Intervista a Pier Giorgio Liverani: Coinvolgere il padre: una scelta possibile in favore della vita

L’intervista: il giornalista Pier Giorgio Liverani invita a riflettere sulle trasformazioni culturali che hanno accompagnato il dibattito sulla vita dal 1978 ad oggi. Attraverso la testimonianza raccolta nei suoi libri.

«Se l’uomo si autoerige a giudice del bene e del male la vita e la famiglia cadono nel pericolo. Ma è possibile uscirne: con iniziative concrete e smascherando le menzogne della comunicazione»

di Antonello Vanni

D. Dottor Liverani, lei, da giornalista attento a questi problemi, ha seguito passo per passo tutto il dibattito etico e politico dalla liberalizzazione dell’aborto nel 1978, alla legge sulla fecondazione artificiale del 2004. È stato, in un certo senso, un testimone delle trasformazioni culturali della nostra società che hanno dato origine, come dice il cardinale Ruini, alla nuova “questione antropologica”, vale a dire a una nuova e pericolosa concezione dell’uomo sganciata dal suo Creatore. Il suo ultimo libro “La società multicaotica con il Dizionario dell’Antilingua” (Ares ed., Milano, 2005, www.ares.mi.it) si occupa proprio di questa trasformazione e ne denuncia i rischi. Il libro si apre con una similitudine: il clima culturale della nostra società è lo stesso di quello respirato durante la costruzione della “torre di Babele”. Può spiegarci meglio questo paragone?

R. Vorrei dire che il clima attuale è addirittura peggiore di quello di Babele. La confusione delle lingue di allora possiamo considerarla un fenomeno fisiologico di una giovane umanità che va crescendo, maturando, differenziandosi e prendendo cognizione di sé. Oggi la confusione delle lingue, simboleggiata dall’Antilingua, è indice di una crisi morale assai grave: per una parte importante della nostra cultura non esiste più una verità assoluta, tutto è relativo, ciascuno può costruirsi la propria etica e l’ipocrisia del linguaggio copre tutto vergognosamente, come quando, sentendosi nudi, i progenitori cercarono di nascondere la verità dei loro corpi con una misera foglia di fico.

D. È vero, dunque, che uno degli aspetti più discussi di questa società multicaotica è il “pluralismo etico”. Questo atteggiamento nei confronti delle scelte morali in che cosa ha avuto origine principalmente? E, secondo lei, è una forma che permette di valorizzare la vita in quanto bene comune o ha un effetto diverso?

R. Si tratta di una grave e pericolosa deriva della soggettività e della responsabilità dell’individuo. L’uomo postmoderno che ha decretato la “morte di Dio” si è autoeretto a giudice del bene e del male con la conseguenza che il bene primario – la vita – non è più sempre tale. Dal soggettivismo tipicamente cristiano si è caduti nell’individualismo liberal-radicale, per cui solo la mia vita vale e quella dell’altro ha un valore soltanto funzionale alla mia. La contraccezione di massa, il divorzio (si pensi ai figli), l’aborto legalizzato e statalizzato e la fecondazione artificiale ne sono i segni e la dimostrazione più evidenti.

D. Di fronte al caos etico, che, nel suo ultimo libro, viene analizzato da diversi punti di vista, lei propone come soluzione costruttiva “l’etica del più piccolo e lo sguardo contemplativo nei confronti della vita”. Può spiegarci di cosa si tratta?

R. L’etica del più piccolo è il tentativo che Madre Teresa di Calcutta fece per misurare tutto sulla dimensione fisica, spirituale e personale dei “piccoli”. È, dunque, l’etica della donazione, del disinteresse, dell’amore per il prossimo, di Gesù che si fa tanto piccolo da ridursi a minuscola ostia per farsi mangiare. La stessa cosa, sostanzialmente, vuol significare lo sguardo contemplativo nei confronti della vita: l’esatto opposto dello sguardo di possesso che solitamente gli uomini rivolgono sulle cose e sulle persone anche quando dicono di amarle. Ne ha parlato con chiarezza il compianto papa Giovanni Paolo II nelle sue encicliche Sollicitudo rei socialis e Evangelium Vitæ. Ancor prima ne aveva già dato un’idea il suo successore allora cardinale Ratzinger allorché, in un convegno del Movimento per la vita disse che “l’umanità di ciascuno comincia dallo sguardo che noi poniamo sull’altro”. E un filosofo del diritto aveva scritto che la debolezza dell’appena concepito è tale che solo può esserne garanzia di vita la contemplazione, anzi la venerazione di cui egli ha bisogno di essere oggetto.

