Troy

regia di Wolfgang Petersen, con Brad Pitt, Eric Bana, Orlando Bloom, Peter O’Toole,
distrib. Warner Bros, Usa, 2004,
sito uff. www.troymovie.warnerbros.com

di Claudio Risé - da Il Giornale, aprile 2004 

Nell’ultimo anno del novecento fu proprio lui, Brad Pitt, a dare il via, con Fight Club, alle nuove produzioni americane delle botte e dei valori, degli uomini che se le davano di santa ragione alla ricerca di un mondo migliore. Eppure era stato, fino a quel film ormai divenuto di culto, il divo che aveva meglio rappresentato il modello anni ‘90 del “soft male”, del maschio dolce, il protagonista della scena occidentale non solo nei film, ma anche nella vita privata. Ed oggi è ancora Pitt che, dopo una preparazione estenuante che l’ha costretto a mettere su molti muscoli, ed a lasciare fuori dal set gli ultimi residui di morbidezza nella sua ormai collaudata virilità, “segue la missione di essere il più grande guerriero di tutti i tempi”, secondo le parole del regista Wolfgang Petersen, che l’ha voluto nella parte di Achille in Troy, il colossal sulla guerra di Troia, in uscita in gran parte del mondo intorno al 15 maggio.
La trasformazione di Brad Pitt, questa icona del maschile cinematografico contemporaneo, racconta molte cose del cambiamento, in questi 5 anni, del cinema americano, ma forse anche dei gusti e delle tendenze di costume, negli USA, e non solo lì. La prima novità è che il maschio dolce, il languido cerbiatto, il Brad Pitt ante Fight Club, non è più un modello di virilità per gli uomini, né un oggetto di desiderio per le donne. Il suo posto è stato preso da un tipo deciso e assai più muscoloso, che possiede ideali forti per i quali è disposto a giocarsi la vita.

La trasformazione del modello maschile americano, dunque occidentale, si è bruscamente accelerata dopo lo straordinario successo de Il Gladiatore, che ha riproposto l’immagine (oggetto di ironie fino a pochi anni prima), dell’eroe forte e buono. La tendenza ha poi preso addirittura a correre nell’ultimo anno, con grandi produzioni di enorme successo come Master and Commander, L’ultimo Samurai, e, sopratutto, La Passione di Cristo, di Mel Gibson. Un film che, presentando Gesù come l’Eroe della redenzione umana, si è tirato addosso una delle più violente battaglie mediatico-culturali-politiche della storia del cinema. Vinta con clamoroso successo. Secondo l’arido, ma significativo, linguaggio delle cifre, quasi seicento milioni di dollari in 9 settimane, un record mondiale. E fra poco arriverà appunto Troy, che oltre a ripresentarci Peter O’Toole nella parte di Priamo, e Julie Christie in quella della dea Teti, madre di Achille, mostrerà, ha promesso il regista Petersen, “l’aspetto umano, senza tempo, delle vittorie e delle sconfitte narrate da Omero.” E, rincara Orlando Bloom, interprete di Paride, il giovane e imprudente principe che rapendo la bella Elena fa scoppiare la guerra: “Questo dramma epico e fantastico ha a che fare con sentimenti molto umani: la rabbia, l’odio, l’amore, la paura, e tutte quelle cose che portano un uomo alla guerra, portano un paese alla guerra”.
La guerra, appunto: l’altro aspetto centrale di questo filone cinematografico, la cui prossima tappa, in uscita sotto Natale, sarà direttamente dedicata all’archetipo occidentale del guerriero, Alessandro Magno (interpretato da Colin Farrel). Non è certamente un caso se questi film hanno caratterizzato gli anni del “Presidente di guerra”, Bush. Vale a dire il tempo in cui i conflitti, che già prima si facevano più rumorosi e vicini, sono diventati un elemento costante della vita quotidiana del cittadino medio, in Occidente. Il cinema, il grande cinema, quello che riproduce le emozioni delle masse, non quello che si attorciglia nei tormenti del suoi addetti ai lavori, coglie le paure, le angosce, e le speranze della gente. E, in tempi di guerra, la gente spera negli eroi, in personaggi positivi che abbiano valori forti, e in nome di quelli sappiano vincere. Il grande cinema è tale proprio perché sa cogliere e dare forma alle emozioni dell’inconscio collettivo, trasformandole in narrazioni e immagini cinematografiche. E mentre l’Europa ripiega sulle ossessioni o sulle nostalgie adolescenziali dei suoi registi, oggi il grande cinema è americano ( e quindi se ne frega anche della filologia omerica, e inventa, e immagina. Se non lo fa il cinema, chi può farlo?).