Che dono la vita. Storia di un uomo

3 Giugno, 2007

Cari Maschi Selvatici,

è con piacere che accolgo il vostro invito a scrivere.
Debbo però fare una premessa a proposito di …Marco Polo. Ho trascorso in Cina ormai quasi otto anni ma debbo dire che il mio record di permanenza in un singolo Paese lo detiene ancora l’Arabia Saudita, con quasi undici. Quindi mi sento, ancora, più …”Lawrence” che “Marco”!
Se mi consentite un’altra battuta, dovrei dire che sul mio “bosco”…non tramonta mai il sole. Oltre Arabia e Cina esso ingloba quattro anni in Somalia, tre in Perù, un anno in Burkina Faso, due lunghe missioni nel nord della Nigeria, una in Guinea-Conakry e tre mesi negli Emirati del Golfo (UAE). Ci sarebbero pure delle missioni in Europa, come l’Albania, l’Ungheria e Praga, ma non le considero “missioni all’estero” (in Albania si parla e mangia italiano e facevo prima ad arrivare a casa, ad Ancona, da Tirana che dalla Sicilia o da Milano).

In sostanza, un bel girovagare, con qualche sosta sabbatica e qualche breve altra quando facevo base in Italia. Se dovessi cominciare a parlarne, non saprei da dove cominciare. Sono ormai talmente tante le immagini “archiviate” nella memoria (volti, sensazioni, situazioni, panorami, incontri) che a volte, forse per l’effetto di “troppo pieno” sembrano premere per evadere in libera uscita. Ciò nei momenti più impensati: guardando la TV, andando in taxi o, magati, pranzando. Chissà perché poi proprio certe immagini, apparentemente meno significative di altre, raccolte in anni lontani o vicini e dai posti più disparati. Quando ciò accade, allora, benevolmente debbo... spingerle di nuovo nell’”archivio” mentale per non farmi trascinare dai ricordi (spesso dalla nostalgia) in momenti inopportuni.
Fortunatamente, ho iniziato con l’hobby della fotografia fin dalla partenza della mia avventura, così oggi mi trovo con un archivio di foto e dia vastissimo da cui attingere per rievocare dati e ricordi. Sono tutte classificate per data e titolate ma non ancora digitalizzate e penso che questo sarà un lavoro per quando appenderò l’aereo al chiodo.

Nonostante i tanti anni trascorsi all’estero (dal 1978) posso dire di avere incontrato relativamente pochi problemi nei rapporti professionali e sociali con colleghi e conoscenti locali, fossero con sudamericani, africani, mediorientali o del Far East. Anche da questo punto di vista, un’esperienza fondamentale per avere la “percezione” del mondo.
Si scopre che non c’è motivo di essere intolleranti e che il “diverso” non fa alcuna paura proprio perché, a prescindere dalle convinzioni religiose, di costume e carattere, ci sono sempre motivi di convergenza. E che gli stereotipi nascono dall’ignoranza e, spesso, dalla mancanza di voglia di indagare e conoscere. Ho conosciuto tanti amici; ho perduto amici e colleghi in incidenti di lavoro.
Ho avuto delle belle avventure, questo si, a volte anche rischiando grosso, sia in cantiere che fuori. Ho anche trovato il “bosco” che sicuramente avevo inconsciamente (ma neanche troppo inconsciamente) rincorso, spinto da qualche cosa radicato nei cromosomi.
Ed in una notte di luna nuova del 1979, spenti i fari del mio fido Toyota “Land Cruiser” che avevo in dotazione (e che mi faceva sentire tanto John Wayne a cavallo lungo i suoi “Sentieri selvaggi”) mi sono trovato da solo, nell’oscurità profonda del deserto ai margini del Ruba’ al Khali e mi sono detto che i lunghi sacrifici di studio che avevano impegnato quasi tutta la mia giovinezza erano stati ben spesi solo per avermi permesso di essere lì in quel momento a contemplare lo spettacolo del firmamento, come se mi trovassi su una base spaziale, nel buio più assoluto, tranne che per il riverbero di miliardi di stelle.

