Agape 2005-04-07

Intervento dei Maschiselvatici al convegno - Maschile, conflitti e potere. Agape, aprile 2005

A cura di Armando Ermini

SALUTI

Cari amici, vorremmo innanzitutto scusarci se la Redazione del sito dei Maschiselvatici, non ha potuto onorare, con una partecipazione effettiva, questo vostro prezioso incontro. Senz’altro la nostra conoscenza è solo rimandata in quanto riteniamo che la possibilità di dialogare e parlarci, sia atto fecondo al di là dei contenuti e delle eventuali divergenze di vedute.

PREMESSA

Certamente ciò che ci accomuna è l’avere un nemico comune: l’indifferenza, il vivere alla giornata senza porsi domande, nell’accettazione del flusso della vita quotidiana, coi suoi impegni e distrazioni. Questo nemico ci presenta la vita come un dato di fatto e uno scenario immodificabile. E invece non è così: al pessimismo della ragione occorre affiancare l’ottimismo della volontà, risorsa ben nota ai maschi! Bisogna agire come se tutto dipendesse da noi, sapendo che nulla dipende da noi.
Entriamo però ora nel vivo della riflessione che vi proponiamo. Una sera di marzo, un’auto percorre la strada che porta dalla città all’aeroporto. A bordo l’autista e, sul sedile posteriore, un uomo e una donna. All’improvviso un faro accecante illumina l’auto e raffiche di pallottole la colpiscono. L’uomo sul sedile posteriore istintivamente fa scudo alla donna col suo corpo. Viene colpito e muore. La donna, pur ferita, è salva grazie a lui.
Avete capito tutti: mi sto riferendo a Nicola Calipari.
Lo faccio perché quella vicenda è densa di elementi simbolici che ci riguardano ed è, secondo i parametri del politically correct oggi in voga, (ma solo secondo quelli), sorprendente e anche contraddittoria.
Nicola Calipari non era un pacifista, aveva scelto un lavoro che lo portava a contatto con la morte, propria e altrui, e sapeva che quella morte poteva subirla o anche darla, se necessario. Di più: aveva scelto di fare l’agente dei Servizi segreti, spazio comunemente considerato simbolo del potere e dei suoi peggiori intrighi, anzi simbolo per eccellenza del potere maschile, ove le uniche donne “ammesse” sono le dark ladies, tipo Mata Haari per intenderci, con ruoli anche importanti ma per lo più in veste di “seduttrici”.
E dunque questo “strano” agente Calipari, strano anche perché come tutti in patria aveva moglie e figli (insomma una famiglia normale), viene, altra sorpresa, immediatamente percepito da colei che è stato inviato a salvare, come un uomo a cui potersi affidare con fiducia. È la stessa Giuliana Sgrena che lo narra. Eppure, per la sua storia e la sua appartenenza politica, la giornalista del Manifesto aveva tutti i motivi per essere cauta nel fare certe dichiarazioni.
I giornali e le Tv hanno celebrato Calidari come un eroe della patria, un eroe del dovere verso lo Stato. Per me non è così. Se Nicola Calipari è stato un eroe (e lo è stato), è stato un eroe della maschilità e del dono gratuito. Il suo dovere lo aveva già ampiamente fatto, e bene. Nessuno avrebbe potuto rimproverarlo se ai primi spari si fosse istintivamente accucciato sul fondo dell’auto. Invece il suo istinto lo ha spinto oltre: in una frazione di secondo era a far scudo col proprio corpo a quello della donna.
Se quella è stata una vicenda eccezionale, le cronache ci raccontano di tanti altri maschi che hanno rischiato la vita per salvare gli altri, per trarre donne e bambini dal gorgo della morte, e se sono finiti sui giornali è stato perché la vita spesso l’hanno donata fino in fondo. Stiamo parlando di uomini che si gettano in mare, nel fuoco, nel più grave pericolo, senza fare troppi calcoli e senza richiesta di contropartite. Ciò avviene perché questi maschi sentono istintivamente di doverlo fare, semplicemente. Il sito dei Maschi selvatici da anni raccoglie queste cronache in un’apposita sezione denominata “Uomini belli, uomini del dono”.
