Replica a Roberto Poggi

Agape 2005, una controreplica al documento di R. Poggi in risposta all’intervento dei Maschi Selvatici.

a cura di Ermanno Ermini

Desidero aggiungere, all’intervento di Paolo Ferliga sulla paternità che vi abbiamo già inviato, alcune mie osservazioni che toccano piu’ in generale i temi da te sviluppati.

Abbiamo scelto, per una prima risposta, il tema “paternità” perché è centrale nella nostra riflessione sul maschile e sulla sua identità, e registro con piacere che anche tu hai sviluppato considerazioni che condividiamo largamente. Desidero sottolineare l’importanza di questa condivisione perché dalla convergenza su un tema così fondamentale possono nascere analisi che, per quanto divergenti, contengono sempre in sé la possibilità di confrontarsi e intersecarsi, vista la complessità della materia che implica un percorso non rettilineo.
Partirei proprio da qui, e dalla considerazione che l’identità , singola e collettiva, non è data una volta per tutte, per esprimere un dubbio, di natura generale, a proposito della tua affermazione che “l’umanità non è ancora arrivata al capolinea della sua evoluzione” . In questa frase è contenuto, mi sembra, il concetto di linearità della storia, che, pur con qualche “frattura”, tende naturalmente verso il “progresso”. Se per tale si intende quello scientifico e tecnologico, nulla da dire, ma quel progresso è davvero tale per l’umanità presa nel complesso di materia e spirito? Ho molti dubbi in proposito. Il più forte dei quali è che la tecnica, da un certo punto in poi, “rubi umanità”all’umanità, e fuori da ogni controllo, la deprivi di alcuni suoi tratti essenziali.
La questione della procreazione artificiale si presta bene ad esprimere ciò che intendo. Fino a ieri esisteva una cornice condivisa entro la quale si sviluppavano le contraddizioni , da quelle di genere a quelle di classe, fino a quelle fra popoli ed etnie. La cornice condivisa consisteva nel fatto che la vita poteva nascere solo attraverso l’incontro di due corpi , era sottoposta alla casualità, e una generazione non aveva la possibilità di opzionare , a questo livello, il futuro di quella successiva, tanto come singoli che come collettività. Ora, grazie alle tecniche di fecondazione artificiale, non è più così; la mutazione è profondissima e mette in discussione lo statuto antropologico dell’umanità. La tecnica e la scienza, però, non sono neutre, ed il loro sviluppo non può essere considerato un dato ineluttabile, alla stregua di un fenomeno naturale come il terremoto. Scienza e tecnica hanno molto a che fare col potere, colle sue scelte, e coi riverberi di esse nella vita e nella coscienze individuali. Parlare di tali tecniche esclusivamente come possibilità libera scelta lasciata alla coscienza soggettiva, significa in realtà espellere dalla discussione ciò che sta “ a monte”, si diceva una volta, ossia proprio quelle scelte di e del potere. Si pone qui la questione del limite, che non può non coinvolgere tutta la collettività, femmine e maschi, ben oltre il controllo del proprio corpo da parte delle donne, e il tema della vita non può essere appannaggio di un solo genere in quanto coinvolge profondamente anche l’altro. Paura del potere generativo femminile? Anche, nel momento in cui tale potere diventa autoreferenziale, ma non è questo il punto principale.
Sono convinto che difendendo l’esistenza del limite, la necessità di un “patto” (non mi viene altro termine in questo momento) antropologico, si difende non solo il maschile e l’integrità psichica delle generazioni future, ma anche il femminile, ora vincente nel rivendicare l’esercizio esclusivo del potere sulla vita, ma del quale sarà tra breve espropriato, e proprio da quella tecnica che sembra essere il suo strumento privilegiato. Se già ora è possibile fare a meno del maschio per creare esseri umani, fra poco, con l’utero artificiale ed altre tecniche allo studio, sarà possibile fare a meno anche della femmina e del suo corpo. A parte che nessun diritto individuale può prevaricare, senza diventare arbitrio, il diritto del bambino a non essere programmato, a conoscere le proprie origini ed avere un padre e una madre, il punto è che la “riproduzione artificiale della vita” prima ancora di una tecnica è uno spazio filosofico e antropologico, e ciò che è in giuoco è l’identità del genere umano.