D. Nel suo precedente libro “Dateli a me. Madre Teresa e l’impegno per la vita” (Città Nuova, 2003) lei ha mostrato, attraverso l’esempio delle scelte di Madre Teresa, come “l’etica del più piccolo” e lo “sguardo contemplativo” siano soluzioni realizzabili. Tuttavia il nostro mondo, modellato sul consumismo, è capace di vivere all’insegna del dono e dell’accoglimento? E a quali condizioni può diventarlo?

R. Credo che qui si debba fare riferimento al messaggio di Gesù: il mondo cambierà soltanto se i cristiani saranno capaci di una vera e credibile testimonianza. Purtroppo a me viene sempre alla mente l’invettiva di Nietzsche: “Voi cristiani non avete il volto di uomini risorti”…

D. Con La società multicaotica è stato ripubblicato, aggiornato, il suo Dizionario dell’Antilingua, vale a dire il dizionario delle “parole dette per non dire quello che si ha paura di dire”. Questo Dizionario, pubblicato la prima volta nel 1993, era da subito diventato uno strumento di analisi fondamentale per tutti coloro che dedicano il loro impegno alla difesa della vita umana e della famiglia. Ma che cos’è l’”Antilingua” e perché è tanto temibile?

R. Vede, noi pensiamo servendoci delle parole e del loro significato. Senza parole o con identiche parole ma dal significato diverso non potremmo più esprimere certi concetti. Lo aveva già dimostrato Huxley in “1948”. Se io cancellassi la parola madre, impedirei a me e agli altri di pensare e di esprimere il relativo concetto. Se invece di dire uomo in età embrionale io uso “prodotto del concepimento”, non darei più al concetto di uomo all’inizio della sua vita il valore che ha, ma esprimerei un’idea banale valida anche per gli animali – la rana, il topo, la gallina – e mi sentirei di disporre di quel prodotto alla stregua di qualsiasi altro prodotto di una lavorazione: se mi piace e mi serve lo tengo, se no lo butto via. Nella legge di aborto, invece di questa parola si usa “interruzione della gravidanza”, innanzitutto perché questa espressione di tipo medico non evoca sentimenti né emozioni; poi perché mentre l’aborto si riferisce a qualche cosa che tocca direttamente il bambino concepito, l’interruzione di gravidanza indica la modificazione di una condizione della madre. Anzi della donna, perché la legge 194 ha abrogato sia la parola madre che la parola figlio: se una madre abortisce un figlio, ci troviamo di fronte a una tragedia, ma se una donna interrompe una gravidanza ed espelle il prodotto del concepimento ecco che tutto si riduce a un evento fisiologico della vita di una donna… Questi sono soltanto pallidi esempi di un linguaggio che va crescendo e che si è ormai consolidato nei media, nella politica, nella medicina e ha già trasformato la cultura della gente.

D. Settimanalmente in “Avvenire” (nella rubrica Controstampa) e mensilmente in “Sì alla vita” (nel Diario), lei propone, attraverso l’analisi di articoli dei principali quotidiani e riviste, un vero e proprio aggiornamento continuo del Dizionario. A suo parere, l’utilizzo ideologico e distorto delle parole è stato uno strumento mediatico dell’ultima campagna referendaria contro la legge 40/2004? Può farci qualche esempio concreto?

R. L’antilingua è stata largamente usata dai referendari. Per esempio il termine “clonazione terapeutica” indicava qualche cosa di sostanzialmente differente dalla “clonazione riproduttiva”. Invece si tratta in entrambi i casi della distruzione di un uomo in età embrionale: nel secondo caso, generalmente condannato come inaccettabile sul piano etico, nel primo invece fortemente richiesto e raccomandato per ricavarne le cellule staminali con finalità terapeutiche non dell’embrione, bensì di un’altra persona. Insomma l’uccisione di una persona come cura di un’altra. A parte la considerazione che una simile terapia è soltanto ancora un’ipotesi e non una possibilità accertata. È, però, anche e soprattutto il progetto di un grande business.

D. Voci di particolare importanza nel Dizionario dell’Antilingua sono le parole che indicano le realtà più autentiche dell’esistenza umana: figlio, bambino, madre, padre… Lei ha osservato che nella “cultura della morte” e nell’abortismo queste parole sono sempre state lo strumento principale. Può spiegarcene il motivo?

R. Le antiparole stravolgono il senso delle cose, della realtà, delle relazioni umane. Se io distruggo i rapporti parentali, che sono soprattutto rapporti di donazione gratuita, cioè di amore, posso fare della vita degli altri ciò che più piace a me: è il principio base dell’individualismo radicale e della sua etica utilitaristica.