In sé anche il mio lavoro mi ha sempre affascinato: progettare e costruire strade significa camminare a piedi dove il “fuoristrada” non riesce ad arrivare e ciò implica movimento su lunghe distanze, come non sarebbe per progetti di dighe o edifici, ben localizzati su aree circoscritte. A volte sono tracciati di centinaia di chilometri in luoghi selvaggi e impervi, dove occorre arrivare per raccogliere dati tecnici (topografici, idraulici, geologici e geotecnici, ambientali, eccetera) per poi analizzarli ed elaborarli in ufficio, trasformandoli in prodotto finito, ossia in risultati pratici da utilizzare per la progettazione. Se si tratta di direzione lavori, si vive in campi attrezzati, ma spesso isolati.
Certo, vivere in Arabia, sottoposta alle severe regole religiose wahabbite (specialmente per uno scapolo come ero io allora) non è la stessa cosa che vivere in Cina, o in Perù. Vivere in un posto senza tv, giornali, cinema, bar, radio, telefono, sebbene con tutte le altre comodità necessarie alla sopravvivenza, come fu durante il primo periodo trascorso in Arabia (prima metà degli anni ’80) è molto diverso rispetto all’epoca attuale, con Internet che permette rapporti istantanei con il resto del mondo.
Eppure, sento nostalgia dei tempi in cui, la sera prima del tramonto, rientrato al campo col fido quattroruote dal lavoro, dopo la doccia e la cena alla mensa prendevo carta e penna, e cominciavo a scrivere ai parenti e amici lontani nel silenzio del mio alloggio.

Attualmente qui a Changde, nella provincia meridionale cinese dell’Hunan, sono l’unico rappresentante della mia società e non ci sono altri occidentali ma non soffro affatto problemi di solitudine. Torno in Italia ogni sei mesi per ferie. Del resto, in Cina mi ci sono sempre trovato bene, sia a Xi’an (capolinea dell’antica “Via della Seta” e patria dei “guerrieri di terracotta”, più volte capitale imperiale e storicamente una delle città più importanti); sia a Changchun (nell’ex Manciuria, con la residenza di Puyi, ultimo imperatore Qing, eletto governatore dello stato del Manchukuo filo-giappone e ricordato da Bertolucci con un suo film); sia a Hohhot, nella Mongolia interna, terra di vaste praterie battute dal vento e sia qui a Changde, nella Cina meridionale, nella Provincia dell’Hunan, patria di Mao Tse-tung.
I Cinesi hanno il geniaccio creativo come noi Italiani e il piacere di riunirsi attorno alla tavola Pure se sono stati “compressi” per ragioni politiche, occorre sperare che questo antico buongusto e creatività insita nei cromosomi possano riemergere e riescano a evitare una innaturale occidentalizzazione globale, mantenendo vive le loro tradizioni. Oggi però, con l’ansia della crescita ad ogni costo, hanno la manìa di cancellare con troppa disinvoltura i ricordi del passato.
Il mese scorso, per esempio, l’antico teatro dell’Opera di Pechino, risalente al 1300, è stato abbattuto per fare posto a moderni edifici nell’ambito dei giochi olimpici “Beijing 2008”. L’antica Pechino, ancora intatta una trentina d’anni fa, è stata completamente demolita (a parte la Città Proibita, il Tempio del Paradiso e altri edifici imperiali) per far posto a moderni grattacieli (che crescono come funghi), sfarzosi ma privi di anima
Le donne cinesi conservano una dolcezza innata e sono spesso graziosissime; vestono con gusto e le si trova piacevolmente dappertutto con i loro modi sempre misurati e affabili.
Quindi, il passare dall’Arabia (dove il guardare troppo una donna o bere del vino può significare passare grossi guai), ad un paese come la Cina, è come trasferirsi da un pianeta ad un altro. Sempre in tema di donne, il rispetto per l’uomo è evidente, in un clima, almeno apparente, di uguaglianza. Uomini e donne (soprattutto i giovani) sono sempre aperti a fare amicizia (la malizia dei nostri modi non è nei loro). Tutti hanno voglia di comunicare; purtroppo pochi parlano inglese ed il mio lavoro debbo svolgerlo con simpatiche ragazze interpreti a fianco.
La cucina cinese è giustamente famosa e con una filosofia completamente diversa da quelle occidentali. Un conto però è andare in Italia ad un ristorante cinese una volta al mese e mangiare qui in Cina seguendo i binari già predisposti per i turisti dalle agenzie di viaggio, un altro mangiare tutti i giorni cinese. Si finisce per sognare un pezzetto di parmigiano, un po’ di olio di oliva e del pane.
Comunque, mi ci sono adattato e, a parte qualche specialità esotica tipica che ho dovuto “gustare” durante certi banchetti (scorpioni fritti, serpenti di ogni dimensione, spezzatino di cane; bachi da seta arrostiti, blatte, brodo di topo, ecc.) si trovano piatti squisiti. Per fortuna si trova anche del buon vino.
La ricchezza cresce nelle città ma il gap economico sempre più forte con le campagne sta creando problemi non indifferenti che in futuro potrebbero dare dei grattacapi. E’ da decenni in corso una campagna contro la proliferazione demografica, con limitazione delle nascite ad una per coppia (nelle città); due sono tollerate nelle campagne qualora il primogenito risulti di sesso femminile. Ciò per favorire la presenza di manodopera maschile nei campi.
Crescono i super ricchi, ma gli ammortizzatori sociali sono stati aboliti e ospedali, medicine, cure sono al di là della portata dei più. Per conoscere la Cina vera (almeno, quella che ne rappresenta una bella fetta) occorre abbandonare gli itinerari prestabiliti e inoltrarsi nei vecchi quartieri e mercati; entrare nelle case popolari o nei villaggi rurali. Ma per parlare compiutamente della Cina occorrerebbe dilungarsi a scrivere per giorni.

