Lettera aperta dei Maschiselvatici a Uomini in cammino
Ho letto con attenzione le relazioni riassuntive del convegno 2000 pubblicate sul vostro sito, e ho notato che molti argomenti da voi discussi sono in comune coi nostri. Dal tema del rapporto col potere a quello della differenza sessuale, passando per la riflessione sull’assenza paterna, sul rapporto col proprio corpo e sui suoi significati, sulla difficoltà maschile a raccontarsi (e quindi il tema del linguaggio), per finire con la condanna alla “performance” che sembra essere il destino maschile.
Che i maschi parlino di sé fra di sé, anziché lasciare che siano le donne a raccontarci, va salutato come un fatto comunque positivo, premessa indispensabile per andare oltre la “crisi del maschile”.
E’ con lo scopo di offrire alcuni spunti di discussione che scrivo questa lettera aperta a nome del movimento maschile Maschiselvatici, nella quale troverete, insieme ad alcune convergenze, soprattutto molti e fondamentali punti di dissenso.
Entrando nel merito, trovo, prima ancora di scendere nei particolari, che il vostro argomentare sia sotteso da un ipertrofico senso di colpa di genere. A poco vale la distinzione fra colpa e responsabilità, se il risultato è quello di considerare la storia dell’umanità come storia dell’oppressione maschile, del suo potere, dei suoi privilegi e dei suoi “orrori”. Da una parte il genere maschile violento, aggressivo, quindi colpevole, dall’altra il genere femminile oppresso, quindi innocente. E’ una lettura interamente mutuata da un filone del pensiero femminista, singolarmente somigliante a quella che fino a qualche anno fa ci faceva riporre nel proletariato, mitizzato a classe universale, ogni speranza di palingenesi sociale, che oggi sembra affidata invece nelle mani delle donne. Si tratta, e storia e cronaca sono lì a dimostrarlo, di una semplificazione fuorviante: sul piano di verità perché bene e male, innocenza e colpa, fanno parte integrante del corredo soggettivo di ogni persona, e quindi tanto del genere maschile quanto del femminile; sul piano storico perché la sostanziale “reductio ad unicum” delle contraddizioni di cui la storia è intessuta, impedisce di vederne le effettive articolazioni, e la fanno apparire, nella sostanza, come una eterna ripetizione di se stessa, una infinita variazione di un unico tema.
Soprattutto, però, occultando il positivo del maschile, della sua storia e della sua azione trasformatrice del e nel mondo, si rende impossibile l’obbiettivo che voi stessi vi ponete.
Su che basi, infatti, si può ridefinire il maschile se nulla o quasi della sua storia è da salvare (esiste solo un accenno al merito di aver costruito una società democratica), se il suo contributo alla storia dell’umanità è definito solo in termini negativi? Esiste una sola risposta. Su queste basi il maschile può ridefinire se stesso solo negandosi come genere. Non è un caso che parliate di “reinventare” l’identità e di nuovi modelli di identificazione da “inventare ex-novo”. Ma le identità non si inventano, e non nascono dal nulla. Se nel nostro passato e nel nostro presente non c’è niente a cui attingere, giocoforza ci si rivolge ad altri modelli, quelli femminili, presi a parametro. Il maschile ne diventa allora una variante e perde la sua intrinseca specificità.
Ricorre spesso, nelle vostre riflessioni, il tema dello sguardo e del giudizio femminile, da un lato temuto, dall’altro sollecitato come aiuto/controllo sul percorso di cambiamento. Sarebbe come se il femminismo, ai suoi inizi, anziché ricercare nella propria storia di genere i motivi ed i fondamenti della propria specificità, si fosse rivolto agli uomini per chiedere approvazione e/o correzione.