Soprattutto: uomini belli, eroi.
Eroi.
Come si fa ad immaginare una epica battaglia senza eroi?”, vi chiederete. Bertolt Brecht ebbe a scrivere: “Beati i popoli che non hanno bisogno di eroi”. E’ possibile? Forse, ma bisogna capire bene cosa questo significherebbe nella civiltà umana. Il mito narra che l’inizio della cultura umana, intesa come ‘coscienza di sé’ da parte dell’umanità, nasce con un atto conflittuale estremo: l’uccisione di Abele da parte di Caino. Con ciò non ci resta che ammettere che il conflitto è costitutivo dell’umano e che il sogno di un universo pacificato è un sogno regressivo, la nostalgia di un eden che, se a livello collettivo significa un ritorno a quello stato pre-coscienziale, che Erich Neumann (1) ha individuato nel simbolo del cerchio Uroborico, il serpente mitico che si mangia la coda ed all’interno del quale c’è caos e indistinzione, a livello soggettivo significa il ritorno nella incosciente beatitudine dell’utero materno. Già Marie Louise Von Franz, allieva di Jung, aveva criticato le società dove i giovani maschi non sono sottoposti ai riti di iniziazione e non viene spezzata la relazione di dipendenza con la madre, obiettivo appunto dei riti di iniziazione, definendoli come luoghi di “benessere terreno e di gratificazione delle pulsioni sessuali, ma prive di qualsiasi spiritualità. Un mondo – scriveva – improntato a una totale stupidità, teso alla mera sopravvivenza; una sopravvivenza gradevole, ma senza pensiero, senza alcuna idea di realizzazione spirituale”. (2)
Trovo che queste parole, che l’autrice usò a proposito di una tribù indiana del Sud America, servono molto bene a descrivere anche la principale tendenza della modernità occidentale.
Non ci sono dubbi, infatti, che viviamo in una società tutta improntata sulla soddisfazione del bisogno materiale, in cui l’identità è definita da ciò che si consuma, in una continua e affannosa rincorsa che non può aver fine. E non lo può, perché questo meccanismo è funzionale alla ricerca del profitto, perché in questo modo si assicura la riproduzione di relazioni sociali per lo più malsane, ed infine perché la perdita di senso complessivo illude l’individuo di conquistare comunque un senso della vita, per non farlo sentire un “nulla”, nel consumo e nell’esibizione degli oggetti e degli stili di vita alla moda.
La modernità ha espulso da sé il Sacro, ridotto ad esperienza intima ed individuale, per concentrarsi sugli aspetti materiali e orizzontali dell’esistenza. L’uomo integrale, che nell’esperienza del sacro riusciva a “tenere insieme” il suo nascere dalla terra, cioè il suo essere carne e materia, con la spinta verso l’alto, verso il cielo, è stato sostituito dall’homo aeconomicus, tutto dedito al calcolo razionale dei vantaggi di ogni azione, sottoposto al principio di utilità divenuto in apparenza universale.
Non è possibile, qui, tracciare le tappe di questo processo. Basta però osservare, dato che questo a noi interessa, che al principio di utilità e alla soddisfazione del bisogno materiale, presiede simbolicamente (e biologicamente nelle prime fasi della vita del bambino) la madre, mentre è il padre che indica la direzione dello spirito.
Non si tratta di confondere il femminile, che è anche molto altro, col materno, né di identificare quest’ultimo solo con gli aspetti negativi, castranti e desiderosi di conservare un ordine statico, ma di mettere in evidenza che la moderna società post-industriale fonda il suo funzionamento sull’archetipo della Grande Madre nel suo lato negativo e divorante, con la conseguenza che l’individuo, a prescindere dal sesso, rimane chiuso nell’ambito del bisogno.