Se vogliamo parlare invece del “selvatico”, allora dobbiamo dirottare su altri lidi; per esempio, sull’Arabia, della quale conservo tantissimi ricordi indelebili, nonostante le restrizioni che ha comportato il doverci vivere per tanti anni, soprattutto perché sono quelli dei miei primi anni all’estero. Confesso di avere nostalgia del contatto coi suoi panorami biblici, severi e grandiosi, dove davvero chi è in cerca di “selvatichezza” trova ragione per essere soddisfatto.
Nominando l’Arabia si pensa subito ai “ptro-dollari”, a temperature elevate e ad ampie zone desertiche. La maggior parte del territorio è in effetti proprio così, ma ci sono zone particolari, come l’altopiano dell’Asir dove gli inverni sono tutt’altro che caldi, le piogge stagionali monsoniche abbondanti e si incontrano anche foreste di ginepri.
Sull’Asir (che è anche una regione saudita), ad Abha e Al Baha, ho vissuto sei anni a duemila metri di quota e lavorato alla costruzione di due ardite strade di montagna, incomparabili per difficoltà di progettazione e realizzazione (gli Americani dicevano che non sarebbe stato possibile costruirle ma io, a distanza di vent’anni dal completamento, le ho percorse di nuovo più volte e le ho trovate ancora in ottime condizioni). Sull’altopiano, d’inverno occorreva mettere i riscaldamenti al massimo, vivendo tra le nebbie (erano in realtà nuvole) come in Val Padana.
Ma nella mia esperienza d’Arabia c’èrano anche l’incomparabile rif corallino del Mar Rosso; c’erano le dune rosse del deserto del Dahna (non lontano da Riyadh) fra il Nafud e il Rub’ Al Khali e le impervie montagne ai confini con lo Yemen. E le corse in Land Cruiser lungo strade senza fine scavalcanti monti, pianure e deserti.
Si tratta comunque di un paese molto difficile da accostare e ci si può entrare solo per lavoro, o , come di recente, rientrando in selezionati gruppi turistici e seguendo vie già programmate, con le donne, anche occidentali, obbligate comunque a coprirsi con la nera abayah. Eppure, averci potuto vivere più di dieci anni mi ha dato modo di provare sensazioni uniche.
Ma non vorrei dilungarmi troppo: finirei per ricopiare il libro che sto scrivendo (ormai da 10 anni, nei momenti liberi) anche se in esso le mie vicende biografiche sono solo lo scheletro portante per parlare soprattutto dell’Arabia dal punto di vista storico e sociale ma anche da quello fisico ambientale e dei suoi rapporti con l’Occidente. Ma, a sua volta, il tutto serve da supporto ad un tentativo di comprensione di ciò che la vita rappresenta e riserva e dei perché cui solo l’intuizione più profonda ha la presunzione di trovare risposte.

