Quando la violenza è femmina, un mito che cade

Maschio uguale aggressività, violenza, guerra. Femmina uguale accoglienza, empatia, pace.

Da almeno 40 anni i racconti ed i commenti dei giornali, della tv, della radio, del cinema, della letteratura, esplicitamente o indirettamente, si fondano su questo assioma. E quando ce ne fosse bisogno, ecco un profluvio di dati statistici a senso unico.
Ci siamo occupati spesso della questione ( in Accade oggi, rubrica Uomini e giornali, l’articolo Maschio assassino, o in La condizione maschile, La coscienza ed il male, dal Washington Post, La violenza domestica è maschile?, Maschi?, tutti pedofili, ed ancora in Donne, Madri, e Grandi Madri, gli articoli G.M. terribile, branco e stupro etnico, La tortura delle donne, Alcune riflessioni intorno alla nascita del nonnismo al femminile), sollevando più di una questione.
In primo luogo l’attendibilità dei dati (improbabili, contraddittori ed in alcuni casi palesemente falsi o impossibili), poi il modo con cui quei dati, generalmente frutto di inchieste “pilotate”, vengono raccolti, ma soprattutto perchè quelle ricerche si fondano sul presupposto ideologico che la violenza è solo maschile, con la conseguenza di escludere ricerche a tutto campo, o quando vi sono, di sottovalutarle o negarne l’importanza fino al rifiuto di discuterne o pubblicarle.
Eppure alcune ricerche sulla violenza domestica femminile, anche di organismi pubblici, esistono da anni, e se non altro, la “scarsa” prova di indole pacifista mostrata dalle donne di potere avrebbe dovuto far riflettere sulla possibilità che costituissero la punta di un iceberg, sotto la quale intravedere un fenomeno suscettibile di incrinare l’ideologia del “politicamente corretto” che impera da decenni.
D Donna, il magazine femminile di Repubblica, si incarica oggi, con indubbio merito e onestà intellettuale, di rompere il muro di omertà. Il numero del 5 novembre 2005, contiene un articolo di Giorgia Camandona, Picchiati dalle donne, che affronta senza particolari giustificazionismi il fenomeno della violenza domestica femminile verso gli uomini, riportando testimonianze di vittime e operatori sociali e i risultati di studi statistici in alcuni paesi occidentali, ammettendo inoltre che, almeno in Italia, nessuna ricerca sul tema è in atto.


I dati statistici
Francia: da una ricerca condotta su scala nazionale risulterebbe che il 15% delle violenze coniugali sono a danno di uomini. Sono stati pubblicati due libri sul tema, che hanno aperto uno squarcio di luce sul fenomeno: L’homme battu di Sophie Torrent (Option Santè) e Femmes sous emprise (Oh Editions) di Marie France Hirigoyen.
Gran Bretagna: secondo il più recente Britsh Crime Survey, almeno il 19% dei casi denunciati di violenza domestica vedono l’uomo nella veste di vittima. In G.B. esistono già strutture e associazioni di soccorso, fra le quali una, Survivors.org, specializzata nel recupero di uomini che hanno subito stupri.
Svizzera: sono state avviate ricerche sul fenomeno e i centri di consulenza familiare sono stati sensibilizzati affinché non sottovalutino il fenomeno.
Stati Uniti: da una indagine condotta unitariamente da associazioni femminili e maschili per l’aiuto alle vittime di violenza domestica, risulta che nell’ultimo anno gli uomini malmenati sarebbero almeno 835.000. ( L’articolo non riporta altri dati sugli USA, ma già da alcune statistiche ufficiali degli anni ’80 riportate da Warren Farrel nel suo libro Il mito del potere maschile, ed altri suoi scritti più recenti, si deduce che la media percentuale è in linea o superiore a quella europea.
Canada: secondo una statistica prodotta dalle forze dell’ordine, ormai il 54% dei casi di violenza domestica sarebbe a danno degli uomini, e nella assenza totale di strutture di aiuto.


Le testimonianze
L’articolo ne è ricco, sia di quelle dirette delle vittime sia di quelle degli operatori sociali del settore che le hanno raccolte. Tralascio di riportarle perchè non è l’impatto emotivo, pure fortissimo, che mi interessa di più (si sa d’altra parte che subire violenza è umiliante per tutti), ma il significato del fenomeno. Emerge da tutte :
a) Una grande reticenza da parte delle vittime ad ammettere i fatti e denunciarli, quasi se ne vergognassero, e d’altra parte la difficoltà ad essere creduti.
b) Uno stato di estrema dipendenza psichica da parte di quegli uomini nei confronti delle loro compagne/mogli.


