La tortura delle donne

U. Galimberti, su D Donna del 22 maggio, spiega il motivo per cui non c’è da sorprendersi se si vedono donne in veste di torturatrici, al di là della tradizionale immagine femminile che l’Occidente si è costruito.

La donna , scrive G. , ha con la natura un rapporto diverso e più stretto dell’uomo. In affinità con essa, che crea e distrugge , “la donna ha il potere esclusivo di generare così some di spegnere la vita prima della nascita” . Potere di vita e di morte, che il maschio ha cercato di “imitare” riuscendoci solo parzialmente. “Il re, infatti, condanna a morte ma non esegue direttamente la condanna”. Il luogo maschile è la storia, quello femminile il corpo, che gli uomini conoscono e riconoscono solo come fatica o piacere. Per la donna, invece, il corpo è il suo elemento naturale, il suo linguaggio immediato . Corpo che accoglie e accudisce, che si deforma per ospitarne un altro e che la donna capisce, sente, percepisce in ogni pur piccolo gesto. Corpo, quello femminile, che è esposto anche al consumo di sé per formare la vita di un altro. Nasce qui l’ambivalenza, il risentimento femminile che si trasforma in rifiuto, l’amore che cangia in odio, quello che porta all’abbandono del neonato o all’anoressia, al rifiuto del cibo. Nel momento in cui “il sentimento diventa risentimento”, allora la donna non tanto mira ad uccidere quanto a consumare l’oggetto del suo odio. Da qui la sua capacità di torturare e logorare con un accanimento senza fine, “perché il piacere non è la morte ma il disfacimento di quella cosa che solo la donna sa fare e disfare: il corpo”.
Le penitenze corporali nei collegi e nei conventi, la stessa “gestione dei corpi” negli ospedali (ove un tempo le suore caposala governavano uno stuolo di infermiere), ci parlano di un potere sui corpi o meglio, nel caso degli ospedali dove l’infermo non ha più anima (forse sarebbe meglio parlare di spirito), ma solo corpo cedevole per l’infermità, di una condizione di potere giocata sull’impotenza dei corpi.
E’ la stretta parentela delle donne colla natura, che crea con la stessa indifferenza con cui distrugge, a tenere in mano le vere regole del gioco della vita, che gli uomini ignorano presi dal fascino della storia dove creano e distruggono illusioni. Le donne, conclude Galimberti, sanno torturare meglio degli uomini per lo stesso motivo per cui sanno amare meglio, perché “conoscono il corpo.”
Non sono in grado di dire se la rappresentazione di Galimberti è vera, in tutto o in parte. Ma se lo fosse, alcune considerazioni s’impongono. La prima e fondamentale è che viene sottolineata la tradizionale divisione femmina/materia/natura, maschio/spirito/cultura (in questo caso sinonimo di storia). G. non lo scrive, ma è evidente che l’evolversi dell’umanità da uno stato di pura naturalità , in cui creazione e distruzione, vita e morte, si susseguono e si scambiano con “indifferenza”, per approdare alla norma morale ed etica, al giudizio di valore, è e non può che essere opera maschile.
Tentativi di “imitazione” o di appropriazione del potere femminile, forse, ma proprio per la loro minore “affinità” con la natura, destinati a fornirsi di criteri di valore (comunque li si giudichi) sconosciuti (e forse inconoscibili) alla naturalità femminile.
Ne discende ,allora, che

1) Il patriarcato è stata la condizione, psicologica giuridica e sociale, che sola ha consentito il formarsi ed il crescere delle civiltà. In questo senso l’espressione “civiltà matriarcale” rimanderebbe ad una contraddizione in termini irrisolvibile.
L’ illusione della storia maschile” non è da leggere come inesistenza o ininfluenza, ma nel senso che mentre la natura può esistere senza la storia e la cultura, l’inverso non vale. Cultura e storia si innestano sulla e nella natura, trasformandola la trascendono, ma la presuppongono. Se, dunque, è vero che una maschilità spirituale astratta, che abbia perduto ogni riferimento/rapporto con le radici terrene, può diventare luogo di arbitrii, altrettanto può dirsi di una femminilità materiale lasciata a sé stessa, cui manchi il principio “ordinatore” e “formatore” maschile. I miti antichi, il passaggio dal diritto matriarcale del legame di sangue a quello patriarcale della norma oggettiva, ci parlano proprio di questo simbolismo.