In Perù ho vissuto in pratica in ciascuna delle tre fasce che suddividono longitudinalmente quella terra pure affascinante. Costa, sierra e selva. La costa è arida come l’Arabia: ad Ica vi sono dune di sabbia alte come colline. Ho conosciuto anche la sensazione del lavoro a cinquemila metri di quota sulle Ande, ma il periodo più avventuroso (tre mesi) l’ho trascorso nella foresta amazzonica peruana, lungo il Fiume Maranon (che, proseguendo nel suo corso, alla confluenza di un altro fiume diventa Rio delle Amazzoni il quale ha quindi due sorgenti) in ambienti riecheggianti atmosfere di tempi ormai perduti: porti fluviali con baracche in legno e cercatori d’oro in canoa a setacciare ghiaia come nel “Tesoro della Sierra Madre”; uffici per cambiare le pepite in moneta; battelli lungo il fiume per trasportare ogni cosa; toilette mattutina con acqua rigorosamente di pioggia raccolta dalle grondaie; alberghi da frontiera del Far West, con “stanze” ricavate ai lati di un corridoio centrale ponendo, sospese fra un letto e l’altro, delle stuoie separatrici, e un barile in fondo al corridoio con l’acqua per bere e lavarsi; con lucciole grandi come pugni che di notte sembrano lanterne volanti, indios con cerbottane di due metri con la colazione appesa alla cintola (grosse “vedove nere” ancora vive infagottate in larghe foglie d’albero a mò di contenitore); cappa di calore dopo le piogge scroscianti con temperature da serra; camminate lungo piste appena accennate nella selva; vespe, serpenti e formiche velenose, e piccoli insetti che si infilavano sotto i pantaloni, sulle caviglie e procuravano prurito fino a che, la sera, tornando al campo (una missione cristiana evangelica con infermeria che ci aveva concesso una baracca) ci si accorgeva di avere le caviglie coperte di chiazze rosse. Un collega si è dovuto tagliare i jeens con le forbici e cospargere nafta sulle gambe per far cessare, durante il lavoro, il terribile prurito.