Parlando di identità e cambiamento, mi viene da fare un’altra obbiezione a proposito del patriarcato, che, scrivi, durerebbe da 7/8000 anni, ossia da prima che l’umanità abbia avuto coscienza autonoma di sé e della propria storia. Fosse così, la prima cosa che verrebbe da dire è che allora il patriarcato rappresenterebbe non solo uno stadio “necessario” della “evoluzione” del genere umano, ma il modo “naturale” con cui esso si è organizzato in comunità e lo spazio psichico, altrettanto naturale, dentro il quale l’umanità ha sviluppato la coscienza di sé. Ne discende, come corollario, il non senso e l’inanità di valutazioni che contengono giudizi morali di condanna, come quello della natura oppressiva verso le donne. Le cose sono più complicate, a partire proprio dalla difficoltà di dare una definizione precisa di patriarcato (dice nulla il fatto che proprio nel secolo scorso, nel momento del tramonto, ci siano state stragi e genocidi come mai prima, nel tempo del suo fulgore?), dalla distinzione fra piano sociologico e piano psichico, per finire al significato che si attribuisce al concetto di differenza e dunque di identità, etnica, culturale e di genere, ed a quello correlato di parità fra uomini e donne.
Sono convinto, e credo lo sia anche tu, che differenza equivale a ricchezza, apertura, potenzialità, e che il nostro impegno deve tendere verso la salvaguardia delle diversità, ovunque si trovino. Già qui, ed occorre allargare un attimo la vista oltre il rapporto femminile/maschile, ci troviamo di fronte a grossi problemi, perché il mondo va verso l’omologazione.
Non già questa globalizzazione, ma la globalizzazzione in quanto tale, marcia in questa direzione, perché tende ad annullare le differenze fra culture, storie, tradizioni diverse. Il crescente squilibrio economico, che tu giustamente lamenti, nasce in primo luogo dal fatto che intere società “tradizionali”e le loro limitate economie di sopravvivenza, sono state inserite in un unico circuito mondiale senza che fossero a ciò attrezzate.
Il risultato è che, mentre quelle antiche culture vengono distrutte (S. Latouche usa il termine “deculturazione”) , la dignitosa “povertà” di quei popoli, che tuttavia assicurava loro il sostentamento, è precipitata in miseria stracciona. Occorre in primo luogo, però, sforzarci di capire che, quando applichiamo a quei popoli i nostri concetti di economia, di ricchezza e povertà, stiamo già usando i nostri standard concettuali, ossia stiamo già facendo un’operazione di omologazione culturale, essendo molto diverso il loro modo di intendere le stesse parole.
Ed occorre anche capire che lo squilibrio economico non è un portato ineluttabile della globalizzazione. Possiamo benissimo immaginarci una globalizzazione “buona”, per alcuni gestita democraticamente o per altri applicata in modo integrale, che faccia avvicinare al nostro, il livello dei consumi nei paesi poveri. La riduzione degli squilibri, obbiettivo perseguito tanto dagli organismi internazionali quanto dai movimenti così detti “new global”, sarebbe certo una buona cosa, ma vedere la questione solo dal punto di vista dell’economia, comporterà comunque, ancor più di ora, la sparizione di intere culture e la loro sussunzione sotto la nostra, in termini economici, politici, di costume. Ovvero, il mondo come un immenso mercato, unificato sotto gli stessi segni e le stesse merci. Con tanti saluti alla diversità ed al suo valore.