PER UNA RIFLESSIONE

Questa premessa era necessaria, ai fini dell’analisi del rapporto fra il maschio e il potere, perché la distinzione fra il piano sociologico e quello psichico è essenziale per più motivi.
a) Non ci sono dubbi che sul piano sociologico c’è stata, finora, continuità nel potere maschile, ma è anche vero che il concetto di potere, e quindi di conflitto, è cambiato nel tempo in funzione del mutamento dei principi posti a fondamento del vivere sociale.
b) L’attenzione a questo aspetto ci aiuta a capire in che direzione orientare la ricerca di una identità maschile diversa dall’attuale, che tutti sentiamo essere debole o sbagliata. Si tratta in sostanza di decidere se, in nome del segno maschile sugli orrori del nostro tempo attribuiti alla “fallocrazia” tout court (uso questo termine per brevità), accelerare il processo di rinunzia al Fallo, oppure, al contrario, puntare al recupero del suo significato simbolico autentico, consapevoli che ne stiamo vivendo la degenerazione, che inevitabilmente coinvolge, nella sofferenza, anche il femminile.

Trovo significativo che nei miti di tante culture sia costante la presenza dell’eroe maschile armato di spada in lotta contro il drago. L’eroe, il drago, il conflitto: sono immagini archetipiche che hanno il doppio significato di affrancamento dalla simbiosi materna sul lato personale, e quello di conquista della consapevolezza di sé sul lato collettivo, tanto che si può parlare di maschilità, in senso simbolico, della coscienza.
Questo ci dice qualcosa di molto importante in relazione al tema sul quale state riflettendo e cioè che il vero conflitto, la vera battaglia a cui siamo chiamati, è quella per conquistare il potere su noi stessi. Uscire dalla dipendenza psichica e dal bisogno, che implicano coazione e disperazione quando non soddisfatti, per accedere alla libertà del desiderio autentico, che significa anche attesa e/o rinuncia consapevole. Questo è il destino maschile.
E’ una battaglia che si giuoca nel campo della psiche e dello spirito, al termine vittorioso della quale, il potere sugli altri, surrogato della mancanza di quello su se stessi, non sarà più il Fine. Allora anche il differenziale di potere che sempre esiste in ogni gerarchia sociale, sarà vissuto da chi lo detiene come STRUMENTO di realizzazione di un fine del quale si è partecipi collettivamente. In questo senso non sarà usato “contro” gli altri, ma “per” gli altri.
Oggi, e in realtà da decenni, il simbolo per eccellenza del maschile, il Fallo, è diventato sinonimo di prepotenza, di potere arbitrario: tutti i termini che lo richiamano (così come accade per i termini legati alla parola padre) sono percepiti in negativo e la sua immagine è interdetta.
Eppure un tempo non era così: il Fallo era oggetto di culto e venerazione, simbolo ad un tempo di fecondità e dell’anelito umano verso lo spirito. Il Fallo è sempre stato rappresentato, fin nelle sculture rupestri e nei disegni preistorici, come poggiato sulla terra, teso a donare e gettare nel mondo, e proteso verso il cielo a legare corpo e spirito, in una dimensione verticale e spirituale che non si stacca tuttavia dalle sue origini terrene e corporee. (3)
E’ nel momento in cui si spezza questa posizione di equilibrio, che il maschile o vola così in alto da diventare astratto e come Icaro finisce per precipitare sulla terra con le ali bruciate, oppure non si alza mai in volo. Nell’un caso come nell’altro diventa un maschile ferito, dimezzato, portatore di sventure e di desolazione anziché di fecondità e ricchezza per tutta la società. I poeti contemporanei, da Pound a Eliot, ci hanno raccontato degli effetti del maschile ferito nella sua integrità fallica, ma ben prima di loro, come sempre, l’uomo antico ne era consapevole, e ne ha dato, come nella leggenda di Parsifal(4) e nelle vicende di Amfortas, il re pescatore, una rappresentazione mirabile. (5)
In ogni caso, poiché è l’oggi che ci interessa, la riduzione del Fallo e del maschile a sinonimo di oppressione coincide con l’affermarsi della società industriale moderna.
