Eluana e il Padre

Di Armando Ermini

Sul numero 491 de Il Covile Riccardo De Benedetti si interroga sulla vicenda Englaro, ipotizzando con giusta inquietudine che il suo significato vada ben oltre la discussione fra laici/liberali e cattolici/oscurantisti, o sulle libertà individuali conculcate o meno. Credo anch’io che temi come l’eutanasia, o comunque la si voglia definire, non siano isolabili, e che il loro vero senso sia comprensibile soltanto alla luce della cultura che si è affermata nelle nostre società moderne.
In particolare solleva due questioni che, a mio parere, finiscono per coincidere: quella del “patto di sangue” che, per sua dichiarazione, Beppino Englaro avrebbe stretto con la figlia, e quella del senso del ruolo paterno . Meritano ambedue di essere approfondite e sviluppate, perché consentono una lettura complessiva della modernità rovesciata rispetto a quella corrente di una umanità, seppure ostacolata dall’oscurantismo clericale, in marcia verso la libertà e il progresso.

Premesso che ogni mia considerazione prescinde sempre da giudizi sulle persone singole e sulla buona fede delle loro intenzioni, vorrei provare a dire qualcosa a partire da un concetto che De Benedetti sottolinea più volte nel suo libro su De Sade , quello di “naturalizzazione” dell’uomo. Sade nega legittimità allo sforzo culturale dell’umanità di darsi leggi morali (e giuridiche) in quanto esse non sorgano direttamente dalla natura. Uniformarsi alla Natura e alle sue leggi sono gli unici compiti e le uniche possibilità per l’uomo. La natura, si potrebbe dire, semplicemente è, e funziona secondo un disegno imprescrutabile all’uomo ma teso alla propria autoriproduzione. Il vero male è stato, per Sade, l’allontanarsi dalle iniziali condizioni di naturalità [1] . E poiché la natura non distingue fra bene e male, fra buono e cattivo, per De Benedetti diviene così ineluttabile “l’abbassamento programmatico di qualsiasi pretesa alla trascendenza morale, nonché la discesa dalla natura razionale a quella animale”. Ma in questo modo, “la fusione dell’uomo di Sade con la natura non vi palesa alcunchè di umano”. In questa accezione il concetto di naturalizzazione non ha nulla a che vedere con l’esigenza di stili di vita meno artefatti e più in contatto con le forze potenti che dalla natura sprigionano, per accoglierle trasformandole. Né l’opera di Sade può essere catalogata semplicemente come letteratura erotica. Si tratta invece di un vero e proprio programma filosofico fondato sul materialismo e l’ateismo razionalista, che la modernità, rompendo il legame fra Dio, uomo e mondo, ha fatto proprio. Nella forma attuale il sadismo in quanto filosofia rinaturalizzante, ha assunto il volto del libertinismo (filosofico e pratico), e della liberazione del desiderio trasformato in diritto sovrano, fatti propri anche dalla sinistra politica di provenienza marxista [2], come già aveva predetto Augusto del Noce.
Molto significativo è l’accenno al fatto che di questo “naturalismo” sarebbero partecipi anche molti movimenti ecologisti.[3]
Parlando delle calamità naturali, Guido Ceronetti [4] scrive a sua volta: “Decisamente l'uomo non le piace più, alla Grande Madre [5], se mai le è piaciuto, da quando ha cominciato a fare sprizzare il fuoco. E allora giù: non resta che colpire sempre più duro.”
Quello che descrive con l’immagine dell’uomo che si impossessa del segreto del fuoco e che per questo si conquista l’ostilità della Madre Terra rappresenta, mi pare, l’atto eminentemente culturale con cui l’uomo si sottrae al dominio incondizionato della natura ed afferma la possibilità di trasformarla.
Dal punto di vista psichico, la scintilla da cui sprizza il fuoco può ben significare il sorgere della coscienza che consente all’uomo di pensare se stesso come entità differenziata dal mondo circostante, con ciò segnando la separazione fra materia e spirito e attivando anche quella fra bene e male. E’ questo atto in sé che suscita l’ostilità della Dea/madre, attivandone il lato oscuro, distruttivo e divorante, che se non contrastato tende a re- inglobare al suo interno l’umanità/figlio.

La predicazione di certo ecologismo a favore di un integrale adesione alla natura per evitarne la vendetta, così come la negazione sadiana di qualsiasi legge morale trascendente o comunque culturalmente elaborata, costituiscono dunque il ritorno ad uno stadio preculturale, simbolicamente contrassegnato dalla prevalenza dell’archetipo della Grande Madre.
Anche il “patto di sangue” di cui parlavo all’inizio, ne è una manifestazione, non la sola. Anche se vigente in una società a potere maschile, esso affonda le sue origini nel diritto arcaico matriarcale che, come narrano i miti, fu superato dal diritto paterno nello sforzo di elaborare una norma universale che fosse “erga omnes”, cesura giuridica e culturale decisiva nella storia dell’umanità. Alcuni aspetti di questo antico diritto matriarcale sono in vita ancora oggi, per esempio nella ritualità e nel modo di funzionare delle associazioni criminali mafiose [6].
D’altra parte anche sul terreno della legalità ufficiale il vincolo di sangue inizia a scalzare l’universalità della norma giuridica, e proprio ad opera di alcuni magistrati che la dovrebbero applicare. Una sentenza del 2006 (ne dette notizia il TG1 del 6 settembre), ha mandato assolta in secondo grado una madre accusata di aver reso dichiarazioni false atte a sviare le indagini nei confronti del figlio accusato di ricettazione, con la motivazione che una madre ha il diritto di mentire se è in gioco la libertà della prole.