D. Molti studi autorevoli oggi sottolineano gli effetti negativi, individuali e sociali, dell’allontanamento del padre dalla vita dei figli. Dal punto di vista della bioetica questo era già stato segnalato quasi 15 anni fa nel suo Dizionario alla voce “Padre”. Può darci qualche indicazione a riguardo?

R. L'artificio della legge 194 di svalutare pressoché completamente la figura e il ruolo del padre non è privo di una sua logica perversa e di una sua validità negativa. Nel mio Dizionario spiego come sia proprio il figlio che costituisce il padre nella sua realtà. Tutti ricordiamo l’episodio biblico di Zaccaria, il marito di Elisabetta e padre di Giovanni il Battista. Zaccaria non ebbe fiducia nella promessa di un figlio fattagli da Dio e divenne muto. Ma Giovanni, nascendo, gli restituì, per così dire, la parola consentendogli di dargli il nome. Nella cultura ebraica e soprattutto nella Bibbia i nomi esprimono la sostanza delle cose e delle persone. Nel nostro caso Zaccaria (da "Zekar Jah") significa "Jahweh ricorda". Giovanni, invece (da "Jah hanan"), vuol dire "Dio ha avuto misericordia". In questo episodio è il figlio Giovanni che ridà la parola al padre Zaccaria, cioè lo ricostituisce come tale dopo che quello, per mancanza di fede, aveva negato la sua stessa possibilità di paternità, cioè la propria identità. In tal modo, se pur sempre è il padre che genera il figlio, tuttavia è il figlio – potremmo dire la "parola" figlio – che costituisce il padre, lo rende pienamente uomo, gli assicura la discendenza carnale e spirituale attuando la promessa – la "parola" – di Dio, cioè del Padre per eccellenza. Nella cultura postmoderna, che del padre ha paura o lo vuole svalutare perché rimanda a Dio, è proprio il "nome figlio" che va riscoperto. E preciso: il nome di Gesù, il Figlio del Padre. Bisogna reimparare a vedere, anzi a contemplare anche i nomi delle cose. Narra la Bibbia che, all’inizio, le cose create non avevano ancora un nome e che Dio volle proprio che fosse l’uomo a “dare il nome” alle cose, affinché ne conoscesse l’essenza e si mettesse con esse in una relazione di verità. La lingua è un’invenzione di Dio, l’antilingua qualcosa di demoniaco.

D. Tornando alla “società multicaotica”, qual è il destino della famiglia in un’epoca che, come lei ha osservato, tende a “frantumare e a dividere” la comunità e l’essere umano? Si tratta di un processo irreversibile o ci sono segnali che indicano direzioni (e motivazioni) contrarie?

R. Non c’è mai nulla di irreversibile, per fortuna, e lei si è già dato, in qualche modo, una risposta. Purtroppo io faccio soltanto il giornalista, cioè cerco di guardare alle cose che avvengono, di dare ad esse un ordine, di scoprirne il senso per comunicare tutto ciò agli altri in una comunicazione vitale, ovvero che serva realmente alla vita. Non mi faccia fare anche il profeta…

D. In questa materia, lei, dott. Liverani, aveva pubblicato, già nel 1979, il libro “Aborto anno uno - Fatti e misfatti della legge 194” (Ares ed., Milano). Di che cosa trattava questo testo e qual era il messaggio principale contenuto?

R. Quel libro era una documentazione e uno… smontaggio del castello di menzogne costruito per convincere l’opinione pubblica non solo della necessità, ma anche dell’opportunità e della bontà di una legge di legalizzazione sull’aborto. Si pensi, tanto per fare l’esempio forse più clamoroso, all’affermazione – diffusa per convincere l’opinione pubblica – secondo cui in Italia si praticavano ogni anno fino a quattro milioni di aborti clandestini, che provocavano la morte, sempre ogni anno, di ventimila donne. Se ciò fosse stato vero, ogni donna (anche le infertili, le vergini, le suore…) avrebbe praticato, nel corso della propria vita, ben undici aborti volontari, più gli eventuali spontanei e i parti. Quanto alle ventimila morti di aborto, basti pensare che, in quegli anni, il totale di tutte le donne in età fertile morte per qualsiasi motivo (malattia, incidenti, delitti, parti e aborti) era di circa dodicimila l’anno mentre quello degli aborti procurati (tutti clandestini) era sicuramente più vicino ai centomila che ai duecentomila. Il libro documentava anche l’ipocrisia della legge, a cominciare dal suo titolo contraddittorio (“Tutela della maternità e interruzione volontaria della gravidanza”) e dall’abrogazione, nel suo testo, della parole madre e figlio, sostituendole con donna e concepito. Documentava anche la banalizzazione dell’aborto, l’abbandono della donna alla sua solitudine e la “liberazione” del padre – nominato, ma praticamente cancellato – da ogni responsabilità e il tentativo di negare l’umanità del figlio non ancora nato. Infine dimostrava la debolezza e la remissività di una classe politica di governo, in cui erano presenti anche molti cattolici, che ha lasciato che si introducesse nell’ordinamento del Paese il diritto di uccidere il proprio o l’altrui figlio. Infine ha, per così dire, codificato per legge l’Antilingua, vale a dire l’uso babelico delle parole.