Le donne però, anche se sentono la gratificazione narcisista, capiscono che in questo modo non può esserci autenticità, e finiscono per “sospettare”. In realtà, anche se loro stesse sono lontane da una salda identità di genere (scontando in questo la confusione della modernità), intuiscono che per costruire nuovi rapporti hanno la stessa necessità degli uomini di relazionarsi con una alterità reale, che abbia saputo definirsi autonomamente. Trovo che questa necessità, sia pure esplicitata nelle vostre riflessioni, sia poi contraddetta nei presupposti di partenza. Non è che quello che scrivete sulla negatività del maschile odierno sia completamente falso. Ma: a) Non esprime affatto il maschile in sé, ma solo una sua variante storica. b) E’ comunque, anche nelle condizioni odierne, solo un aspetto della maschilità. c) Nella riflessione complessiva sullo stato del rapporto fra i sessi, esistono molti miti, comunemente accettati e presentati dai media come ovvii, da sfatare. In primo luogo quello della divisione manichea e a-storica fra un maschile in sé negativo ed un femminile in sé positivo. Non perché la chiamata in correo diventi un elemento consolatorio o assolutorio, ma perché ogni vero tentativo di stabilire nuovi e fecondi rapporti fra i generi deve fondarsi sulla verità, pena il ripetersi, in forme invertite e simmetriche, dello squilibrio di cui ci si lamenta.
MASCHI E POTER
Trovo singolare che un gruppo di uomini che ambisce a fare autocoscienza, parlando dei rapporti di potere faccia riferimento soltanto al potere pubblico, politico e sociale. Che esiste, che in genere è sempre stato maschile, ma che non è il solo esistente. Scrive Elisabeth Badinter (La strada degli errori, Milano 2004) che le donne godono ormai del potere assoluto in campo riproduttivo, e di un notevole potere morale, ossia di definire per tutti ciò che è bene e ciò che è male. Non occorre concordare in tutto con le sue tesi, per riconoscere che su questo la B. ha ragione. Il maschio/ padre, in primo luogo con la legge 194, e poi con la consuetudine giudiziaria di affidare alla madre i figli in caso di separazione o divorzio, è stato praticamente estromesso da qualsiasi potere decisionale in relazione alla propria discendenza. D’altra parte è altrettanto chiaro che tutta una serie di provvedimenti legislativi vengono adottati in base al presupposto che la donna, sempre e comunque, è la vittima bisognosa di speciale protezione. Dalle quote, alle azioni positive, alle definizione di molestia sessuale. Insomma, come la storia insegna, si può benissimo governare per interposta persona. Su tutto ciò tornerò fra poco.
Intanto però è legittimo chiedersi se davvero il potere maschile, economico e finanziario, sia più importante, per la vita reale delle persone comuni, del potere riproduttivo e morale femminile, il quale contrassegna in definitiva il potere su se stessi.
Sono convinto che, pur di riacquistare potere su se stessi, i maschi dovrebbero rinunciare a parte del proprio potere pubblico. Vi chiedo però: quanta parte del mondo femminile è disposta a riconoscere che esiste anche un’asimmetria a proprio favore e rinunciarvi?
Il tema del potere richiama immediatamente quello del Patriarcato, su cui insistete particolarmente.
IL PATRIARCATO
Un autore che non dovrebbe esservi estraneo, e che non può essere tacciato di maschilismo, Ivan Illich, afferma in Genere e sesso (Milano 1982), che il Patriarcato è contrassegnato da “uno squilibrio di poteri nell’ambito di una complementarietà asimmetrica dei generi”. Esistevano dunque, in tutte le società tradizionali, dei saperi e dei domini riservati al genere maschile ed a quello femminile, socialmente accettati e su cui l’altro genere non aveva possibilità di interferire. Ciò che era maschile o femminile poteva variare da società a società, anche se fondamentalmente ricalcava il modello del lavoro domestico femminile e di quello esterno maschile, della supremazia femminile nella casa e di quella maschile nel governo della cosa pubblica. C’era in questo una evidente asimmetria. Ciò che è importante, sottolinea però Illich, è che un genere non poteva fare a meno dell’altro, ed entrambi cooperavano in modo complementare, al mantenimento della famiglia.
Il grande cambiamento è avvenuto con l’avvento della società industriale, laddove il lavoro non più connotato sessualmente, è diventato “neutro”, e l’individuo con esso.
“Una società industriale non può esistere se non impone certi presupposti unisex: il presupposto che entrambi i sessi siano fatti per lo stesso lavoro, percepiscano la stessa realtà e abbiano, a parte qualche trascurabile variante esteriore, gli stessi bisogni. Ed anche il presupposto della scarsità, fondamentale in economia, è logicamente basato su questo postulato unisex. Sarebbe impossibile una concorrenza per il lavoro fra uomini e donne, se del lavoro non fosse stata data la nuova definizione di attività che si confà a tutti gli umani, indipendentemente dal loro sesso. Il soggetto su cui si basa la teoria economica è proprio questo essere umano neutro.”