Ai fini di questa discussione è importante sottolineare, per gli esiti impliciti che ne risultano, che la dialettica natura/cultura non può a sua volta prescindere da un’ottica di genere. La tradizionale partizione simbolica fra femminile/materia/natura e maschile/spirito/cultura, nonostante i tentativi di ignorarla, non può essere negata [7]. Il che ha una precisa implicazione: non può esistere civiltà che, pur senza rinnegarla, non trascenda in parte la natura, e non superi anche il mero riferimento biologico. In questo senso qualsiasi comunità umana deve necessariamente conoscere e gestire gli istinti naturali per integrarli in un processo superiore che contempli la coscienza del bene e del male. Ciò implica una autolimitazione condivisa rispetto alla naturale istintualità dei corpi o, se si preferisce usare un linguaggio politicamente scorretto, una quota di “controllo” sociale su di essa. E’ questo un apporto decisivo del Patriarcato e delle sue leggi alla civiltà. Che poi, come talvolta è accaduto, la civiltà sia andata tanto oltre da dimenticare le radici terrene e diventare oppressiva è ben vero, ma nulla toglie al fatto che il ritorno integrale allo stato di natura, alla libertà assoluta del corpo, rappresenterebbe un fenomeno regressivo di incalcolabili proporzioni.

Eppure è proprio a questo che stiamo assistendo. Proprio a questo punta, non rendendosi conto dei suoi significati intrinsecamente “reazionari”, il mondo “progressista” moderno, che ha fatto proprie le istanze del femminismo radicale. E’ questo il senso di slogan come “L’unica legge è il desiderio” o l’orgogliosa rivendicazione femminile di controllo esclusivo, insindacabile e onnipotente, sulla vita dei figli non nati che, poggiando sulla biologia del corpo, tende ad escludere il padre.
Scrive ad esempio Stefania Giorgi su Il Manifesto dell’8 marzo 2005: “Fa paura, e getta ombre inquietanti sul referendum che ci attende in materia di fecondazione assistita, che si risponda a una tale violenza sulle donne per legge di stato trincerandosi dietro la laicità. Laici versus integralisti, progresso scientifico versus oscurantismo, e non impugnando con forza l’unico principio etico possibile: la scelta nelle mani di una donna”.
E’ l’invocazione della signoria della Grande Madre!
Da notare, in queste posizioni, una singolare contraddizione. La critica ai divieti della legge 40 viene fatta, è sempre la Giorgi che scrive, in polemica con la “certezza genetica, paternità di sangue, orrore per il fantasma dell’altro che torna oggi in forma di rigetto isterico dell’inseminazione eterologa”. Per lei, i maschi che parlano sul tema della procreazione: “Vi abitano tutti con l’imperio arrogante di una presunta e perfetta simmetria tra uomini e donne, padri e madri, che nega il primato femminile nella procreazione”.
Dunque, quello stesso legame di sangue cui viene negata legittimità dal lato paterno, viene invece esaltato da quello materno in nome del primato biologico femminile. In suo nome si nega alla società nel suo complesso qualsiasi voce in capitolo rispetto ai bambini non nati, ed in particolare si nega in linea di fatto e di diritto qualsiasi valore e funzione alla paternità: “I misogini del patriarcato…cercano conforto nei patriarchi dei monoteismi, nei profeti guerrieri di un dio padre vendicativo e distruttore per profumare il loro livore contro le donne, la loro paura delle donne. “
Si tratta di un linguaggio che esprime un pensiero violento su cui pochi potrebbero trovarsi d’accordo. Per fortuna esistono donne e uomini di buon senso che sanno cogliere da che parte stanno livore e odio, ma le posizioni in materia espresse dalla cultura dominante si situano comunque in un alveo in ultima analisi simile a quello della Giorgi, in cui non c’è spazio se non per una assoluta e “naturale” signoria femminile sulla vita.
Anche la legge 194, nonostante i tentativi di presentarsi come legge a tutela della maternità, nel momento in cui legalizza l’aborto anziché limitarsi a depenalizzarlo in certe circostanze, ed esclude il padre da qualsiasi influenza sulla nascita del figlio, rientra in quel filone di pensiero che intende ripristinare il primato assoluto del naturale e del “biologico”, in altri termini il primato del materno e del femminile in virtù del legame più stretto con corpo e natura, sulle questioni legate alla vita. Ciò che contrassegna il Patriarcato, termine ormai erroneamente assunto a simbologia dell’oppressione femminile [8], è in realtà la fine del controllo esclusivo materno sulla prole, controllo da quel momento esercitato dal maschile in modo indipendente. Il controllo può essere condiviso col femminile o meno, come avviene nelle forme tiranniche del patriarcato, ma la rivendicazione dell’esclusività materna significa a tutti gli effetti volontà di ritorno ad uno stadio arcaico della civiltà umana.