Relegato il Sacro nella dimensione soggettiva ed espulsa la sua presenza dalla vita della comunità, fondata ora solo sui valori dell’utile e della materialità, dell’antico prestigio maschile è rimasto solo l’involucro esterno, che è stato sempre più percepito, necessariamente, come potere ingiustificato, sottoposto e da sottoporre a radicale contestazione: destinato ad essere soppiantato, svilito e negato nella sua valenza simbolica.
Il Fallo, d’altra parte, per il programma appunto simbolico di cui è portatore, era intrinsecamente incompatibile con la società dei consumi, e “doveva” quindi essere eliminato dalla scena. Al contrario, il femminile è “migliore dell’uomo negli atti utili…. Mentre all’uomo vanno attribuite, come ci insegna la storia, le invenzioni, gli atti nuovi, le idee folli, l’irrealizzabile….perché in lui ha luogo la nuova spinta verso l’alto”, ci ricorda Ezra Pound. Purtroppo sono stati proprio i maschi ad avere avviato e promosso il processo del proprio dissolvimento e questo costituisce un’aggravante ma non sposta il problema.
Le vicende “storiche” del Fallo e del suo simbolismo, pongono, in primo luogo al maschio ma poi anche alla femmina, se è vero che l’ autoreferenzialità di genere non è né possibile né auspicabile, l’alternativa di cui dicevo, ossia se la direzione da prendere sia quella del recupero dell’intero sistema simbolico del maschile, oppure se proseguire nella strada del suo totale dissolvimento, lasciandone sopravvivere soltanto l’involucro fisico, ancora “tecnicamente” necessario per procreare (ma fra poco ridotto a solo strumento di piacere disposable cioè usa-e-getta, come direbbe Claudio Risé). (6)
Potete immaginare la mia risposta, e la risposta dei Maschi Selvatici. Il che però non ci può far eludere un problema:
il maschile, come anche il femminile con i suoi specifici caratteri, riflette la stessa dualità che si ritrova in ogni aspetto della realtà, fatta di coppie di opposti. Vita e morte, capacità di costruire e distruttività, amore e odio, conservazione e trasformazione, altruismo ed egoismo, materia e spirito, oscurità e luce, si definiscono a vicenda e l’un polo non potrebbe esistere senza l’altro.
Si tratta allora, credo, di capire che occorre riuscire a far convivere, legare insieme, gli opposti, piuttosto che pensare ad un processo dialettico di loro superamento in una sintesi che sarebbe un soggetto nuovo, diverso dalle sue componenti originarie.
L’azione maschile volta alla trasformazione positiva nella società ha la stessa origine dell’azione distruttiva in guerra, come la penetrazione in un atto d’amore e lo stupro, la protezione del più debole fino al sacrificio della vita e l’aggressività violenta.
Tutte queste coppie di opposti sgorgano dall’energia fallica, sono energia fallica che si esprime! (7)
Eliminare, o meglio non riconoscere il possibile “negativo” significa immediatamente eliminare anche il “positivo”, il che equivale ad eliminare il maschile in sè. E’ il tentativo, controproducente e impossibile, in atto nella modernità, lo stesso che provoca in noi maschi, senso di disagio e di estraniazione. E’ però questa un’operazione impossibile perché i contenuti “negativi” non vengono mai realmente eliminati ma semplicemente rimossi, nascosti nell’ombra. Controproducente sia perché da qui tali contenuti sono liberi di esercitare il loro fascino perverso e manifestarsi con forza dirompente, sia perché i contenuti “positivi” rimasti in superficie diventano “di maniera”, buonismo politically correct privo di profondità ed energia. (8)
Il secolo passato è stato quello delle ideologie umanitarie e della speranza di una umanità pacificata, ma non casualmente anche quello dei più immani massacri. Più ancora degli esempi storici, però, vale l’esperienza individuale. Chi di noi, almeno chi sente questi problemi, può negare di aver vissuto in prima persona questa scissione delle pulsioni, per di più acuita dalla generale disapprovazione sociale. Chi può negare di essersi sentito sbagliato in quanto “maschio”? Chi di noi non si è invece sentito orgoglioso, ma soprattutto in pace con se stesso, quando da padre, marito o compagno, si è assunto in prima persona la responsabilità di una decisione difficile, ma attuata per il bene dell’altra o dei figli? E chi può negare che gli siano venuti, in cambio, riconoscenza e prestigio?