D. Partendo dal suo osservatorio di giornalista e di condirettore di “Sì alla vita” (il mensile del Movimento per la Vita Italiano, www.mpv.org), come ritiene si sia evoluta in Italia la situazione culturale, politica e giuridica, riguardante la tutela della vita umana nascente dal 1978 ad oggi?

R. C’è stata una involuzione assai grave, perché la legalizzazione ha consentito che l’idea dell’aborto, con le altre che poi le sono seguite, si radicasse nella cultura del Paese. Nacque allora quella nuova “questione antropologica” di cui parla il presidente dei Vescovi italiani, cardinale Camillo Ruini: l’essere umano è divenuto disponibile, è stato “reificato”, cioè ridotto per legge a un oggetto, di cui si può disporre a piacimento, come hanno poi dimostrato la successiva legge sulla fecondazione artificiale e i referendum mediante i quali si è tentato di eliminare anche i pochi ma importanti “paletti” che essa contiene (riconoscimento della personalità del concepito, rifiuto della fecondazione eterologa, dei single, degli omosessuali, delle donne in età infertile)… Infine la legalizzazione ha reso di fatto etico l’aborto e ha dato un grosso contributo al relativismo etico. C’è stata, però, anche un’evoluzione positiva: per un verso ha messo il Paese di fronte a una realtà ipocritamente nascosta; e per un altro ha fornito l’occasione di affrontare finalmente il discorso sul “chi è” l’uomo, sulla sua verità e dignità. Qui vorrei ricordare il grande contributo culturale e “politico” dato dal Movimento per la vita nella riscoperta del valore della persona anche nelle fasi iniziali della sua vita: quella embrionale e quella fetale. Ma per tornare all’involuzione, il suo effetto forse principale è stata la legalizzazione e la statalizzazione anche della fecondazione artificiale…

D. Verissimo, però l’esito dei referendum sulla legge 40/2004 (“Norme in materia di procreazione medicalmente assistita”) ha evidenziato un’apprezzabile maturazione dei cittadini italiani anche dal punto di vista della capacità e volontà di scegliere con attenzione e responsabilità, laddove si venga chiamati a decidere su questioni, riguardanti la vita umana, che possono avere gravi ricadute sociali dal punto di vista morale, scientifico e anche educativo. Si aspettava questo risultato? e come lo valuta?

R. È quello che le stavo per dire, ma intanto le suggerisco di considerare come lo stesso nome della Legge 40 sia un’espressione di antilingua. La campagna referendaria, fortemente partiticizzata e ideologizzata, ha fornito, però, ai difensori dell’uomo – e anche qui (senza sminuire l’opera di altri) vorrei sottolineare sia la preparazione remota sia il contributo attuale, in termini culturali e filosofici, del Movimento per la vita – una preziosa occasione per una grande e finora mai vista campagna informativa sul “chi è” dell’uomo. L’esito dei referendum, superiore a qualsiasi mia aspettativa, anche se depurato delle astensioni fisiologiche, è un indice di un ripensamento dei cittadini sui temi della vita, della libertà e dell’autonomia e della personalità degli uomini anche in età embrionale. A proposito di Antilingua, invece di embrione, termine troppo generico e valido per qualsiasi essere vivente, chiamiamolo uomo in età embrionale, oppure bambino in grembo…

D. A suo parere questa maturazione può far sperare in una rinnovata e più attenta riflessione anche sul tema dell’aborto? recentemente il Mpv ha chiesto che, nella “Relazione annuale sull’interruzione di gravidanza” al Parlamento, il Ministro della Salute inserisca, a fianco del numero di bambini uccisi, anche il numero di quelli salvati grazie ai Centri di Aiuto alla Vita.