Che la ri-naturalizzazione dell’uomo implichi il regresso ad uno stato preculturale è svelato anche, nonostante i suoi sostenitori non se ne accorgano, da uno degli argomenti usati dai promotori dei referendum sulla legge 40 nella parte in cui si pongono limiti alla produzione e all’impianto degli embrioni in nome della tutela dei loro diritti in quanto vite umane in fieri. Perché, argomentano costoro, tutelare la vita dell’embrione quando molti di essi muoiono per via di processi naturali? La produzione artificiale di embrioni e la loro conseguente eliminazione (o l’uso che se ne potrebbe fare per altri scopi), cos’altro è se non una imitazione della natura che agisce insindacabilmente per vie sue proprie?

La questione della paternità e della sua crisi nella società moderna, interseca e si sovrappone a quella sulla ri-naturalizzazione della vita.
Già negli anni ’60 del secolo scorso Alexander Mitserlich poteva scrivere un libro dal titolo “Verso una società senza padre”. I decenni seguenti e fino ai nostri giorni hanno confermato ad abundantiam questa analisi, tanto che la paternità è stata sottoposta, in Occidente, ad un vero e proprio attacco sul piano teorico, a cui sono via via seguite una serie di leggi che, sulla scorta di quelle concezioni, hanno in via di fatto e di diritto emarginato i padri concreti e svalutato la funzione paterna come ininfluente o superflua, anche dal punto di vista dei figli. Leggi sull’aborto, fecondazione eterologa per coppie omosessuali o per donne single, affidamento dei figli nelle coppie separate pressocchè in via esclusiva alle madri, ricerche “scientifiche” sulla riproduzione umana senza l’intervento neanche a livello simbolico del principio maschile, femminilizzazione di fatto di tutte le istituzioni educative, hanno sancito nell’immaginario collettivo la perdita d’importanza del padre e la sua subordinazione rispetto alla madre in un ordine gerarchico in cui l’elemento biologico e naturale prevale rispetto a quello culturale [9].
Non c’è dubbio, anche senza aderire in toto alla tesi della paternità come elemento socialmente appreso, che il rapporto del padre col figlio sia meno immediato e corporeo di quello materno, tanto che secondo molti antropologi, in epoca remota la gravidanza non era messa in relazione con la penetrazione sessuale maschile, e dunque l’esclusiva signoria della madre sui figli era indiscutibile. La scoperta di tale relazione ha costituito cioè di un atto di conoscenza, una “mediazione” culturale. Ma proprio in questo risiede il suo valore aggiunto. E’ stata una radicale frattura nel modo con cui l’umanità ha percepito se stessa, avendo dato al maschio padre nuova coscienza di sé e nuove dirette responsabilità verso i figli e la compagna. Un vero salto nello sviluppo della civiltà umana con ricadute benefiche per tutti di immensa portata [10] .
L’allentamento del vincolo paterno fino al suo annichilimento rappresenta dunque una vera e propria regressione sul piano culturale di cui quella sul piano giuridico è effetto prima ancora che causa. Gli effetti della ri-naturalizzazione non tardano a manifestarsi, tanto che il massimo studioso italiano della paternità, Claudio Risé, ha potuto scrivere sul “sadismo della società senza padre” [11], mentre la psicanalista Giuliana Kanzà [12 ]nota che il disagio della società moderna è dovuto al fatto che il maschio/padre ha abdicato al compito di farsi carico dell’angoscia femminile, di essere quindi il punto di riferimento per la madre e per i figli.
L’abdicazione paterna riporta necessariamente al caos degli istinti non governati e non più governabili dalla legge morale degli uomini. Se in Sade c’è la teorizzazione filosofica, nella vicenda di Don Giovanni ne troviamo la trasposizione letteraria . Lì esiste la ribellione convergente del maschile e del femminile al padre, alla sua legge e alla sua funzione di difesa del più debole, che si risolve in relazioni dominate dalla forza e dall’inganno, con danni irreparabili in primo luogo proprio per il femminile, destinato a soccombere e ad essere semplicemente usato [13] . Il mondo femminista e i suoi epigoni progressisti e laici, catturati dall’ideologia e appiattiti sui sociologismi, non si rendono conto di quanto anche le donne abbiano da perdere dalla scomparsa del principio paterno. E anziché puntare alla sua rivalutazione/rivitalizzazione, spingono in senso opposto innescando così un circolo vizioso che si alimenta dei suoi stessi effetti.

