L’invenzione della solitudine

auster

 

Paul Auster

Torino, Einaudi, 1997, 182 pp.

a cura di Monica Blondi 

La notizia dell’improvvisa morte del padre scatena nel figlio scrittore un’intima urgenza: scrivere di lui prima che la morte diventi troppo definitiva da cancellare ogni traccia di quell’uomo sfuggente che sembrava non aver lasciato alcun segno del suo passaggio. Se la seconda parte di questo intenso romanzo familiare, intitolata “Il libro della memoria”, è soprattutto una raccolta di appunti e riflessioni sull’essere padre, è nella prima, “Ritratto di un uomo invisibile”, che Paul Auster si pone dalla parte del figlio e parla del suo difficile rapporto con un padre assente.
Sam Auster era un uomo “già assente prima di morire” e infatti l’assenza era “il tratto essenziale del suo essere”. “Immune dal mondo”, aveva affrontato tutta la vita con distacco, “digiuno di passioni per le cose, le persone o le idee, incapace o avverso a svelarsi in qualsiasi circostanza”.
Per quindici anni, dopo il divorzio dalla moglie, aveva continuato a vivere nella grande casa di famiglia senza mai apportarvi alcun cambiamento, non per nostalgia del passato ma piuttosto per negligenza, imprigionato in una sorta di “letargo emotivo”. La casa diviene metafora della sua esistenza e del suo mondo interiore; ovunque regnava un’ordinata trascuratezza: ogni cosa, per quanto al posto giusto, era coperta di polvere e ragnatele, dando alla casa un’aria squallida e decadente.
Quella stessa casa diviene oggetto di inventario da parte del figlio alla ricerca di prove dell’esistenza del padre. Fondamentali diventano le foto, alcune delle quali le vede per la prima volta: “Avevo perduto mio padre; ma nello stesso tempo lo avevo trovato” (p. 13). Le immagini del padre prima del matrimonio, scherzoso e sorridente, in compagnia di donne o in tenuta sportiva, gli fanno scoprire lati dell’uomo fino a quel momento sconosciuti. Come se il matrimonio fosse stato per lui solo un breve interludio, dopo il divorzio aveva ripreso la sua vita di scapolo, quella che più gli si confaceva perché gli consentiva di mostrare agli altri solo la superficie di sé. Non era a suo agio nel matrimonio, condizione in cui “l’esistenza rimane confinata in uno spazio ristretto, dove si è costretti a rivelarsi in continuazione e, di conseguenza, continuamente forzati a guardarsi dentro […]”(p. 14). Scarsamente loquace, usava la menzogna come forma di protezione ed era un solitario, “solitario nel senso del ripiegamento, del non dover vedere il proprio volto, del non vedere se stesso nello sguardo di un altro” (p. 15).
Il figlio scrittore cerca di indagare dietro a quel silenzio, e per fare ciò inizia con l’esporre i fatti nella maniera più lineare possibile, a partire dai suoi ricordi di bambino. La prima immagine del padre è legata alla sua assenza a causa del lavoro che lo teneva impegnato tutto il giorno fuori casa. Ben presto l’indifferenza del genitore nei suoi confronti fa nascere in lui un “desiderio parossistico” che coincide con la presa di coscienza dell’incapacità del padre di guardare nella sua direzione. Quando, per combattere la noia di un pomeriggio invernale, Sam Auster racconta al figlio le sue avventure in Sud America come ricercatore minerario, quest’ultimo prova sollievo: il racconto, palesemente inventato - eco dei libri di avventure per ragazzi - fornisce al padre l’alibi che spiega in qualche modo il suo atteggiamento distaccato nei confronti del figlio Paul: “[La storia] lo tramutava in una figura romantica, un uomo dal passato tenebroso ed eccitante, la cui vita presente non era che un intervallo, l’attesa del momento opportuno per partire verso una nuova avventura” (p. 22). Lo scrittore di Newark racconta di come avesse cercato di conquistare l’amore del padre dopo la nascita del figlio Daniel, confidando nel sentimento che lega nonno e nipote, che gli avrebbe consentito di beneficiare di un sentimento, seppure in maniera riflessa, poiché “neanche da adulti smettiamo di desiderare l’amore paterno”. Tuttavia, Sam Auster non aveva manifestato alcun interesse per il nipote e, chinatosi brevemente sul neonato, si era limitato a pronunciare in tono neutro: “Che bel bambino. Gli auguro tutte le fortune”.