Il Patriarcato, per Illich, finisce dunque con l’avvento dell’Homo aeconomicus, per essere sostituito da una discriminazione pratica delle donne, da lui definita come sessismo.
Quello che è da sottolineare è che la società industriale, se da un lato annulla le diversità di genere in favore di un modello neutro, per lo stesso motivo apre alla possibilità che il fenomeno sessista cambi di segno, come si sta intravedendo con sempre maggiore chiarezza.
La fine del Patriarcato coincide con lo smantellamento dell’identità di genere. In questo senso crea più problemi di quanti ne risolve. Le teorie del “gender” come puro costrutto culturale, del tutto sganciato dall’appartenenza sessuale, stanno rivelandosi fonte di patologie personali e sociali, funzionali soltanto all’accrescimento della produttività capitalistica, in un quadro ideologico che conosce solo il concetto di “utilità”. Il femminismo della differenza era partito da questa fondamentale intuizione, ma si è perduto nel declinare la specificità femminile come superiorità morale, dibattendosi poi nel mai risolto dilemma uguaglianza/differenza, o meglio usando ora l’uno ora l’altro concetto secondo convenienza. A parte questo, rimane il fatto che la specificità di un genere implica la specificità dell’altro; se riuscissimo a recuperare fino in fondo il concetto di complementarietà, avremmo fatto un gran servizio agli uomini ed alle donne. “Il maschile- scriveva Jung – tende alla perfezione, il femminile alla completezza. Ma la perfezione non è mai completa, e la completezza non è mai perfetta” (Risposta a Giobbe, Il Saggiatore)
Per arrivare a ciò occorre però che sia abbandonato il sentimento di superiorità morale femminile e lo sterile senso di colpa maschile.
Anche perché almeno un merito dovrebbe essere riconosciuto all’odiato Patriarcato. Quello di avere esentato le donne dal confronto col male. Se è vero che erano tenute in posizione socialmente subordinata, è anche vero che il lavoro “sporco” se lo era assunto per intero il genere maschile, mentre quello femminile poteva coltivare una certa delicatezza dei sentimenti, chiamandosi fuori dalle “brutture” maschili; un tempo, almeno questo merito ci era riconosciuto. Intendiamoci, è vero anche che sono stati i maschi stessi a coltivare questa illusione soprattutto negli ultimi secoli, forse per il bisogno di pensare un’oasi di pace e di serenità, ma ciò non cambia la verità del fatto.
Questo lungo periodo storico è finito, ma i miti e le illusioni che l’hanno accompagnato stentano ad essere riconosciuti come tali sia dagli uomini che dalle donne, nonostante la realtà sia sotto gli occhi di tutti.
Occorre infatti non voler vedere che, dopo le kapò dei campi di sterminio nazisti, i massacri in Ruanda alla cui testa c’era una donna, le torture ad Abu Ghraib e Guantanamo, le kamikaze omicide e così via, il mito dell’innocenza femminile non ha più motivo di esistere. Ed occorre anche un grande disprezzo di sé (che voi chiamate la “dissidenza dal maschile”), per non vedere che i maschi guerrieri ed oppressori, erano (e tutt’ora sono), gli stessi che hanno dato la vita per un’idea, o per proteggere le donne ed i bambini, insomma che sono morti silenziosamente a milioni non certo per arricchirsi personalmente o per sete di potere.