Tornando alla vicenda concreta di Beppino Englaro, il fatto che uno degli stipulanti del supposto patto di sangue fosse il padre, non ne muta il significato. Ci ricorda, semmai, che l’archetipo paterno, come il materno, possiede un lato oscuro [14]. Esso può manifestarsi sia come padre-spirito castrante e inibente, sia come potenza terrestre terribile e fallica. In un caso come nell’altro a prevalere è l’aspetto egoico piuttosto che quello di responsabilità e aiuto verso il figlio.
Ora, a me sembra di scorgere la possibilità che la lunga lotta di Beppino Englaro per far togliere il sondino a Eluana sia stata tesa a risolvere un proprio problema, più che della figlia. Se era convinto che fosse sofferente, aspettare diciassette anni in nome della legalità, dunque per non rischiare in prima persona, ha significato il prolungamento della sua sofferenza. Se, al contrario, lei non soffriva, perché questa insistenza se non per uscire lui da una situazione diventatagli insopportabile? Ci si dovrebbe interrogare, ma la risposta non è difficile dal punto di vista dell’inconscio collettivo dominante, sul perchè Beppino Englaro (di cui ripeto che non giudico la buona fede delle intenzioni), sia stato esaltato come “il papà migliore del mondo” e portato ad esempio di civili virtù fino al conferimento della cittadinanza onoraria di Firenze, mentre i padri che si oppongono all’aborto del figlio sono visti come prepotenti che vogliono interferire sul corpo della madre e sulla sua autonomia.

La decadenza del principio paterno, che ha trovato massima espressione nell’Occidente cristiano, procede parallela alla secolarizzazione della società, e le due cose non possono non essere in connessione [15]. Il padre terreno e la sua legge acquisiscono legittimità in quanto immagine del Padre celeste, suoi rappresentanti terreni. Alla perdita d’importanza della religione come cemento sociale comunitario, corrisponde la progressiva perdita di legittimità dell’autorità del padre e il suo essere relegato (o autorelegarsi, che è lo stesso) negli ambiti sempre più ristretti dell’economia e della politica [16]. Sade scriveva nel secolo dei lumi, ma il processo, velocizzatosi poi con l’avvento della società industriale, era iniziato qualche secolo prima, al tempo della Riforma [17]. La società borghese in ascesa incrocia un padre le cui autorevolezza, non più poggiante sul fondamento trascendente del Padre divino, stava già scivolando in autorità fine a se stessa, sempre meno comprensibile, e condivisibile, per la coscienza collettiva, come testimonia la “Lettera al padre” di Franz Kafka.

Ma se il fondamento del Cristianesimo e il suo messaggio di salvezza poggiano sul rapporto fra Padre e Figlio, tentare, come fa anche una certa teologia, di storicizzarlo per riscoprirlo modificato in una generica asessualità di Dio e di Cristo, significa apportare un contributo, indiretto ma pesante, al processo di de-paternalizzazione equivalente, nei termini della psicologia analitica, al progressivo riaffermarsi dell’archetipo materno non più contrastato da quello paterno [18].

Rimane da spiegare un aspetto all’apparenza paradossale, ossia che il processo regressivo di naturalizzazione dell’umano si accentua massimante nell’era della ragione dispiegata e della negazione di Dio [19]. La razionalità si avvale delle possibilità tecniche della scienza per riprecipitare l’umanità a stati psichicamente arcaici, come nella fecondazione artificiale eterologa che usa il padre biologico solo come fecondatore e finirà per marginalizzare del tutto anche il padre putativo dapprima, e in prospettiva potrebbe permettere di baypassare del tutto il principio paterno, anche solo simbolicamente inteso.
Scienza e tecnica moderne, per Pietro Barcellona [20], hanno la pretesa di accedere direttamente e “oggettivamente” alle origini della vita, spiegandola e semmai proponendosi di imitare i suoi processi, senza passare da mediazione culturale alcuna, sia essa mitologica, religiosa o soltanto storica. Negando però lo spazio culturale l’uomo viene ricondotto a pura natura, laddove c’è indifferenza morale e tutto ciò che è possibile fare diventa automaticamente giusto fare. Saltato il limite, viene meno la coscienza morale, impossibile “senza l’esistenza di un gruppo umano che riconosca una trascendenza dei principi, delle regole cui deve uniformarsi la condotta individuale”. Con essa cade la possibilità di operare distinzioni fra bene e male, retrocedendo così allo stato originario di indistinzione simbiotica con la natura.
Gli esiti della rinaturalizzazione, come descritti da Barcellona, appaiono d’altra parte come una variante della tendenza della modernità a negare la possibilità di esprimere giudizi di valore. Sostenendo che ciascun soggetto è completamente libero di elaborarsi le proprie norme, non si nega tanto la regola rigida imposta dall’alto, ma la stessa necessità della ricerca di principi trascendenti da cui scaturiscano norme condivise.

Anche la psicologia analitica, con gli strumenti concettuali suoi propri, ha analizzato i temi della coscienza, quelli del bene e del male e le tendenze della cultura moderna, giungendo a conclusioni assai simili a quelle fin qui viste. Neumann [21] sostiene che l’eccesso di razionalità e la pretesa di spiegare con essa tutti gli aspetti della vita, hanno in realtà rimosso l’inconscio dalla coscienza dell’uomo moderno lasciando che agisse nascosto nell’ombra. Con ciò lo hanno esposto al gravissimo rischio di esserne inconsapevolmente fagocitato. Il suo agire sarebbe in realtà indotto da motivazioni inconscie, e tutto lo sforzo di affrancamento ed emancipazione della coscienza egoica finisce per franare. Il massimo di razionalità apparente viene dunque a coincidere col massimo di irrazionalità effettiva. E’come se l’uomo moderno non riuscisse più a individuare, e vivere, una posizione di equilibrio e illudendosi con i suoi strumenti tecnici di piegare ai propri fini la natura, in realtà le si risottomesse di nuovo.