Lo stesso schema di ragionamento può essere proficuamente applicato al rapporto fra i generi ed alla dialettica fra diversità / uguaglianza/ parità.
Alterità di genere non può significare altro che, nell’ovvio ambito di una comune umanità, le identità maschili e femminili divergono.
E’ del tutto vero, come scrivi, che il maschio non è solo fallo (è la femmina non è solo vagina), ma unità di corpo e spirito, e tuttavia l’unità di corpo e spirito di cui sono fatti maschi e femmine non produce gli stessi “risultati”, se ha senso parlare di alterità. Ora, la prima implicazione di questo ragionamento è che il riconoscimento dell’alterità deve essere reciproco e non unilaterale, come affermi in un tuo passaggio nel quale sembri dare per scontata una persistente volontà maschile di ridurre il femminile a sua immagine e somiglianza. Credo che la realtà sia piu’ complessa e contraddittoria, sul piano del presente, dove si potrebbero portare anche innumerevoli esempi al contrario, ma soprattutto su quello storico.
C’è una ragione precisa di questa realtà contraddittoria. Come già accennato in altro nostro documento, a me convince molto l’analisi che della questione fa Ivan Illich, allorché evidenzia che mentre in passato maschile e femminile si rapportavano a partire da spazi psichici e fisici diversi e ben individuati, che a loro volta davano luogo a competenze e ambiti lavorativi specifici di genere, quando il lavoro è diventato concetto (e pratica) “neutro”, ossia praticabile indifferentemente da uomini e donne, allora e solo allora la competizione fra i generi è esplosa, e con essa il tentativo di ridurre a sé l’altro. Le implicazioni di questa analisi sono molte. Introduce un punto di frattura fondamentale nella storia del rapporto fra i generi, individuato nell’avvento della moderna società industriale, e da con ciò al concetto di patriarcato un significato diverso da quello corrente. In breve, con la neutralizzazione del lavoro, la donna, gettata nella competizione con gli uomini, avrebbe perduto quelle prerogative di genere, che pur in modo asimmetrico, aveva nelle società patriarcali classiche. Ne consegue che, quale che sia l’evoluzione dei rapporti di potere (se il lavoro è diventato neutro è possibile pensare una prevalenza sociale femminile), ciò che è destinata a sparire è la differenza, in favore di figure unisex omologate. E’ precisamente questo il concetto corrente di “parità”, dove i generi diventano intercambiabili fino a sparire. Ed è precisamente questo il motivo, tutto ideologico, per il quale si fanno leggi che tendono ad imporre l’uguaglianza numerica in ogni spazio della vita, dalla rappresentanza parlamentare fino ai consigli di amministrazione delle aziende private, come accade in Norvegia. L’ideologia (del pensiero unico), risiede nel supporre che uomini e donne siano uguali, e che quindi debbano necessariamente avere gusti, stili di vita, passioni e interessi simili. Diventa allora ovvio che qualunque asimmetricità è sinonimo di discriminazione sessista , da eliminare anche con forzature legislative.
Ma, come nel caso della globalizzazione, che fine fa l’alterità? E cosa può allora significare il concetto di parità?
Secondo me una sola cosa. E cioè che, a differenza del passato, non devono esistere barriere di legge a causa delle quali un individuo si veda precluso l’accesso a una qualsiasi professione per il solo fatto di appartenere ad un genere piuttosto che all’altro. In questo senso la parità, in occidente, è stata già raggiunta e se statisticamente uomini e donne continuano ad orientarsi in modo diverso quanto a stili di vita, lavoro, interessi, ciò, anziché destare allarme o scandalo, dovrebbe essere considerato come la normale espressione della diversità di genere.
Lasciando perdere la locuzione “Democrazia sessuale” ( il sesso non può essere proceduralizzato e messo ai voti), il riferimento alle “vecchie identità” non significa altro che il recupero, per maschi e femmine, della coscienza della diversità , ossia proprio di ciò che la modernità vuole eliminare, ribadendo ancora una volta che nessuno vuole riesumare leggi discriminatorie.

In particolare, per i maschi (per i motivi che anche tu evidenzi), l’identità si acquisisce tramite altre figure maschili , il padre in primo luogo, ed anche attraverso i riti d’iniziazione, arcaici e inattuali solo se volessimo oggi riproporli nelle forme antiche, ma attualissimi in quanto a senso e significato. Recupero d’identità significa allora riallacciarsi, in forme attuali, alle esperienza antiche di paternità. Tu stesso lo fai balenare quando scrivi che “nell’arco di questi ultimi secoli troppi padri hanno dovuto o scelto di cominciare a far mancare la presenza prima, e quindi valori, regole, affetto….” E’ appunto, anche in questo caso, il “progresso” della modernità che ha prodotto questa separazione del padre dal figlio, che deve essere recuperata e colmata. In un certo senso, dobbiamo ammetterlo senza reticenza, si tratta di un’operazione “reazionaria”, nel senso letterale del termine. L’alternativa è quella di proseguire sulla strada attuale, con la certezza però che la diversità dei generi e delle culture è destinata a sparire, e con esse la necessità del suo riconoscimento.

[08 agosto 2005]