LA VIOLENZA DOMESTICA
I miti, dicevo, sono duri a morire. Uno di questi, propagandato a gran voce dai media, è che la violenza in ambito domestico sia esclusivamente maschile, connotata dal rapporto di potere che il maschio “padrone” instaura in famiglia. Intanto occorre osservare che violenza non è solo quella fisica, e sarebbe arduo affermare che anche quella psicologica sia appannaggio esclusivo del maschio. Ma più in particolare cominciano a circolare dati statistici, anche provenienti da fonti ufficiali, che dimostrano: a) Che i bambini sono oggetto di violenze più da parte materna che paterna. b) Che esiste anche una violenza fisica al femminile nei confronti del partner maschio, ed in misura sorprendente. Varrebbe la pena, su questo, rivolgersi a testi scritti da donne, come, per esempio, “The emotional terrorist & the violence-prone di Erin Pizzey”, o anche l’articolo di Melanie Philips, apparso sul Sunday Times del 34/10/1999
D’altra parte il fenomeno del bullismo femminile è in rapida espansione, così come i reati commessi da donne. E’ davvero arduo sostenere che quanto sopra deriva dall’assunzione indotta dei deprecati modelli virili, riproponendo lo schema ideologico che il male è sempre, in ultima analisi, di derivazione maschile; anche perché, così facendo, si continua a pensare la donna come incapace di scelte autonome e di assunzione diretta di responsabilità, personale e sociale.
Non c’è nulla di cui gioire in tutto ciò, c’è solo da prendere atto di una realtà impensabile.
…E QUELLA SESSUALE
Ormai, sotto la spinta del potere morale femminile, il concetto di violenza e molestia sessuale si è dilatato perdendo ogni confine ed ogni possibilità di definirlo in maniera oggettiva, come richiede lo stato di diritto. Per sanzionarlo è sufficiente la sensazione della “vittima”. In questo modo si ottengono due risultati. Si inverte l’onere della prova, per cui compete all’accusato l’onere di dimostrare la sua innocenza, cosa evidentemente quasi impossibile, e si criminalizza in pratica l’intero genere maschile. Girano statistiche folli, di cui non si conosce mai la fonte ed il metodo d’indagine, secondo le quali , ad esempio in Francia, il 12% delle donne avrebbero subito uno stupro, e dal 40 al 50% un approccio sessuale indesiderato, come se si potesse sapere in anticipo quando un approccio è gradito (E. Badinter, op. cit.). Il risultato non può essere che una perdita di naturalità nella relazione, fino alla codificazione burocratica delle procedure d’approccio instaurata in alcune Università statunitensi, che tuttavia non vale a scongiurare il pericolo di essere accusati di molestia se non in presenza di autorizzazioni scritte a passare alla “fase successiva”. Credo che nessuna donna sana di mente e di corpo, si dichiarerebbe d’accordo con simili deliri burocratici, che finiscono per ritorcesi anche contro le stesse donne, che non per caso si lamentano da tempo di maschi paurosi ed incerti. Sposare acriticamente la tesi del “maschio stupratore” ha gravi ripercussione sulla psiche dei giovani e sulla loro autostima, soprattutto se proviene da altri uomini.
Il che ci porta direttamente alla questione della sessualità maschile e femminile.
Occorre riconoscere, scrivete, il desiderio femminile. Perfettamente d’accordo. Perché allora non riconoscere anche il desiderio maschile e parlare di “sguardo sporco”? Così dicendo mostrate di ritenere che il desiderio femminile, la sessualità femminile, è moralmente più elevata di quella maschile. Ma, a parte il fatto che la scissione fra sesso e amore è vissuta da tante donne come una conquista di libertà, qui entrano in giuoco le diversità biologiche fra maschi e femmine, da cui non si può prescindere. L’apparato sessuale maschile è esterno e più circoscritto di quello femminile, interno e più diffuso in ogni parte del corpo, quasi ad evocare anche a livello corporeo la diversa valenza psichica che maschi e femmine attribuiscono all’atto sessuale, il che spiega anche il fenomeno del sesso a pagamento. La penetrazione, inoltre, per potersi realizzare, presuppone una certa aggressività sessuale (che non vuol dire violenza) da parte del maschio, ed una predisposizione alla ricettività da parte della femmina. Dunque, o il coito è stupro in sé, come sostengono alcune frange del femminismo (che non valutano però le conseguenze di questa affermazione), oppure non ha senso attribuire giudizi morali alle differenze biologiche, che fondano anche le differenze psichiche, al di là delle pur esistenti influenze culturali.
Disconoscere questa realtà porta a diagnosi, e quindi a prognosi, fuorvianti e forzate.