Ci sono, nella nostra vita, momenti magici, in cui sentiamo che “maschio è bello”. Eppure quelli che pensano così sempre noi, gli stessi che pensavano in altri momenti di essere “sbagliati”.
Mentre scrivo queste righe stanno trascorrendo dieci anni esatti dalla morte di mio padre. Era un uomo pacifico, del tutto alieno dalla violenza. Quando mia madre, spaventata per qualche insetto o animaletto entrato in casa, gli chiedeva di ucciderlo, lui si limitava a prenderlo e metterlo fuori dalla finestra, dicendole che anch’esso aveva diritto di vivere. Si commuoveva di fronte a quella che chiamava l’innocenza dei bambini e non sapeva resistere all’impulso di fare loro una carezza affettuosa, anche a chi non conosceva. Eppure mio padre amava anche leggere libri di guerra, libri cruenti soprattutto della Grande Guerra. Ho sempre considerato questo suo interesse strano e contraddittorio rispetto alla sua personalità. Quest’inverno, immobilizzato a letto per una fastidiosa contrattura muscolare ed ospite di mia madre, per la prima volta ho letto, anzi divorato, quei libri che tante volte avevo sfogliato distrattamente per rimetterli poi sullo scaffale. Non vi ho trovato retorica nazionalista o patriottica, ma storie, vere, di uomini. Col loro coraggio e con la loro paura, col loro eroismo e la loro vigliaccheria, il loro dolore e la loro “insensata” allegria. Ed ho capito perché quell’uomo pacifico le amava, le storie di guerra, a prescindere dai suoi orrori.
Certo, per scoprire le virtù e i vizi degli uomini, la guerra non è necessaria, tantomeno auspicabile. Tuttavia è come se nel momento più terribile le qualità positive e negative emergessero nella loro interezza, dando luogo, anche fra nemici, a episodi di solidarietà e umanità bellissimi. Come quando il sergente Rigoni Stern, in ritirata dalle steppe russe ghiacciate, durante il Secondo Conflitto, entrò in una capanna che credeva disabitata e vi trovò un gruppo di soldati e partigiani russi con alcune donne e bambini, che stavano mangiando. Quello era un conflitto mortale, eppure quei nemici, dopo essersi fissati negli occhi, hanno avuto il coraggio l’uno di chiedere del cibo, gli altri di accoglierlo alla loro mensa e poi lasciarlo andare, senza bisogno di parlarsi.
Tanti autori hanno scritto sul significato della guerra, sul suo richiamo alle pulsioni maschili più arcaiche e ancestrali e sul fascino che essa esercita:
La violenza del maschio – scrive ad esempio Risé – è stata sempre riconosciuta e organizzata da tutte le società passate più sagge. I riti d’iniziazione alla condizione maschile adulta …comportano sacrifici anche cruenti, paura e violenza, sia pure amministrata all’interno del rito. Tutto ciò serve ad abituare il maschio a riconoscere ed accettare la propria violenza, e a ricondurla fin dall’ingresso nella vita adulta, sotto il controllo della società……Il rapporto del maschio con la violenza e la morte…si manifesta fin dal primo uomo. Il conflitto aperto nella psiche maschile dalla sua condanna alla violenza è dunque archetipico, non contingente, non relativo a questa o quella epoca storica. Diventare uomini significa anche, per il maschio, imparare ad amministrare la propria violenza. Per questo occorre ri/conoscerla, e possedere quel sapere che ha per oggetto la gestione della violenza..” (9)
La violenza? Organizzarla, amministrarla e gestirla, in modo che l’energia fallica che ne è a fondamento, possa essere messa al servizio di tutta la società.
Tutto ciò però richiede una grande assunzione di responsabilità. Il maschio sa che può usare la forza fino a dare la morte, che qualche volta è chiamato a darla, ma deve anche saper assumere la lacerazione che ciò comporta, sapere che nulla sarà più come prima. Io, ad esempio, sarò grato per sempre al padre della mia ex moglie, ora morto, per l’insegnamento che mi ha dato: era stato partigiano, aveva preso parte ad azioni armate, ma era capace di commuoversi al ricordo di fascisti uccisi per vendetta da alcuni suoi compagni, dei quali invece diffidava profondamente.

