità, fino a far coincidere il diritto canonico con quello comune. Divieto di esposizione, obbligo di alimentare la prole, istituto della quota legittima nelle successioni, divieto dello ius vitae ac necis, furono alcune novità introdotte per suo merito , ma fu importante soprattutto l’introduzione di due principi fondamentali: la responsabilità verso i figli a prescindere dalle nozze e la possibilità di ricercare la paternità fuori dal matrimonio, principi che modificarono profondamente anche la concezione del matrimonio e i rapporti fra donne e uomini.
Il codice napoleonico del 1804 a cui si ispirano i codici di molti paesi europei fin quasi ai nostri giorni, riprende i fondamenti del diritto romano per il quale è padre solo chi lo vuole, o in modo implicito sposandosi o in modo esplicito attraverso un riconoscimento formale. Le eccezioni all’inammissibilità della ricerca della paternità biologica in assenza della volontà paterna sono ammesse solo in presenza di comportamenti particolarmente gravi, venendo con ciò a configurarsi come una punizione per l’uomo. In ogni caso l’unico diritto di cui può godere il figlio illegittimo è quello agli alimenti, non quello di portare il cognome paterno, tantomeno di fruire della sua presenza attiva.
Rispetto a questa “involuzione” del diritto in epoca moderna si impone, a mio avviso, una riflessione a più largo raggio. L’epoca è quella della defnitiva affermazione della borghesia come classe egemone e dell’impetuoso sviluppo capitalistico. In questa fase, se è vero che la famiglia mononucleare legittima era ancora un cardine dell’ordine sociale ed era funzionale alle esigenze produttive, è vero anche che nel suo ambito alcune funzioni paterne stavano passando in mano femminile, in primo luogo la formazione e l’iniziazione al sociale della prole . Il marito/padre, cioè, si confina sempre più nello spazio di puro procacciatore di risorse, dedito a lavoro, carriera, denaro, delegando le sue altre antiche funzioni di “precettore” ed educatore dei propri figli. D’altra parte, come scrive Claudio Risè in “Il Padre l’assente inaccettabile”, il progressivo processo di secolarizzazione della società fa si che il padre non sia più percepito come il garante terreno dell’ordine simbolico divino, ossia il rappresentante umano del Padre divino. Ne consegue che le basi stesse dell’autorità, dell’autorevolezza e del prestigio paterni, iniziano a sgretolarsi con conseguenze di cui vediamo oggi gli esiti finali.
In ogni caso, tornando al libro, la difficoltà a stabilire con certezza scientifica la paternità biologica era di per sé un potente elemento in favore di una nozione di paternità centrata sulla legge e sul diritto piuttosto che sulla effettiva procreazione.
Per Giulia Galeotti saranno le indicazioni della scienza nella seconda metà del Novecento a mettere in discussione il ruolo del diritto nella definizione della paternità, recuperando le oggettive indicazioni naturali. Ciò, insieme alla mutata sensibilità sociale rispetto ai diritti dei figli, introdurrà un sostanziale mutamento nella definizione della paternità sempre più inclinata verso quella biologica, che però, paradossalmente, sarà la stessa scienza con le recenti possibilità in tema di fecondazione eterologa, a mettere nuovamente in discussione. Come si capisce facilmente, siamo arrivati al punto cruciale dei nostri tempi, con vaste implicazioni non solo in campo giuridico ma anche culturale. Sul piano giuridico, poiché il Dna può, si, “inchiodare” il padre biologico ma anche, al contrario, dimostrare che il padre legale non è quello vero, a cosa il diritto deve dare la precedenza?
“La prova del Dna, l’arma contro gli uomini latitanti, oggi è diventata simmetricamente l’ossessione di maschi gelosi che non ricercano tanto una filiazione quanto un tradimento (e con qualche fondamento…). Le conseguenze, però, sono ancora una volta ambivalenti dal momento che questo tipo di ricorso al Dna mette l’interesse dei figli in secondo piano”. Si noti intanto in questo passaggio del libro il pregiudizio antimaschile di cui scrivevo all’inizio dell’articolo: l’uomo o latita oppure è ossessionato dalla gelosia, altre motivazioni all’agire maschile non essendo prese in considerazione. Ma più ancora è da sottolineare il richiamo al concetto di interesse dei figli che dovrebbe essere in primo piano nelle scelte del legislatore. Ineccepibile, ma torneremo fra poco sull’ uso parziale ed a senso unico che ne fa l’autrice , d’altra parte in piena sintonia con le legislazioni di molti paesi.
Ancora più problemi sono sollevati dalle tecniche di fecondazione eterologa. Chi considerare come vero padre, quello legale o quello biologico? Ed a quali obblighi può eventualmente, essere sottoposto quest’ultimo? Può il padre legale ritirare il suo consenso? Esiste un diritto della madre a utilizzare il seme congelato del compagno senza il suo consenso o in caso di sua impossibilità ad esprimerlo (per esempio in caso di morte sopravvenuta?). Esiste un diritto del figlio a conoscere le proprie origini? Esiste infine (e per chi scrive è la domanda fondamentale) un diritto del figlio a crescere col padre?
Tutte domande a cui il diritto non riesce a dare risposte univoche o comunque strutturate intorno a criteri di gerarchia d’interessi da proteggere.