LA CRISI DEL MASCHIO
Se mi sono soffermato sui punti precedenti non è per fare a tutti i costi l’apologia del maschio, né per negarne la crisi , ma per chiarire che solo in se stesso e nella propria storia può ri-trovare identità, modelli e motivazioni. E come le donne non vogliono essere definite dallo sguardo e dalle aspettative maschili, è altrettanto giusto che gli uomini non debbano essere definiti dallo sguardo e dalle aspettative femminili.
C’è una vostra affermazione, su cui concordo a da cui vorrei partire. Pesa, sul maschio, “l’obbligo” di dover essere sempre massimamente performativo. O è un vincente o non è. Né per la società, né, e’ importante sottolinearlo, agli occhi delle donne, nonostante decenni di chiacchere femministe. L’identità dell'uomo, il suo valore, sembrano dipendere dalle prestazioni che è in grado di ottenere sul lavoro, nello sport o a letto, in termini di denaro, records o frequenza e durata del coito.
Se efficienza e risultato sono da sempre costanti del maschile, praticamente in ogni luogo, oggi non sembrano più bastare a definire l’identità del genere, e l’uomo oscilla fra due false scelte: il machismo esasperato o il maschio soft, dolce e gentile, che per rifiutare l’altro modello rifiuta anche la sua virilità, rimodellandosi su quella che a lui sembra, erroneamente, essere l’aspettativa della donna moderna che l’ha messo sotto accusa.
Secondo l’antropologo David Gilmore (La genesi del maschile, modelli culturali della virilità, Firenze 1993), la necessità maschile di prestazione, e esibizione di essa, comune in tutte le epoche e in quasi tutti i popoli, a prescindere dalla loro maggiore o minore propensione all’aggressività ed alla guerra, è il combinato di due fattori. Da una parte un costante timore/attrazione inconsci per la sempre possibile regressione verso la originaria simbiosi con la madre; la simbiosi, se nella fantasia inconscia ripristinerebbe quello stato di beatitudine, dall’altro annienterebbe l’identità indipendente ed adulta del maschio. Da qui la necessità di provare continuamente a sé stessi ed agli altri la propria virilità.
Dall’altra parte però, l’insistenza sui canoni virili (il guerriero, il cacciatore, il sostentatore, il procreatore), risponde ad una vera e propria esigenza sociale, in quanto un genere maschile regressivo costituirebbe una seria minaccia per l’esistenza stessa della società. Così i “doveri maschili” si trasformano direttamente in servizio alla comunità, anche a scapito, come nel caso del lavoro spesso duro e di scarso prestigio, della soddisfazione individuale.
“Le esibizioni istrioniche, scrive, non devono farci scordare la struttura profonda che è costituita da una virilità sotto pressione per la realizzazione di finalità collettive: istituire e proteggere confini sociali”.
E’ molto significativo che nelle società tradizionali, da quelle tribali alle civiltà più sviluppate sul piano culturale, che alle attività maschili il cui adempimento con successo procuri vantaggi personali, sia sempre abbinata una forte aspettativa di liberalità e di dono alla comunità, così che risalta immediatamente la funzione sociale della competizione maschile per eccellere.
Altrettanto importante è notare che, a differenza di quanto generalmente accade per il mondo femminile, il costo personale del “fallimento” è molto pesante per il maschio, in termini di ludibrio sociale che spesso concerne non l’accusa di devianza, immoralità, o soltanto generica incapacità, quanto piuttosto quella di “immaturità”, di regressione ad uno stato infantile di dipendenza e incapacità di dare agli altri (la comunità, le donne, i bambini), quanto attiene allo status virile. Il fallimento individuale viene spostato immediatamente alle conseguenze sul piano comunitario, a differenza, mi sembra, di quanto accade oggi. Il concetto di utilità sociale è così forte, dice Gilmore, che il canone virile classico prevede la “sacrificabilità” della vita maschile. E’ davvero difficile leggere l’assunzione consapevole del sacrificio estremo come sintomo di prepotenza.
A mio parere c’è un nucleo importante di verità negli studi dell’antropologo statunitense, che intanto invalidano in modo definitivo la tesi dell’oppressione di genere come leit motiv della storia umana.