“Un passo oltre verso un dove incognito che ci interroga fortemente e a cui non so ancora dare un nome”, scrive Riccardo De Benedetti.
Credo che occorra riflettere ben oltre queste mie righe, ma un concetto inizia a delinearsi. Quello stato regressivo sulla cui esistenza abbiamo visto convergere studiosi di discipline diverse e provenienti da più aree culturali, si struttura intorno al disconoscimento/eclissi del padre, divino e umano. E’ lui il protagonista dell’affrancamento dell’umanità dallo stato simbiotico con la natura, esattamente come è il padre personale che rompe la simbiosi (peraltro necessaria all’inizio della vita) madre/bambino, consentendogli l’accesso alla psiche adulta. L’assenza/scomparsa del padre e della sua norma morale dalla quale scaturisca anche quella giuridica, non schiude all’uomo l’era della libertà. Lo fa invece riprecipitare verso uno stadio che si credeva superato per sempre, in cui regna l’arbitrio a fare le spese del quale saranno i soggetti più deboli e indifesi, proprio come accade in natura. Così per l’aborto, così per l’eutanasia, così per i bambini e i vecchi, gli handicappati e i dementi.


[1] Riccardo De Benedetti. “La chiesa di Sade, una devozione moderna” (Medusa.2008). Il processo che le sue narrazioni descrivono è lo stesso della dissoluzione in elementi presociali di quell’uomo naturale alla cui definizione tutta la cultura francese del settecento ha dedicato le sue energie.(pag. 54) . L’allontanarsi dell’uomo dalle iniziali condizioni di naturalità, il proprio emergere faticoso dal fondo inesauribile della produzione naturale,…….sono considerati da Sade il male, il vero male. Sade considera la legge naturale in quanto legge assoluta, l’unica. La natura al posto di Dio. (pag. 95)
….Sade consegna l’uomo a una tirannia ancora più nefasta e incorreggibile [rispetto alla religione e agli ordinamenti sociali] : la natura spogliata di qualsiasi presenza umana [pag. 97].
…Sade, infatti, revoca fino alla radice ogni legittimità delle leggi solo in nome di quella che appare sorgere direttamente dalla natura incontaminata, la Legge naturale [pag 35].


[2] Riccardo De Benedetti. Op. cit. Sade [….] è un potente creatore di istituzioni politiche [……]. Nelle sue pagine corre lo slancio creativo di nuovi assetti sociali bisognosi di regole e leggi […..] fosse solo quella norma che vale più di ogni norma che è il “vietato vietare”. Lo slogan sessantottardo denuncia la sua chiara ascendenza sadica…Ed ancora: L’odierna ansia del pensiero di sinistra di garantire e legittimare prestrazioni morali trasgressive, venendo meno qualsiasi prospettiva in grado di prefigurare veri e propri sistemi produttivi alternativi a quello attuale, è ciò che rimane dell’antica aspirazione alla realizzazione di una morale diversa da quella borghese.

[3] Riccardo De benedetti, op. cit. : la salvaguardia della natura può ben volere lo stupro dell’umanità che una volta per tutte ne ha violato la sovrana indifferenza. Per l’ideologia ecologista, cosa ben diversa dalla necessaria preoccupazione per la salvuaguardia del creato, è diventata luogo comune la visione di un’umanità che infierendo sulla natura ora ne paga la provvidenziale ritorsione.

[4] Guido Ceronetti: “Cosa pensa la madre terra” (www.lastampa.it del 5/12/05)

[5] Grande Madre ( Gaia, Madre Terra, Natura), sta qui ad indicare la potenza primordiale da cui scaturisce la vita di cui è Signora incondizionata. L’uomo primitivo percepiva se stesso come sua parte, e ad essa si sentiva irrimediabilmente sottomesso. In senso archetipico, ossia secondo la definizione degli archetipi di Carl Gustav Jung, è un’immagine permanente dell’inconscio collettivo. E’, anzi, l’immagine inconscia più antica ed arcaica. In quanto inconscia è raffigurata come femminile, e tale è, sempre, nella mitologia. L’ emersione della coscienza egoica, raffigurata simbolicamente al maschile, rappresenta il lungo processo culturale di affrancamento dell’umanità, l’affermazione della distinzione fra l’uomo e la natura, fra l’Io e il Tu.