Nulla viene tralasciato per ricostruire il ritratto del padre, soprattutto i particolari che lo rendevano unico: il modo di camminare, leggermente sobbalzante e l’abitudine di sporgersi sul tavolo per mangiare; le mani, grandi e callose, e il viso, vagamente somigliante a quello di Abramo Lincoln. La sua distrazione alla guida, causa di tanti piccoli incidenti, il modo di parlare impacciato che denotava uno sforzo notevole di esprimersi per “sollevarsi al di sopra della sua solitudine”. La firma preceduta da uno svolazzo della mano al di sopra del foglio. La sua calma apparente nascondeva in realtà una rabbia pronta a scoppiare in maniera improvvisa. Una rabbia che rifiutava, “mettendo a punto una specie di automatismo che gli consentiva di eluderla”. Il ricorso a rituali gli forniva una scappatoia al doversi guardare dentro: “C’era sempre una formula pronta a spuntargli sulle labbra («Che bel bambino. Gli auguro tutte le fortune») al posto delle parole che aveva perduto e avrebbe dovuto cercare” (pp.30-31).
Scavando nella storia della sua famiglia di immigrati polacchi, Paul Auster scopre casualmente un grave fatto di sangue. Sam Auster aveva perduto presto il padre, ucciso dalla madre durante un diverbio a causa dell’infedeltà dell’uomo. L’autore, che ricostruisce i fatti servendosi dei giornali dell’epoca, comincia così a comprendere l’atteggiamento distaccato del padre: “Un bambino non può sopravvivere a una vicenda simile senza scontarla da adulto” (p. 36). Sam Auster era molto legato ai fratelli, ma soprattutto alla madre, una donna che tiranneggiava i figli esigendo da loro devozione assoluta. Il comportamento della madre, che un giorno gli aveva sottratto i risparmi del salvadanaio senza alcuna spiegazione, avevano prodotto nel figlio quel senso di precarietà e inadeguatezza che avrebbero caratterizzato tutta la sua vita: “Così mio padre imparò a non fidarsi di nessuno. Neppure di sé stesso. Poteva sempre arrivare qualcuno e dimostrargli che quello che pensava era sbagliato, o non contava nulla. Imparò a non desiderare niente con troppa intensità” (p. 51).
Sam Auster aveva iniziato a lavorare a nove anni. Lavorò molto allo scopo di accumulare denaro, che era per lui “uno strumento per rendersi intoccabile”, una forma di protezione per essere stato un bambino povero, in balìa del mondo: “Non cercava tanto di comprarsi la felicità quanto l’assenza di infelicità, e i soldi divennero la panacea, l’oggettivizzazione dei suoi desideri più profondi e inesprimibili” (p. 54). Per lui solo il denaro contava, per questo non prendeva sul serio l’occupazione del figlio, aspirante scrittore, considerandola poco più di un hobby (“ai suoi occhi si apparteneva al mondo solo lavorando”), salvo poi sentirsi orgoglioso di lui quando, sotto i suoi stessi occhi, un ricco produttore cinematografico gli aveva allungato un corposo rotolo di banconote a pagamento di una sceneggiatura.
Per il figlio, la ricerca del padre attraverso la scrittura non è un processo indolore: “C’è stata una ferita, e scopro adesso quanto fosse profonda. Invece di guarirmi come pensavo, l’atto di scrivere l’ha tenuta aperta” (p. 32). La ferita si manifesta con un dolore fisico alla mano destra ogni volta che impugna la penna per scrivere.
Una ricerca che si inscrive in un percorso più ampio di scoperta della propria identità, mentre il legame che si stabilisce tra padre e figlio continua al di là della morte: “Se da vivo continuavo a sondarlo cercando in lui il padre che non c’era, sento ancora il bisogno di cercarlo da morto. La sua morte non ha cambiato nulla. L’unica differenza è che mi manca il tempo” (p. 5).