Losfeld. La terra del Dio che danza

Enrico Borla, Ennio Foppiani
Moretti & Vitali, 2005, E. 14

Recensione di Paolo Ferliga 

Losfeld è termine fiammingo che evoca l’immagine della terra di nessuno, che nessuno può possedere, ma che tutti possono abitare. Campagna abbandonata o quartiere di periferia estrema, il Losfeld è un luogo della Wildnis, della natura incontaminata, un luogo di “assoluta selvatichezza”: privo di contorno e di definizione, si configura come uno spazio psichico che può salvare l’uomo dall’assenza di senso.
Da questo territorio inizia il bel libro di Enrico Borla ed Ennio Foppiani, psichiatri e psicoterapeuti a Torino. Per loro il Losfeld è anche il luogo della follia, dove la malattia mentale può essere accolta e, talvolta, trovare un senso ed una possibilità di espressione. Con una solida impostazione teorica e arricchiti dalla loro esperienza clinica, i due autori si avventurano attraverso percorsi impervi e ancora poco battuti. Sono gli stessi sentieri aperti in Italia da Claudio Risé nel 1993 con Il maschio selvatico, ripresi poi in altri suoi scritti (in particolare Essere uomini e L’ombra del potere scritto con Claudio Bonvecchio), fino a delineare un vero e proprio campo di ricerca, non solo teorica, su cui è nato il movimento dei maschi selvatici e l’omonimo sito. Sentieri che ci stanno particolarmente a cuore. Soprattutto nella prima parte del libro (su cui si concentra questa recensione), il legame con le tesi di Risé, che però dagli autori non viene mai citato, pare a me molto stretto. Come Risé anche Borla e Foppiani si muovono in una prospettiva archetipica, confrontando tra loro Jünger e Jung ed offrendo così indicazioni importanti per affrontare le malattie dell’Anima tipiche della modernità.
L’uomo moderno che, come dice Ernst Jünger, combatte la sua battaglia sull’estremo limite del nulla, trova nel Losfeld un territorio cui ancorarsi. Da lì inizia la sua ricerca del padre e di una patria da poter nuovamente abitare. Chi si avventura nel Losfeld e decide di abitarlo è infatti un Waldgänger, un ribelle che è passato al bosco. Il pensiero di Jünger incrocia qui, secondo gli autori, la psicoanalisi junghiana. Proprio in quanto “libero come Dio l’ha creato, l’uomo che si nasconde in ciascuno di noi”, può intraprendere la strada del bosco. Ma per entrare nel bosco deve abbandonare l’uniformità gregaria del “si dice”, deve lasciare gli atteggiamenti convenzionali e collettivi, che rassicurano, ma nello stesso tempo impediscono a ciascuno di diventare se stesso. Ingaggiando una battaglia contro il Leviatano (il mostro biblico che per Hobbes rappresenta lo stato) che omologa e rende tutto indifferente, deve assumere con coraggio il proprio destino, unico ed irripetibile. Solo così l’uomo diventa libero come l’Anarca di cui parla Jünger: “L’Anarca è intimamente libero e sovrano, perché deve render conto solamente al proprio Sé, avvenendo la sua adesione al contratto sociale solo all’interno delle regole dettate dal resistere nel bosco.” L’esperienza del bosco, mettendo in contatto col Sé, consente quello che Jung chiama il processo di individuazione, grazie al quale è possibile scoprire il significato autentico della propria vita.
Nella solitudine del bosco l’uomo ritrova quegli aspetti della psiche che prima rifiutava o temeva. “Il Ribelle dei boschi, aprendosi alle forze elementari e trascendenti della natura, sa che il rischio, il pericolo, l’aspetto avventuroso dell’esistenza sono gli unici suoi compagni nella consuetudine della solitudine. Il dolore, la violenza, la stessa morte, sono necessità fondamentali per cogliere il senso nascosto del vivere.” Nel bosco l’uomo entra in contatto con l’aspetto sacro della natura e con le forze oscure che la abitano. Ombra dell’uomo moderno e civilizzato, il Ribelle rappresenta così quei contenuti inconsci con cui è indispensabile entrare in relazione per poter affrontare la vita.
Ma il concetto di Wildnis, a partire da questa prospettiva, si dilata ed acquista una dimensione concreta e vitale. L’idea di una natura separata dalla realtà urbana si dimostra infatti troppo ingenua. Il “selvaggio” non si trova solo nella natura incontaminata, ma in tutte quelle situazioni “dove non c’è copertura, dove il rischio si fa mortale.” Quindi anche nella vita quotidiana, nelle relazioni affettive e familiari, nei problemi di lavoro, nelle scelte che sempre ci incalzano, ovunque il rischio della perdita e dell’imprevisto sono presenti.
Nello spazio psichico del Losfeld è possibile incontrare, infine, l’archetipo di Dioniso, il Dio che danza, primo di tutti i Waldgänger. L’attenzione ossessiva dell’epoca contemporanea ai problemi della sicurezza e della conservazione lo ha allontanato da noi gettandolo nell’ombra, insieme al rischio che sempre lo accompagna. Ma quando incontriamo e riconosciamo dentro di noi il Dio dell’ebbrezza, degli animali selvaggi e delle donne, la vita torna a sorriderci e l’immagine della morte, che si staglia sullo sfondo, non suscita più terrore.

[29 maggio 2006]