[6] In esse, ad onta dell’impronta sociologicamente maschile (o maschilista), i segni del diritto matriarcale di sangue sono chiaramente rintracciabili, a partire dal rito d’iniziazione del nuovo mafioso, rito appunto di sangue, per finire al gergo usato nelle “famiglie” che, per esempio, si riferisce al capo col termine “mammasantissima”. Per un’analisi puntuale della mafia da questo punto di vista rimando al bel libro (purtroppo ormai introvabile in libreria) di Silvia di Lorenzo, “La Grande Madre mafia”.
Anche il teatro si è cimentato sul tema. Emma Danti, nel preambolo al suo lavoro teatrale “Cani di bancata”, descrive così la mafia: La mafia è una femmina-cagna che mostra i denti prima di aprire le cosce. E’ a capo di un branco di figli che, scodinzolanti, si mettono in fila per baciarla……. La cagna dà ai suoi figli il permesso di entrare: ”Nel nome del Padre, del Figlio e della Madre e dello Spirito Santo”…………. Il mafioso risorge e riceve dalla Madre la benedizione. I fratelli lo abbracciano e comandano il giuramento: “Entro col sangue ed uscirò col sangue”. Il patto si stringe. C’è una mafia da agriturismo nelle campagne di Corleone, che nasconde l’orrore di appartenenza selvaggia, il gergo segreto…

[7] Anche un filosofo “insospettabile” come Umberto Galimberti lo ammette. In “La tortura delle donne (D Donna di Repubblica, 22/05/ 2005), sostiene che la donna ha con la natura un rapporto diverso e più stretto dell’uomo. Come la natura crea e distrugge “la donna ha il potere esclusivo di generare così come di spegnere la vita prima della nascita”. Il maschio, col suo potere e le sue leggi, tenta di imitare il potere femminile, ma vi riesce solo parzialmente. Il re, scrive, infatti condanna a morte ma non esegue direttamente la condanna. Mentre il luogo maschile è la storia, il luogo femminile è il corpo col suo linguaggio immediato, che invece gli uomini riconoscono solo come fatica o piacere. Dal corpo femminile, che in quanto generante è esposto al consumo di sé per fare spazio all’altro, nasce l’ambivalenza del sentimento che da amore può trasformarsi in odio e in rifiuto del neonato o del cibo. Nel momento in cui il sentimento diventa risentimento l’obbiettivo non è tanto uccidere quanto consumare l’oggetto del suo odio, da cui scaturisce la capacità di torturare e logorare con accanimento senza fine, perché il piacere non è la morte ma il disfacimento di quella cosa che solo la donna sa fare e disfare: il corpo. Le donne, insomma- dice G.- sanno torturare meglio degli uomini per lo stesso motivo per cui sanno amare meglio, perché conoscono il corpo. Ed a proposito di tortura, va notato che esiste una differenza fondamentale fra le torture del passato e quelle sadiane (o a quelle di Abu Graib). Le prime erano, come argomenta Foucault (La nascita delle carceri) una punizione per la violazione simbolica del corpo sacro del re (la sua Legge) o uno strumento per estorcere confessioni, nelle seconde vediamo in azione il “biopotere”, l’amministrazione dei corpi e la gestione calcolatrice della vita, per distruggere non solo il corpo ma anche l’anima della vittima, restituendolo all’esterno privato della sua identità di persona, pura materia inerte su cui la natura esercita la sua indifferente sovranità. Questo può spiegare perché, come nota De Benedetti nel libro citato, Sade esaltava la tortura ma al contempo era contrario alla pena di morte.
Per un commento più articolato dello scritto di Galimberti, si veda, comunque in http://www.maschiselvatici.it/accadeoggi/tortura.htm

[8] Lo studio sociologico dei fenomeni nulla ci dice circa il loro substrato psichico, tantomeno rispetto all’influenza degli archetipi che li attivano. Scrive Erich Neumann in “La psicologia del femminile” (Astrolabio. 1975) che, quando il maschile respinge nell’inconscio l’Anima (figura simbolica delle forze femminili di sesso opposto presenti nell’uomo), si perde inconsciamente nella donna. …Una costellazione di questo tipo porta al predominio della Grande Madre, e cioè alla regressione in uno stadio anteriore della coscienza nel quale l’uomo sta di fronte alla donna in veste di bimbo o giovinetto amato. Ciò può accadere sia nel caso in cui l’uomo si trasforma in eroe in pantofole che vive con la donna come se fosse con sua madre e ne dipende per tutto ciò che riguarda il sentimento e l’interiorità, sia quando il maschio si autorelega solo nelle questioni esterne e razionali della vita, professione, politica etc. In tal modo “ dietro la facciata di un matrimonio patriarcale….può benissimo esistere un tale capovolgimento di potere e di dipendenza…. Ed anche in situazioni estreme di dominio maschile sulla donna [come in molte società islamiche. Ndr] esiste spesso una dipendenza psichica del maschile dominante sul femminile dominato, che si manifesta fra l’altro nel prevalere dell’archetipo materno, riscontrabile di frequente o nel predominio della madre , o in quello della donna come madre dei figli. .

[9] E’ istruttivo, per comprendere il senso transpersonale di queste rivendicazioni ed a conferma del carattere regressivo della nostra epoca, il confronto con gli antichi culti matriarcali di fertilità. Erich Neumann in “Storia delle origini della coscienza “ (Astrolabio. 1978), scrive: Essa [la Grande Madre] è la madre di tutto ciò che è nato o che nascerà; però, se pure le accade di bruciare di desiderio per il maschio, si tratta solo di un breve attacco di passione momentaneo; il maschio è per lei solo un mezzo in ordine allo scopo, solo portatore del fallo. Ogni culto fallico, che viene celebrato sempre e dappertutto proprio dalla donna, esprime lo stesso contenuto: la potenza anonima del fecondante, l’autonomia del fallo. L’essere umano,l’individuo, è solo portatore, e per di più un portatore transitorio e sostituibile…