Rimane però da capire, rispetto a quelle qualità che un tempo assicuravano al maschio un prestigio individuale e sociale indiscusso, il perché oggi sono viste in modo ambivalente. Se le aspettative, maschili e femminili, verso l’uomo rimangono pressochè inalterate, contemporaneamente vengono viste anche come problema sociale e strumento di oppressione/usurpazione indebita di potere rispetto al genere femminile. Per la prima volta viene messo in discussione non quello o l’altro eccesso, ma il concetto stesso di maschilità, visto spesso come un disvalore. Durante la guerra del Vietnam, ad esempio, i reduci, che lo Stato aveva istruito ad uccidere, erano accolti in patria come colpevoli, emarginati e lasciati languire, sommersi dal male che avevano vissuto, senza che la comunità muovesse un dito. Ma c’è ancora altro, oltre all’ambivalenza di cui parlavo.
In Vietnam vennero spesso meno i concetti di onore, di riconoscimento dell’umanità comune del nemico, e del rispetto dei civili, un accumulo di energia e aggressività maschili sfociate in pura distruttività, come sempre più nelle guerre moderne. Questa trasformazione coincide significativamente con la crescente assunzione da parte dello Stato delle funzioni pedagogico/educative, a scapito della famiglia e segnatamente del padre. Con esito disastroso, e non poteva essere altrimenti. “L’utilizzazione e l’addestramento dell’aggressività è una attività che riguarda lo sviluppo spirituale”, scrive Risè in “Il Padre l’assente inaccettabile”, e lo Stato non è in grado di farlo, men che meno il moderno Stato laico. Non è la legge, infatti, la fonte della norma morale.
Ecco, credo che la crisi d’identità del maschile, ma anche del femminile che solo in apparenza è messo meglio, sia da mettere in relazione con lo smarrimento della nozione di paternità, che a sua volta rimanda al fenomeno della secolarizzazione, oggi nella sua fase matura, che separando per la prima volta esperienza sociale ed esperienza religiosa, ridotta a fatto individuale ed intimistico, ha modificato nel profondo non solo il concetto di Politico e di Potere, ma anche quello di famiglia e di paternità.
La paternità è un insieme complesso di funzioni simboliche e pratiche che facevano del maschio/padre (non necessariamente in senso biologico), il ponte attraverso il quale il figlio passava dal mondo infantile dell’accudimento e della soddisfazione del bisogno materiale, cui presiede la madre, al mondo adulto della comunità, dello spirito, della libertà e della responsabilità. Questa funzione paterna è importante anche per la figlia femmina, come scrive la psicoterapeuta Laura Girelli: “E’ lo sguardo del padre, insieme amoroso, desiderante e fiero che getta le basi e fa crescere il progetto personale, creativo e autonomo della figlia come persona”. Per il figlio maschio, tuttavia, è ancora più essenziale in quanto ne costituisce la stessa identità di genere. L’identità maschile adulta non è innata nell’uomo, deve essere appresa/insegnata attraverso una serie di prove dolorose, la prima delle quali è il distacco dallo stato fusionale con la madre, compito primario ed essenziale del padre. E’ importante notare che questo processo “personale”, che si ripete o dovrebbe ripetersi di generazione in generazione, trova una corrispondenza a livello più ampio nel processo attraverso il quale l’umanità si è fatta “adulta”, ha acquisito cioè coscienza di sé, distaccandosi progressivamente dalla fusionalità col mondo esterno, tanto che Erich Neumann parla di “maschilità della coscienza” (in senso simbolico). Le società tradizionali non conoscevano Freud e Jung, la psicanalisi ed i suoi concetti complessi, e tuttavia simboleggiavano il processo attraverso i riti iniziatici. Uno di questi, particolarmente significativo, è spesso citato da C. Risè nei suoi lavori. La cerimonia si svolge in Australia, nella tribù dei Kurnai. Il gruppo degli uomini si avvicina al gruppo delle donne sedute che stringono in braccio i bambini, e , dopo una resistenza rituale, li strappano dalle madri e li alzano verso il cielo, per consacrarli a Dio. In termini psicologici significa “togliere i nuovi individui dalla dimensione orizzontale” della materia e del bisogno, per metterli nella dimensione verticale, della comunicazione col divino e col Padre celeste”.
Il rito iniziatico della separazione è, dunque un rito di ri-nascita del giovane maschio , alla vita dello Spirito e di Dio ed insieme alla vita psichica adulta, autonoma, ed alla relazione colla società e col mondo. .
