L'ultimo samurai

di Claudio Risé

da Il Giornale, 11 gennaio 2004 

Il guerriero ha bisogno dell’onore. Altrimenti si sente soltanto un assassino, e ha gli incubi. Che invece passano, sostituiti da mandorli in fiore, quando il soldato ritrova il significato simbolico della spada, strumento di giustizia. E’ anche questa la morale de L’ultimo samurai, che racconta l¹inaspettata trasformazione di Tom Cruise, da alcolizzato capitano dell’esercito americano, reduce ossessionato delle campagne sanguinose, contro gli indiani, a samurai ad honorem. Combattente a fianco dei ribelli giapponesi che, in realtà, lottano contro l’esercito «americanizzato» dell’Imperatore per salvare l’onore. Il proprio, quello dell’Imperatore, ed anche quello dell’America, che non dovrebbe estirpare tradizioni spirituali gloriose e secolari per vendere qualche partita di fucili in più. Sarebbe sbagliato, credo, vedere questo film come una riflessione contro la guerra. Cruise non smette mai, infatti, di essere un guerriero, un soldato, qualcuno che «sta sempre morendo», come dice Katsumoto, il samurai che egli dovrebbe uccidere. Anzi perfeziona il suo modo di esserlo, imparando, sull’esempio del samurai, il cui significato è ci dice il film- «servitore», che il vero guerriero serve la comunità per cui combatte, e soprattutto Dio. Vale a dire, nel film, l’Imperatore del Giappone, (al cui servizio combattevano i samurai), che in quell’ epoca, alla fine dell’800, ne era ancora un’incarnazione. Dichiarerà di non esserlo più, su richiesta degli Usa che ne facevano una condizione per la pace, dopo la seconda guerra mondiale. E per questo, molti anni dopo, lo scrittore Yukìo Mishima, altro «ultimo samurai» fece harakiri. Il guerriero samurai, insomma, ha bisogno di Dio, di un ideale superiore, per cui combattere. La figura narrativa cui si ispira il capitano Algren-Cruise, è quella classica del «cuore di tenebra» di Conrad, di cui è figlio anche il Marlon Brando di Apocalypse now: l¹eroe indomito che viene affascinato dall’ «Ombra» del proprio paese, dal suo contrario, rappresentato, naturalmente, dal nemico. E non c’è dubbio che i feudali samurai, che combattevano con frecce e spada contro la modernizzazione del Giappone, fossero l¹opposto, l’Ombra appunto (come si dice nel gergo analitico), dell’America democratica e industriale, frettolosa di esportare e vendere le sue macchine, fucili compresi, e di promuovere la sua democrazia mercantile. L’Ombra però, nella storia della guerra come nella psiche individuale, ha appunto un suo fascino, ed anche una sua precisa funzione. Essa esercita l’attrazione di ciò che viene rimosso, negato, ma che tuttavia è spesso una parte essenziale dell’uomo. E¹ naturale che un modello di civiltà e di cultura, nella sua necessaria specializzazione e unilateralità, neghi le forme che le sono più lontane, o che ne rallenterebbero lo sviluppo. In questo, però, c’è il rischio di procedere in modo troppo parziale, e rendere così affascinante ciò che viene negato. Soprattutto se è indispensabile per vivere, ed anche per combattere. E’ dunque pericoloso negare dei valori, come l’onore, o il servizio alla propria Comunità, che sono costitutivi dell’etica della guerra. Ecco quindi come mai, in anni in cui la guerra è tornata ad essere strumento corrente nella soluzione dei conflitti internazionali, il cinema anglosassone cerca accanitamente di mettere a fuoco, come fa anche in questo film, la figura (sfuocata nei decenni precedenti) del guerriero giusto. Un personaggio indispensabile per combattere con credibilità. E vincere.

www.claudio-rise.it