[10] Margaret Mead. “Maschio e femmina” (Il Saggiatore. 1962).
Così, alla base di quelle tradizioni che ci hanno permesso di conservare la coscienza della nostra umanità, v’è la famiglia, un tipo di famiglia in cui costantemente gli uomini mantengono e si prendono cura delle donne e dei bambini. In seno alla famiglia, ogni nuova generazione di ragazzi apprende ad essere sostegno adeguato e sovrappone alla mascolinità, implicita nella sua costituzione biologica, la parte di padre, che ha appreso dalla società. Quando la famiglia è abolita, come succede durante la schiavitù, in periodi di grandi sconvolgimenti sociali, durante le guerre etc. . . ., questa delicata linea di trasmissione si spezza. E’ probabile che in tali periodi . . . . . . i vincoli biologici tra madre e figlio ridiventino i più importanti, mentre vengano violate e falsate le speciali condizioni nelle quali l’uomo ha conservato le sue tradizioni sociali. Fino ad ora, nelle società a noi note, le società umane hanno sempre ristabilito le forme temporaneamente abbandonate. . . . . . . Fino ad ora l’abolizione della famiglia non s’è mai prolungata tanto a lungo da annullare negli uomini il ricordo di quanto sia preziosa.

[11] Claudio Risè. “Il padre, l’assente inaccettabile” (San Paolo. 2003). Inseminazione artificiale, controllo delle caratteristiche del nascituro attraverso quelle del padre on-line, controllo artificiale su un processo naturale come quello della nascita, appropriazione finale del nascituro da parte di una coppia che lo priva della figura paterna: sono tutte manifestazioni caratteristiche del mondo onnipotente, ipercontrollante ed affettivamente sadico della nevrosi ossessiva. Una forma patologica oppressa da un sentimento della natura (e sopra di essa di Dio) di cui non ci si fida, perché è mancata l’esperienza dell’affidamento al padre, buon custode e creatore amoroso.

[12] Giuliana Kanzà, su La Stampa del 26/5/2005. Semplificando potremmo dire che la donna è diversa dall’uomo perché è strutturalmente più vicina all’essere, all’amore, e che per contro è meno sottoposta ai legami della legge, questa intesa in senso universale, simbolico. Così, nel versante dell’amore, è capace di debordare nell’odio quando la sua angoscia non è presa in carico dall’uomo………….Prendiamo….. la famiglia per eccellenza, Maria, Giuseppe e Gesù. Giuseppe si è preso carico dei problemi di Maria, l’ha guidata in Egitto, ha organizzato il viaggio, si è preso carico dei problemi di Maria. Il disagio della società moderna è che l’uomo ha abdicato a questo compito e viene meno alla sua funzione di padre, punto di riferimento per se stesso, per la madre e per il bambino.

[13] Claudio Risè. “Don Giovanni, l’ingannatore. Trappola mortale per donne d’ingegno (Frassinelli. 2006). Ogni violenza a una donna è violazione della legge del padre, che protegge il femminile e il debole….E’ su questa protezione che si fonda il senso del mondo maschile, altrimenti ridotto al dominio della forza. Che invece va, come ha osservato la Weil, conosciuta proprio per essere trascesa, rifiutata come fine (pag. 85/86). E ancora: Occorre aver fatto pace col mondo dell’ordine, della legge, e della norma, per riuscire a stare nella relazione, ed a tenerla viva. Ma tutto ciò richiede un rapporto pacificato col mondo del padre, che è quello che rende accettabile la norma, per solito in virtù del proprio rapporto col mondo spirituale, trascendente, che la fonda e la giustifica.

[14] Parlando dei padri la cui coscienza intrattiene un rapporto sbagliato con l’archetipo, Paolo Ferliga “Il segno del padre” (Moretti & Vitali. 2005), scrive: In questi casi la strada del figlio è particolarmente difficile, perché non può contare sull’aiuto del padre. Il padre….non può iniziare il figlio alla vita. Piuttosto lo sacrifica al proprio interesse o ai propri progetti e finisce per colludere con il lato negativo dell’archetipo materno.

[15] Paolo Ferliga, op. cit. : Al di là della fede personale, Dio come simbolo è un’immagine indispensabile perché nella psiche individuale e collettiva la paternità si strutturi in modo adeguato.

[16] Claudio Risè. “Il padre, l’assente inaccettabile”. Con la rottura con quell’altro Padre, consumata durante il processo di secolarizzazione, il ruolo specifico del padre, in effetti, si esaurisce. E quando, in fase di industrializzazione ormai matura […..] il padre scoprirà di non essere in grado di produrre abbastanza reddito, di offrire vacanze sufficientemente prestigiose, e prestazioni sessuali da manuale, si vedrà bruscamente buttato fuori di casa.

[17] Secondo Dieter Lenzen, “Alla ricerca del padre. Dal patriarcato agli alimenti” (Laterza. 1991), il processo di eclisse del padre era già iniziato nella Grecia antica con l’attribuzione di alcune funzioni paterne, in specie quelle educative e formative, ad altre figure come i pedagoghi e i filosofi i quali però, in quanto maschi adulti, svolgevano una funzione vicaria. A questo proposito P. Ferliga (Il segno del padre), nota come il Cristianesimo consideri Dio come Padre, e quindi torni a valorizzare molto potentemente la sua figura a livello simbolico. E’ solo con Lutero che, per la prima volta, la madre assume un ruolo centrale nella formazione dei giovani, anche maschi.