Anche il cinema ha messo in scena il contrasto fra le due parti che convivono in noi e la spinta che ci induce a riunificarle. Ad esempio ne “L’uomo del treno”, film di Patrice Leconte del 2003, un tranquillo professore di lettere si trova casualmente ad ospitare nella propria casa un altro uomo, Johnny Hallidey, un malvivente arrivato nella cittadina per effettuare una rapina alla locale banca. Nei giorni di convivenza entrambi scoprono poco a poco il fascino (ed il bisogno) della parte di sé non vissuta. L’uomo di spirito è attratto dalla pistola, dagli abiti, dalla sicurezza di sé dell’uomo d’azione, e quest’ultimo dalla poesia, dalla letteratura e financo dalle borghesissime pantofole che fanno parte del mondo dell’altro. Per entrambi però è ormai troppo tardi, ed infatti il film finisce in tragedia, a significare l’esito della frattura non ricomponibile e infatti non ricomposta.
Riunificare gli opposti senza negarli, trovare il proprio centro, il Sé, è la condizione per vivere una maschilità piena, libera e consapevole, ed evitare pericolose proiezioni che creano sempre dipendenza a causa della loro duplicità. Quando infatti proietto il mio male sull’avversario, che ne diventa l’incarnazione da distruggere, inconsapevolmente faccio lo stesso anche per il bene. Incapace di vederlo in me, sorge il bisogno, per continuare a vivere, di trovarlo altrove, e questo altrove è la donna. Basta guardarsi intorno e constatare quanti uomini, anche di potere e di successo , sono invece inetti e dipendenti nei rapporti affettivi.
Sono convinto che molti drammi familiari provocati da uomini abbandonati, oltre che col dolore per la perdita dei figli, si spieghino con la dipendenza psichica maschile, e non, come banalmente ci dicono i media, con la rabbia per la perdita del potere. E’ l’immagine del bene e di sé come “bene prezioso” da donare, riposta nella compagna, che costoro sentono di aver perduto e che genera solo disperazione, non un potere che non hanno mai avuto se non nelle sue forme esteriori.
Fa parte dello stesso meccanismo proiettivo, a mio parere, la frequente autodelegittamazione maschile a “dire” e a “dirsi”, quando si parla dei temi della vita e della procreazione. E’ come se una parte consistente del genere maschile si sentisse inadeguata e delegasse a quello femminile, in via di fatto e di diritto, non solo ogni decisione, ma prima ancora la facoltà di definire il Bene ed il Male, come ha notato Elisabeth Badinter in un suo libro. (10)
Non è questa la sede per discutere se ci sia davvero il conclamato “primato femminile nella procreazione”, però è certo che proporre la questione in termini di “primato” e “supremazia” anziché di corresponsabilità, sia pure potenzialmente conflittuale, della coppia genitoriale, apra la strada affinché anche ogni altro aspetto della relazione venga posto nello stesso modo, col rischio di renderla competitiva e distruttiva.
Non è “delegando a lei”, ossia fuggendo a priori la possibilità del conflitto, che il maschio può ritrovare se stesso, ma solo ponendosi nella disposizione d’animo di chi intende difendere il soggetto in quel momento più debole (11). Si tratta di un mutamento culturale molto profondo, di cui si iniziano a scorgere le prime avvisaglie (12), che sarebbe del tutto sbagliato catalogare come “revanscismo” maschilista e tentativo di riprendere il controllo sul corpo femminile.
Il controllo sul corpo femminile, e la definitiva cacciata di quello maschile, semmai, sono insite invece nelle tecniche di procreazione artificiale e nella scissione fra procreazione e sessualità, che offrono ai nuovi déi della modernità, gli scienziati, un potere immenso di controllo e di determinazione dei processi della vita. Stupisce la totale sottovalutazione (anche) di questo aspetto, e la cecità con cui tante donne e uomini corrono verso la catastrofe…
Al meccanismo di rimozione/proiezione, si pagano però prezzi altissimi. Ad esempio, ed è l’ultimo punto a cui vorrei accennare, proiettare il proprio lato femminile, l’Anima, sulla donna, fa sì che il maschio o non si permetta “emozioni e sentimenti” che dall’ Anima gli derivano, reprimendoli, oppure che tenda, al contrario, a vedere nel femminile un modello da copiare, finendo per diventarne la caricatura. La stessa coda accade alle donne rispetto al proprio lato maschile, l’ Animus, e questo impone ad entrambi i generi di trovare dentro di sé la complessità di cui si è portatori, salvando ad un tempo la diversità di genere e la possibilità di aprirsi alla ricchezza altrui.
Laddove esiste il confine c’è contemporaneamente un limite ma anche un punto di contatto, di scambio e di arricchimento. Un arricchimento che poi torna utile alla stessa famiglia ed ai figli.
Consentitemi, prima di terminare, una considerazione su un evento di qualche giorno fa, che per i suoi significati aggiunge alla mia convinzione il conforto di un sentire collettivo nella stessa direzione che va oltre ogni mia speranza e che, spero, costituisca la prima tappa di un nuovo inizio. Mi riferisco a quanto è accaduto in occasione della morte di Giovanni Paolo II. L’emozione che ha colto me, come miliardi di persone in tutto il mondo, è stata inaspettata per misura, intensità ed estensione geografica. Io penso che Giovanni Paolo abbia saputo catalizzare il disagio che vive l’uomo moderno secolarizzato: una quotidianità estraniante di cui l’uomo, attraversato da mille contraddizioni e di cui, indotto a vivere l’effimero, non è pienamente consapevole, ma che lo lascia insoddisfatto perché non riesce più a trovare SENSO.
Questo Papa ha fatto intravedere, al contrario, una possibilità e la sua vita è stata sentita come l’attuazione di questa potenzialità.
Ebbene, Giovanni Paolo è stato unanimemente ricordato dal popolo come un Padre, amorevole ma forte ed anche intransigente. Uno striscione recitava: “GRAZIE PAPA’ ”, e dietro di esso si vedevano ragazzi e ragazze di oggi, come tanti nelle nostre città, col cellulare incollato perennemente all’orecchio. E’ stato un grande omaggio alla paternità, una richiesta fortissima di paternità. La migliore risposta a chi ne raccontava, e magari invocava, la sua fine. Il mondo ha bisogno di uomini capaci di “alzare il figlio verso il cielo”, verso l’alto, in un gesto tipicamente maschile e paterno a significare la linea verticale che unisce terra e cielo, materia e spirito, proponendo una direzione di vita.
Per noi maschi di oggi questa è una indicazione preziosa.
Buon lavoro a voi tutti.