Il rimando al Sacro, al suo ordine simbolico che costituisce la comunità degli uomini in terra, è stato una costante in tutti i popoli, ma nel Cristianesimo assume un particolare significato, laddove il Creatore è conosciuto dagli uomini in quanto Padre e Figlio del Padre. Il ruolo del maschio/padre nella società e nella famiglia era sentito e vissuto come il riflesso in terra dell’ordine voluto dal creatore, al di là degli eccessi e degli errori, fatali derivati dell’imperfezione umana.
La secolarizzazione, che ha il suo punto di svolta nelle dottrine di Lutero, ma per la cui storia rimando al lavoro di Dieter Lentzen “Alla ricerca del padre”, colloca tutto quanto concerne famiglia e matrimonio nel “regno del mondo” e della materialità.
E’ allora fatale che la figura e le attribuzioni paterne, aventi senso e significato solo in una prospettiva di vita oltre la corsa alla soddisfazione dei bisogni materiali, si sbiadiscano fino a scomparire. Ed in effetti alla coscienza razionale e materialistica l’autorità paterna tradizionale, dalla castrazione freudiana, alla ferita del distacco dalla simbiosi materna che insegna il valore della rinuncia e della perdita, all’imposizione della norma, sgradita ma necessaria, appaiono soltanto come manifestazioni di autoritarismo ingiustificato ed arbitrario. Inoltre non c’è più alcun motivo per cui il ruolo di educatore/correttore sia affidato al padre. A lui restano le funzioni di procacciatore di denaro e benessere materiale, spinto anche dalle crescenti esigenze produttivistiche della società borghese, e per di più ormai lontano dalla casa familiare. Le funzioni educative diventano appannaggio prima della madre, poi delle istituzioni statali, nei cui ruoli prevale peraltro, ed anche questo è significativo, il personale femminile.
Poiché però, come prima detto, sulla funzione iniziatrice del padre si fonda anche l’acquisizione dell’identità di genere, soprattutto maschile, è questa che ne risente in modo pesantissimo.
Da qui la sua crisi attuale, da qui il suo oscillare fra un esasperato machismo, ormai di maniera in quanto non più ancorato a specifiche esigenze sociali, e il maldestro tentativo di ridefinirsi secondo schemi non propri, manifestazioni entrambe di una “dipendenza” psichica pericolosa.
L’ossessione per la prestazione maschera la paura, o la certezza inconscia, di non possedere una vera identità, ma è solo l’altra faccia della rinuncia esplicita ad essa, propria del maschio “dolce”.
Sono convinto che la ridefinizione dell’identità maschile debba passare dalla ridefinizione dell’identità paterna, che è altro dal cercare di assomigliare alla madre.
Lo sforzo degli uomini e dei movimenti maschili dovrebbe partire da questo assunto per ritrovare nella propria storia i motivi e le ragioni della propria esistenza. Sapendo che la crisi del maschio è in gran parte opera sua e quindi senza giustificazionismi, consci anche che non si tratta di ri-proporre il passato ma di recuperare da esso immagini archetipiche e simboliche per riproporle nei modi oggi possibili.
Non è solo uno sforzo soggettivo di volontà, è la salute psichica della società che ce lo richiede.
Le cifre del disastro provocato dalla carenza di padre sono a dimostrarlo, laddove le nude statistiche ci dicono che le patologie giovanili, da quelle psichiche fino alla delinquenza ed alla criminalità, sono massime laddove non c’è fisicamente il padre, o dove c’è ma non riesce a svolgere il suo ruolo.
Certo è, però, che a questo non arriveremo continuando a svilire, sui media nelle leggi e nelle sentenze, tutto ciò che è maschile e paterno, come se il maschio e il padre fossero divenuti oggetti intrinsecamente inutili, o al massimo soggetti da rieducare.
Ed è curioso, permettetemi un’ultima nota polemica, che chi lamenta la storica supremazia maschile come il massimo dell’ingiustizia, teorizzi tranquillamente l’espropriazione di ogni sua prerogativa nel campo, di fondamentale importanza simbolica e pratica, della riproduzione umana.
Per www.maschiselvatici.it
Armando Ermini - caporedattore