R. Sì, credo che sia proprio l’ora, questa, di porre con forza il tema di un’applicazione coscienziosa delle poche “parti buone” della legge di aborto: il coinvolgimento del padre, l’aiuto da dare alla madre per “superare le cause che la inducono all’aborto”, la collaborazione con le iniziative private in questo campo: insomma per far capire che lo Stato, anzi la società civile, se vuol meritare questo nome, deve sempre e comunque preferire la vita alla morte. Perché, come lei dice bene, la relazione del Ministro non potrebbe trasformarsi da una statistica di morti in un elenco che segnali anche i salvataggi, la solidarietà, la possibilità concreta di non abortire? Perché non prevedere, in questa direzione, anche un finanziamento pubblico ai Centri di Aiuto alla Vita e una collaborazione fattiva con i consultori pubblici e con gli ospedali? Perché non progettare studi comuni sulle cause dell’aborto e sulla sua prevenzione reale, cioè quando la gravidanza è già in atto?

D. Il Movimento per la Vita Italiano è sempre stato il principale protagonista della difesa della vita umana e il garante del richiamo alla sua sacralità e inviolabilità. Dal 1978 ad oggi, affiancato anche dall’amato pontefice Giovanni Paolo II e dalla forza dell’enciclica “Evangelium Vitae”, il Movimento non si è mai stancato di proporre iniziative in favore della vita. Può darci qualche breve indicazione delle principali opere, anche concrete e sul campo, del Mpv?

R. La struttura del Movimento italiano per la vita è una federazione di circa 250 Cav e Sav (Centri o Servizi di aiuto alla vita) e Case di accoglienza per gestanti in difficoltà e di circa 270 Movimenti locali. I primi sono il suo braccio operativo, i secondi costituiscono la sua forza culturale e politica. Il Movimento conta poi su un telefono verde SOS-Vita (numero 800.81.3000) che risponde 365 giorni su 365 e 24 ore su 24 ed è in collegamento con tutta la rete di Cav e Movimenti e, dunque, attrezzato per interventi in aiuto di chi è tentato o spinto ad abortire o incerto e indeciso; e sul Progetto Gemma: una forma di adozione a distanza temporanea (18 mesi: sei di gravidanza e dodici di vita del bambino) della mamme spinte all’aborto da difficoltà economiche. Consiste in un versamento di 160 Euro per 18 mesi o di una somma globale di 2880 in un’unica soluzione. Il progetto Gemma ha salvato finora circa diecimila bambini con le loro mamme. In tutto i CAV hanno salvato più di sessantamila bambini, spessissimo già “condannati” dal certificato di aborto nelle mani della madri, molte delle quali già sul lettino in camera operatoria.. Una cifra impressionante, ma purtroppo ben poca cosa di fronte ai quattro milioni di aborti legali compiuti come “servizio” dello Stato. Vorrei ricordare anche il concorso annuale per gli studenti delle scuole pubbliche e private per un lavoro sul tema della vita, cui ogni anno, da vent’anni, vi partecipano decine di migliaia di ragazzi: i più bravi (qualche centinaio ogni anno) hanno in premio un viaggio al Parlamento di Strasburgo.

D. Nel suo libro “Dateli a me. Madre Teresa e l’impegno per la vita” lei afferma che «una delle cause per cui la cultura della postmodernità è impregnata di egoismo, individualismo, morte è la crisi di una comunicazione autentica, vale a dire di una comunicazione che “comunichi vita”». Purtroppo, ancora oggi, molti docenti devono confrontarsi con testi scolastici di storia (anche di editori tradizionalmente noti per le edizioni scolastiche) in cui drammatiche realtà come l’aborto vengono presentate, senza alcun approfondimento critico, come una conquista positiva ottenuta in favore dell’affermazione della libertà individuale e della dignità femminile. Quale consiglio darebbe a questi insegnanti, che concretamente poi devono spiegare la realtà ai ragazzi?

R. Ammesso che io sia in grado di dare consigli, direi loro ciò che già sanno o dovrebbero sapere: che, cioè, uno dei loro compiti è quello di insegnare il senso critico e che un altro, ugualmente importante, è quello di essere capaci di una comunicazione autentica, cioè vitale, del sapere. La comunicazione ha per scopo la crescita dell’individuo e della comunità, alla cui base, se è vera comunità, c’è la comunione. Come si vede la radice di tutte queste parole è la stessa. Allora la prima comunicazione vitale è proprio quel “comunicare vita”, che mi sembra lo scopo principale della scuola. Guai se questa si riducesse, come certuni vorrebbero, a una comunicazione di morte.

[27 settembre 2005]