Armando Ermini, caporedattore del sito www.maschiselvatici.it

(1) In Storia della nascita della coscienza. Roma, Astrolabio.

(2) Cfr. : M. L. von Franz, Il mondo dei sogni, Tea, 1996, pag. 112.

(3) Cfr. tra gli altri: G. R. Scott, Phallic Worship. A History of Sex & Sexual Rites, Luxor Press, London, 1966; E. Monick, Phallos. Il maschile nel mito, nella storia, nella coscienza d’oggi, Red, Como, 1989; C. Risé, Maschio amante felice, Frassinelli, 1995.

(4) Cfr. C. Risé, Parsifal. L’iniziazione maschile all’amore, Red, Como, 1988.

(5) Cfr. E. Monick, Il maschio ferito. L’esperienza della castrazione nello sviluppo dell’uomo, Red, Como, 1993.

(6) Cfr. ad esempio C. Risé, Il padre assente inaccettabile, San Paolo Ed., 2003.

(7) Cfr. per un approfondimento C. Bonvecchio-C. Martignoni-C. Risé, La questione maschile, SEB, Milano, 1998.

(8) Cfr. C. Bonvecchio-C. Risé, L’ombra del potere. Il lato oscuro della società: elogio del ‘politicamente scorretto’, Red, Como, 1998.

(9) Cfr. C. Risé, Diventa te stesso, Red, Como, 1995. Cfr. inoltre C. Risé, Psicanalisi della guerra. Individui, culture, nazioni in cerca d’identità, Red, Como, 1997.

(10) Cfr. E. Badinter, La strada degli errori, Feltrinelli, 2004.

(11) Cfr. Il mondo che cambia. Dal padre «eliminabile» al padre responsabile, in C. Risé, Il padre assente, cit.; cfr. inoltre L’accoglienza mancata: l’aborto, in C. Risé, Il mestiere di padre, San Paolo, 2004, pagg. 56 e segg.

(12) La richiesta di un mutamento legislativo e culturale riguardante ad esempio la posizione del maschio nella Legge 194/78, in cui l’uomo è escluso dalle decisioni riguardanti la vita del figlio nel caso quest’ultimo fosse destinato all’aborto, è il centro del Documento per il padre.
Cfr. anche, per un commento al Documento per il padre e per la considerazione di proposte a riguardo, A. Vanni, Il padre e la vita nascente. Una proposta alla coscienza cristiana in favore della vita e della famiglia, Luino, Nastro Ed., 2004.

[09 maggio 2005]