2) La fuoriuscita dell’umanità da uno stato indifferente e indifferenziato implica allora, di necessità, una quota di controllo “sociale” della naturalità femminile, simmetrico contraltare del necessario ancoraggio alla natura della spiritualità maschile. Categorie come “oppressione” e “autoritarismo” sono del tutto fuori luogo, come lo sarebbe la pretesa maschile di disinteressarsi della base naturale dell’esistenza umana. La norma, dunque, non opprime, ma delimita il campo entro il quale può esercitarsi la libertà umana non sconfinante nell’arbitrio , e come tale è a vantaggio di tutti, uomini e donne. “Le donne, se il tatto non le ravviva, nulla le rattiene”, scriveva Dante.
Il tatto che rattiene è proprio, mi sembra, la legge che la collettività si è data per “ordinarsi”.
La questione ci porta lontano, apparentemente.
Il 20 maggio Liberazione sottotitolava, a proposito di fecondazione assistita, “ Ritorna il controllo autoritario-patriarcale”. Nell’articolo di Maria Grazia Campari si sosteneva che il diritto femminile a disporre del proprio corpo non dovrebbe avere altri limiti che la responsabilità soggettiva, mentre negli stessi giorni, su Repubblica, campeggiava una foto di donna con uno striscione che recitava “L’unica legge è il desiderio”. Mi sembrano due esempi di come, dietro all’ideologia della libertà e dei diritti della persona, si sveli una tendenza alla regressione . La rinuncia della collettività a darsi regole condivise in nome di un concetto astratto e assoluto di libertà, rischiano, come richiama Pietro Barcellona (Alzata con Pugno, Città Aperta 2002), di alterare profondamente lo statuto antropologico (psicosociale) costruito attraverso millenni dagli abitanti di questo pianeta.
Non dunque evoluzione del diritto, ma involuzione. Può sembrare paradossale, ma il “progresso” scientifico abbinato alla libertà assoluta, rischia di riportarci, in tema di procreazione, all’epoca pre/storica in cui era probabilmente non conosciuto l’intervento maschile nella riproduzione. Allora era la magia della natura, oggi la “magia” della scienza. Il risultato sembra essere identico, la scomparsa del principio simbolico maschile con tutto quello che ne consegue come “allagamento della coscienza da parte dell’inconscio”, e che Neumann e prima di lui Jung, hanno bene evidenziato.

3) Tornando alle torture: è vero che ci sono state anche in passato e tuttavia dobbiamo cogliere una differenza con quelle delle foto dall’Irak. La condanna a morte mediante supplizio, o la tortura del passato, erano punizioni per la violazione simbolica del corpo sacro del Re o al più strumenti per estorcere confessioni mediante il dolore fisico, ci dice Foucault (La nascita delle carceri, Einaudi).
Quello che è accaduto ad Abu Ghraib assomiglia di più, invece, ad una versione estremizzata di quello che sempre Foucault chiama il “biopotere”, l’amministrazione dei corpi e la gestione calcolatrice della vita. Somiglia alla violazione del corpo come strumento di violazione dell’anima, per restituire all’esterno un ex -detenuto ormai diventato ex-persona, umiliato e privato della sua identità, sul quale la presa del biopotere è diventata totale. Le ridenti soldatesse delle foto se ne sono fatte strumento, tanto più perfetto in quanto “indifferente”, amorale più che immorale. Il cazzutismo di questa società a cui starebbe cedendo la “diversità femminile”, come evoca allarmata Lidia Ravera sull’Unità del 3 maggio, dunque, non c’entra nulla. C’entra, semmai, il “vulvismo” come fenomeno autonomo e come ombra specifica del femminile.

Armando Ermini