Ci troviamo dunque in presenza di un fenomeno, sia pure ammettendo che non sempre le statistiche sono esatte, sicuramente significativo sul piano quantitativo (e forse ancora più esteso di quanto è emerso finora), ed ancora poco studiato per un interdetto culturale di doppia valenza che permea la società e gli uomini per primi. Se da un lato sembra impossibile che un uomo si faccia picchiare da una donna, dall’altro non si “può” ammettere che le donne siano le protagoniste in negativo di atti violenti.
Le verità che emergono sono però altre.
Il subire passivamente violenza non dipende solo dalla differenza di forza fisica e da uno stato di oggettiva subordinazione economica, né a questo può essere ricondotta la dipendenza psichica la quale, i maschi vittime lo stanno a dimostrare ma lo stessa vale anche per le donne, ha una sua origine autonoma.
Insieme alla “emancipazione”, emerge in parallelo il lato violento femminile. Tutto ciò suggerisce una riflessione di ordine generale, prima della quale è però necessario rilevare l’insufficienza o la reticenza della giornalista quando affronta il problema delle cause soggettive del fenomeno, femminili e maschili. Si limita infatti a scrivere, registrando l’opinione della terapeuta Trabalzini, che le donne, oggi che sono mutati i rapporti di potere nella famiglia, si permettono anche comportamenti inaccettabili, senza approfondire il significato di un fenomeno a lungo negato. D’altro lato, per quanto riguarda gli uomini, la stessa terapeuta sostiene che il maschio vittima ha avuto una madre molto carente e ha visto nella moglie l’autorità che gli è mancata da piccolo, la figura a cui doversi assoggettare e a cui obbedire ad ogni costo.
A me sembra piuttosto che il maschio vittima riproduca nel rapporto con la moglie un modello familiare introiettato da bambino, ossia una iperpresenza autoritaria materna ed una insufficienza o assenza o svalutazione del padre, notoriamente lui, e non la madre, il rappresentante simbolico, ed anche reale, del principio d’autorità.
Più in generale è da sottolineare che l’emergere della violenza al femminile avviene quando, a detta di molti studiosi e segnatamente di molte studiose femministe, il Patriarcato è morto e sepolto. Se ne deduce allora che proprio quel sistema, in cui il genere maschile si è assunto insieme ai privilegi del potere pubblico l’onere di catalizzare su di sé il peso e la colpa della violenza, ha permesso che il genere femminile potesse essere rappresentato, e rappresentarsi, come “innocente”, naturale portatore di non violenza, di pace, e di rapporti umani improntati alla collaborazione e all’empatia. E’ proprio sotto l’ombrello protettivo del patriarcato che il femminismo ha potuto declinare il tema della differenza di genere non già come diversità e complementarietà di saperi e funzioni, ruoli e inclinazioni, ma come superiorità etica e morale, proclamando di conseguenza l’identità fra il bene dell’umanità e l’assunzione da parte della stessa del principio femminile come asse e guida del mondo.
Ora “la regina è nuda”, potremmo dire, anche se già l’antica Grecia aveva indagato l’ombra del femminile attraverso i suoi miti immortali, da quello della Medusa, alle leggende delle Erinni e delle Amazzoni, solo per citarne alcuni.
In ogni caso, quello che sta emergendo costringerà a ripensare radicalmente i rapporti fra i generi ma prima ancora la rappresentazione di sé degli stessi.
Se infatti il racconto mediatico della polarizzazione fra bene/femminile e male/maschile è destinato ad infrangersi di fronte alla realtà, nonostante la reticenza ed il pregiudizio ideologico, è altrettanto vero che i maschi saranno costretti a ripensare il prezzo che hanno pagato a fronte del potere sociale, il cui lato nascosto è stato la perdita di potere su se stessi.
La progressiva proiezione sul femminile del bene e del bello ha coinciso con una crescente incapacità a vedere il bene ed il bello dentro di sé, e questa con la delega al femminile sia della “gestione” degli affetti all’interno della famiglia, sia di una serie di funzioni un tempo appannaggio maschile e paterno, per prima quella dell’educazione dei figli e della loro introduzione alla vita sociale. Ne è risultato uno stato di dipendenza psichica verso il femminile, che se fino ad ieri era mascherato dalla preminenza sociale, oggi affiora in tutta la sua devastante portata, anche e soprattutto verso le giovani generazioni, che hanno invece sete e bisogno di esempi e figure maschili forti e positive. E’ precisamente da qui che occorre ripartire.

Armando Ermini

[18 novembre 2005]