Un amore terribile, come il mito di Parsifal

da Il Giornale del 3 febbraio 2003

Quando Parsifal attraversa a cavallo il ponte levatoio della fattoria dove la madre lo teneva rinchiuso (perché non si perdesse, non la lasciasse, non rischiasse di farsi uccidere), la donna, Herzeloyde, cade a terra, fulminata dal crepacuore. Nessuno glielo doveva portare via.
E' così per ogni madre che non accetta che il figlio viva, e muoia, per conto suo, lontano dal suo affetto soffocante. E' stato così, anche per la madre di Livorno. Nessuno doveva portargli via quel figlio, neppure la morte. E allora, quando la tenebrosa rivale si é presentata, lei, la madre, ha fatto finta di nulla. Dopotutto, quel figlio era "suo". Amorosa, ha coperto il corpo con delle coperte, gli ha anche fatto da mangiare, gli ha parlato. Il figlio però, di solito così premuroso e obbediente, stavolta non faceva più quello che lei gli chiedeva. Non mangiava più. E non le rispondeva. Non era mai accaduto, probabilmente, che lui, il figlio, non le obbedisse. Ma questa volta, dopo tutta una vita, qualcosa non andava per il verso giusto.
La madre, tuttavia, tenne duro. Era un rapporto ben collaudato, il loro. Fin da quando era vivo il padre, il figlio, infatti, era sempre rimasto il "suo" bambino. L'avevano accompagnato, quei genitori dove lo stile vincente era quello della madre iperprotettiva, anche a militare, prendendo una stanza non troppo lontana dalla caserma, perché non si sentisse solo, o non si perdesse con strane compagnie. Adesso però i giorni passavano e lui non faceva più ciò che la madre gli chiedeva. Anzi non faceva più nulla: era fermo, immobile, zitto.
Stavolta, bisognava fare una cosa terribile, una cosa mai fatta fino allora. Lei, la madre finora onnipotente, doveva ora chiedere a qualcuno di occuparsi di quel figlio improvvisamente disubbidiente, che era sempre riuscita ad amministrare solo lei, tenendo accuratamente fuori gli "altri", quelli che avrebbero potuto portarglielo via. Adesso, invece, doveva essere lei a far entrare "gente estranea" nella loro casa. Nella loro vita. Nella vita di quella strana coppia che da due anni, da quando il padre era morto, era riuscita a non vedere più nessuno: non gli altri abitanti del palazzo, sfuggiti accuratamente, non il fratello/zio, che abitava a pochi isolati di distanza. Il mondo era lasciato fuori, al di là del ponte levatoio, che la madre, e quel figlio succube, non alzavano mai.
Ora invece proprio la donna, la madre, doveva abbattere, senza rimandare ulteriormente, i muri che per una vita aveva costruito verso l'esterno, sempre pronto ad invadere, a ficcanasare, a portar via i figli alle mamme come lei. Lo fece, tuttavia. Quando arrivarono gli infermieri e le dissero di vestirsi, che l'avrebbero portata "fuori" da lì, che le avrebbero "chiesto" cosa era accaduto, capì che la partita era perduta, che i muri si erano davvero infranti. Si mise dietro l'ultimo, fragile, provvisorio riparo, la porta del bagno. E quelli di "fuori", gli infermieri, i medici, gli "altri" insomma, udirono solo il rumore del corpo che cadeva a terra. Non avrebbero mai potuto spezzare quell'unità madre-figlio, che neppure la nascita del bimbo aveva interrotto, più di quarant'anni prima, né la sua crescita, né la società che l'aveva sempre aspettato, e in cui lui non era mai entrato. Quell'amore segreto e terribile, impastato di morte, l'amore della donna che non vuole che il figlio viva la sua vita, lei, la madre, non l'avrebbe mai raccontato. A nessuno.

Claudio Risé

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