[18] Pietro De Marco. “Apparizioni Quotidiane” (Libreria Editrice Fiorentina, 2005): ..altro sarebbe l’Occidente e il mondo se il perno della rivelazione cristiana (ma, ovviamente, non cristiana in quei termini) fosse stato un mito della Dea Madre […..] L’ostentatio genitorialium del Bambino Gesù nell’iconografia tardo medievale e moderna (fino al maturo Cinquecento) integra e rafforza la manifestazione, l’epifania, del Nato per la nostra salvezza, nella sua determinatezza umana e maschile […..]l’arte fiamminga, van der Veyden in particolare, fa sottolineare al Padre con la mano poggiata sul perizoma di Cristo all’altezza dell’inguine la decisiva potenza fecondante della Morte del Salvatore. La Paternità è dunque trasmessa ed esibita nel Figlio morto dalla mano del Padre unico, ex quoominis paternitas in caelis et in terra nominatur (E.f. 3, 15). Dov’è Morte la tua vittoria?
Una “società delle buone maniere” ha poi prevalso mettendo la sordina, almeno nell’immagine sacra pubblica, su questo tema. Ma la maschilità del Cristo, architettonicamente necessaria alla fides quae creditur, non è svilita, almeno fino alla stagione dell’androginia decadent e della pressione per la distruzione dei differenziali simbolici a noi contemporanei. Senza la densità dell’autentica maschilità del Cristo anche l’enorme ricchezza teologico-simbolica di Maria si disgrega.
(pag. 191 e segg.)

[19] La nostra epoca svaluta, in nome della ragione, la religione e in genere ogni manifestazione mitica attribuita a magia o superstizione, ma secondo Jung (Gli archetipi dell’inconscio collettivo. 1934) l’importanza dei simboli, e in particolare di quelli religiosi, risiede anche nel fatto che proteggono, per così dire, l’integrità della psiche dal caos dell’inconscio. In certo senso servono per mediare fra coscienza e inconscio mettendoli in comunicazione attraverso miti, immagini forti, metafore. Mai l’umanità ha mancato di immagini potenti, apportatrici di magica protezione contro la perturbante realtà delle profondità psichiche. A sua volta, secondo Paolo Ferliga (Il segno del padre), la religione, garantendo uno spazio adeguato al regno dello spirito, ha così impedito alla coscienza di delirare, pretendendo di risolvere da sola il problema della vita e delle morte.

[20] Pietro Barcellona-Tommaso Garufi. “Il furto dell’anima” (Dedalo. 2008). Nell’universo della scienza manipolativa non c’è posto per l’interrogazione sul senso della vita e sulla verità dei nostri pensieri. L’essere umano è un puro organismo in un universo che non ha altra meta se non sopravvivere senza comprendere…. La morte di Dio non può che essere la morte dell’essere umano, poiché l’umano non si può costituire se non come spazio distinto, specifico, fondato sulla dualità e sulla relazione con l’altro, rispetto allo spazio divino dell’onnipotenza e allo spazio delle forze della natura che si rigenerano continuamente. Il mondo del divino e il mondo della natura sono stati gli spazi opposti, distinti, all’interno dei quali si è costituito lo spazio umano.

E. Neumann. “Storia delle origini della coscienza”. [ Nella condizione originaria] non esiste ancora alcun Io, alcun centro soggettivo, che metta in rapporto il mondo con se stesso e se stesso col mondo….Per questo all’inizio tutto è duplice, ambiguo, indistinto, come abbiamo visto nella mescolanza di maschile e femminile, di buono e cattivo…….In questo stato iniziale Io e Tu, interno ed esterno, uomo e cosa non sono ancora entità chiaramente differenziate, né c’è una distinzione fra uomo e animale, tra uomo e uomo, tra uomo e mondo. …….All’inizio non esiste neppure la separazione fra bene e male. Il mondo e l’uomo non sono ancora divisi in puro e impuro, buono e cattivo… Qui si da rilievo all’azione, all’efficacia in quanto tale, al di là del bene e del male…….

Nel corso dello sviluppo occidentale, il processo in sé positivo dell’emancipazione dell’io e della coscienza dallo strapotere dell’inconscio è diventato negativo. Esso è andato ampiamente al di là della divisione dei sistemi coscienza-inconscio trasformandola in una vera e propria dissociazione. …
..I demoni e gli archetipi riacquistano la loro autonomia, la psiche individuale si fonde di nuovo con la Grande Madre terribile, e con essa perdono ogni validità l’esperienza individuale della voce e la responsabilità del singolo di fronte all’uomo e a Dio.
…Il tracollo della coscienza e del suo orientamento verso il canone culturale travolge anche l’azione della coscienza morale, del Super-io, nonché la maschilità della coscienza. Compare allora una “femminilizzazione” sotto forma di allagamento da parte del lato inconscio…

[ 08 giugno 2009]