Scrive la Galeotti: “Sembra di essere finiti in un vicolo cieco. Nella ricerca del padre, ci troviamo inesorabilmente catapultati in una terra incognita? Dopo secoli d’incertezza sull’identità paterna, le inequivocabili indicazioni scientifiche parrebbero già scadute nella loro funzione, scardinate dalla fecondazione eterologa. La nostra vicenda pareva conclusa, sia pure senza lieto fine, dato che il padre finalmente svelato nella sua realtà biologica non ha mutato la sua tendenza alla fuga [sic!]. Né, dopo secoli in cui il ruolo si è costruito sulla volontà, al verdetto di laboratorio che afferma l’esistenza della relazione genetica ha corrisposto l’assunzione dell’effettiva responsabilità paterna. Se tale, dunque, sembrava la situazione, la diffusione della provetta con seme terzo ha nuovamente rimescolato le carte.”
Sul piano sociale e culturale l’autrice mostra di avere presenti le problematiche a cui le leggi non sanno dare risposte, ma rifugge da una presa di posizione definita, rimarcando piuttosto la necessità di riflettere “per comprendere la portata dirompente di queste nuove possibilità offerte dalla scienza e dalla medicina. Andiamo, infatti, mettendo le basi per una forma radicalmente nuova di paternità. E prima ancora di affermare se ciò sia giusto o sbagliato, dobbiamo prendere atto del fatto che ci stiamo incamminando verso panorami difficilmente configurabili”.
Ma è davvero cosi?
Innanzi tutto è da dire che quali che siano le possibilità offerte dalla scienza e senza addentrarsi nello spinoso problema dell’eticità di talune ricerche, è sempre la società, tramite le leggi che si dà, a scegliere cosa fare e cosa non fare. E la legge, sempre, se da un lato recepisce la sensibilità sociale vigente dall’altro contribuisce in modo potentissimo a formarla, in un senso o nell’altro. Il solo fatto che non sappia farlo, o lo faccia in maniera contraddittoria, indica che manca di quei criteri gerarchici di scelta che indicavo prima come necessari. Ossia non sa più dire cosa è giusto e cosa è sbagliato. Se ci si ferma alla constatazione, perfino ovvia, dei futuri difficili panorami si sta già in realtà abdicando alla funzione della legge che non può essere semplicemente quella di registrare ciò che altri, in questo caso una scienza che reclama lo scioglimento da qualsiasi vincolo etico, scoprono o fanno o vogliono. Ma non si tratta solo di abdicazione, si tratta in realtà di scelte culturali precise per quanto non dichiarate. Prendiamo il caso della fecondazione eterologa, e più ancora quella per donne single o coppie lesbiche. Il contesto culturale che sottende è chiarissimo: il padre è ininfluente o inutile. Non solo quello biologico, ma anche quello putativo. Se la fecondazione artificiale omologa sanzione l’inutilità del fallo ai fini procreativi, se l’eterologa per coppie eterosessuali sanziona il fatto che il padre biologico non è importante, l’eterologa per single o lesbiche sanziona l’inutilità della paternità, compresa quella putativa, anche per la crescita e l’educazione del figlio. In attesa della futuribile autofecondazione femminile che ci libererà anche dal noioso principio simbolico maschile, intanto si può fare comunque a meno del padre. D’altronde, come sostiene la Galeotti, è sempre stato in fuga o irresponsabile. Dunque……
Dunque ne deriva un’altra conseguenza: non esiste un diritto del figlio a crescere con il padre perché, essendo questi inutile, il figlio non ha interesse che ci sia. Salvo, naturalmente, quello prettamente economico al fine di sollevare dall’onere la madre o lo stato assistenziale. Cosa altro è, in questo contesto, “l’interesse dei figli” di cui parla Giulia Galeotti?
Ma c’è ancora un altro elemento che getta luce sul dibattito attuale e smentisce la retorica, culturale, legislativa e giusrisprudenziale, dell’interesse dei figli come primaria esigenza che ispira le leggi e le sentenze. Si tratta delle leggi sull’aborto che attribuiscono alla madre il diritto insindacabile di tenerli o abortirli senza alcun parere paterno. Come per gli uomini durante la vigenza del diritto romano, oggi si può tranquillamente affermare che “la maternità dipende dalla volontà della donna” (anche la legge che consente di abbandonare il figlio affidandolo ai servizi sociali, ancorchè benemerita perché tesa ad evitare la soppressione di una vita, è difficile non vederla come la versione moderna dell’esposizione riservata dal diritto romano al padre). Ma non solo la maternità dipende dalla donna, anche la paternità, tanto che la frase di Luigi Zoia che ho riportato sopra dovrebbe ormai essere cambiata in “ la paternità è un diritto della madre, non un diritto del figlio”, il quale ancora una volta passa in secondo piano. Qui è il punto cruciale quando di parla di genitorialità. In funzione di come tale diritto viene considerato, e se è considerato, cambia completamente il senso della discussione. Una cosa infatti è il doveroso richiamo alla complessiva responsabilità paterna verso i figli in presenza di un contesto culturale che riconosce loro il diritto naturale di crescere con entrambi i genitori e che non fa dipendere il diritto a vivere da una decisione altrui, tutt’altra quando è richiamata in un contesto che quei diritti nega o li subordina a volontà soggettive. Nel primo caso il richiamo alla responsabalità è congruo e coerente, nel secondo assume valenza strumentale in uno scontro di potere fra adulti nel quale il bene del bambino è l’ultima cosa che è tutelata.