Termino con un aneddoto riferiro alla Somalia poiché è in un certo senso anche divertente.
Sono andato in Somalia dopo i primi sei anni d’Arabia, nel 1986. Dovevo raggiungere, come team leader del gruppo tecnico, la cittadina di Garowe, in Migiurtinia, regione sul Corno d’Africa, per la costruzione di una strada lunga 400 chilometri da Garowe a Bosaso, sul Golfo di Aden, finanziata dal Governo italiano.
Debbo qui premettere che da ragazzino (anni ’50) mi piacevano i modellini di aerei della “Mercury”, in metallo pressofuso. Uno di essi era un idrovolante con ali di gabbiano ed elica sul bordo alare posteriore (Piaggio P.136, credo di ricordare). Quello vero risaliva al periodo bellico.
Garowe si raggiungeva di solito dalla capitale somala con piccoli aerei che potevano trasportare al massimo cinque o sei persone. Quando giunsi all’aeroporto di Mogadiscio per imbarcarmi e vidi l’aereo destinatomi, mi venne in mente quel racconto di Paolo Villaggio, con l’episodio della comitiva aziendale che parte per le vacanze programmate con un aereo prenotato e, all’aeroporto, si trova di fronte “un terrificante trimotore Savoia Marchetti!” Ebbene, fu la stessa sensazione che provai io quando, avvicinandomi all’aereo pronto sul piazzale, mi trovai dinnanzi proprio l’immagine familiare del mio modellino, ma in scala “uno sta a uno”! Se 1986 meno 1950 fa trentasei, mi chiesi, allora quel velivolo sta andando da trentasei anni sempre in giro per i cieli? Ma era una paura infondata, almeno così credevo. In effetti l’aereo, pur non essendo molto “planante” (era evidente che senza motori sarebbe andato giù proprio come un sasso) pareva in buone condizioni ed anche piacevole da…guardare. Comunque, lì in Somalia di questi aerei ce n’erano due. Il secondo si trovava a Garowe, mia destinazione di lavoro. .
Ora consentitemi un altro breve passo indietro. Quando andai io, alcuni miei colleghi si trovavano sul posto di lavoro a Garowe già da sei mesi; fra essi l’Ingegnere Residente (praticamente, un direttore ai lavori stabilmente sul campo). Essi mi avrebbero raccontato una storia interessante. Quando erano giunti per la prima volta in Somalia, sei mesi prima, avevano raggiunto Garowe, da Mogadiscio, in macchina (esperienza che in seguito sarebbe stata anche mia). Si trattava di circa 1200 chilometri non proprio riposanti. Partendo da Mogadiscio la mattina ancor prima dell’alba, si poteva raggiungere, con brevi soste intermedie, Garowe prima del tramonto.
Occorreva percorrere dapprima l’antica Strada Imperiale costruita dagli Italiani nel ’36, ancora piena di ricordi del ventennio (cippi con fasci alti due metri ogni 20 chilometri; residenza del Governatore nell’ex Villaggio Duca degli Abruzzi, oggi Jowhar; resti di antichi schiacciasassi usati per costruire ai suoi tempi la rotabile, palazzina del generale Graziani utilizzata durante la Guerra d’ Etiopia, eccetera). Al confine etiopico si doveva lasciare la vecchia rotabile (che proseguiva verso Addis Abeba) e deviare a nord, rimanendo poi costantemente paralleli alla frontiera per centinaia di chilometri, con la strada attraversante una pianura cosparsa di milioni di termitai.
A Galkaio, cittadina ormai a poco più di duecento chilometri da Garowe, occorreva fermarsi per organizzare convogli di veicoli scortati dall’esercito, in quanto la guerra con l’Etipia non si era ufficialmente conclusa e la strada era sottoposta spesso agli attacchi di gruppi armati.
Il convoglio, con al seguito la macchina del residente ed altri colleghi, appena partito fu attaccato con armi pesanti. Un camion fu colpito e il corpo dell’autista fu estratto in pratica col cucchiaio (avrei visto anche io i rottami del camion colpito, al campo di Garowe che dovevo raggiungere).
Il nostro residente, giunto al campo, fece giustamente le rimostranze alla sua società, per la pericolosità dei viaggi in macchina in quelle condizioni.
Fu accontentato e, dopo tre mesi, rientrando egli di nuovo dall’Italia per tornare di nuovo a Garowe, potè raggiungere la sua meta con l’aereo: uno dei due bimotori Piaggio ex idrovolanti già descritti.
Mentre l’aereo si apprestava ad atterrare sull’angusta pista in terra battuta, il residente stava pensando alla pericolosità del precedente viaggio in macchina, confrontato alla tranquillità di quello in aereo che stava per concludersi. In quel momento scoppiò il motore di sinistra.
Fortunatamente le schegge, essendo le eliche spingenti dal retroala, investirono solo il bagagliaio sistemato in coda, senza arrecare danno ai passeggeri, disposti verso prua. Il velivolo riuscì a compiere un atterraggio di fortuna con un solo motore sulla piccola striscia in terra battuta. E lì lo trovai quando atterrai io con il secondo aereo dello stesso tipo.
Quel velivolo era stato rimotorizzato con motori americani che, in quegli anni, avevano avuto problemi analoghi in altre parti del mondo.
A Garowe incontrai un mio concittadino, Franco, un geometra anche lui in odore di selvatico.
Terminata l’Accademia Navale, aveva in seguito lasciato la Marina e optato per un lavoro all’estero e ci incontrammo proprio in Somalia.
Debbo ora dire che, terminato il lavoro in Corno d’Africa, dal 1988 al ’90 fui impegnato a Mogadiscio. Però già nel 1989 la situazione nel paese era divenuta difficile per gli stranieri residenti, a causa dell’aumento degli episodi di guerriglia (Mogadiscio era quasi circondata dagli insorti), dei delitti e degli scontri a fuoco anche in città (da uno di questi mi salvai spingendo a tavoletta il LandRover finchè raggiunsi una via trasversale per sfuggire alle pallottole).
Allora lavoravo ad un progetto finanziato dalla CEE e che prevedeva la costruzione di alcuni ponti ad uso di villaggi agricoli ma alcuni di questi si trovavano a qualche centinaio di chilometri dalla capitale somala. Uno era a Gelib, attraverso il fiume Giuba. Gelib si trova circa 350 chilometri a sud di Mogadiscio, lungo la strada per Kisimayo. Circa cinquanta chilometri prima, la rotabile taglia l’Equatore, come indicato da un vecchio monumento con caposaldo topografico ai lati della carreggiata. Gelib venne infine a trovarsi in piena zona di guerra in cui il ponte costituiva proprio uno degli obiettivi principali.
Il ministro dei trasporti era allora il genero di Siad Barre (soprannominato “Morgan”) avente anche la funzione di capo delle forze armate del dittatore somalo; spesso dovevo accompagnarlo quando andava a visitare opere in costruzione. Il problema era che si trattava anche del “Numero Uno” sulla lista degli obiettivi degli insorti e ciò non era poi motivo di spensieratezza durante le escursioni con lui.
Con il crescere della tensione la CEE chiuse tutti i lavori, così, nel 1990, quando questa precipitò, dopo che erano accaduti altri brutti episodi che mi coinvolsero anche direttamente, io potei tornare in Italia con mia moglie e la bambina piccola. Il mio amico invece, a quel tempo lavorava per una società locale e rimase qualche altro mese, fino a che gli Italiani dovettero essere sgomberati. Quel giorno, proprio mentre si avviava alle zone di raduno previste dai piani di evacuazione, incappò in uno scontro a fuoco e si trovò isolato dai gruppi di profughi italiani e somali che dovevano imbarcarsi sugli elicotteri per raggiungere le navi in attesa al largo e dovette rifugiarsi in un ospedale nei pressi.
Si trattava di un vecchio ospedale quasi in disuso che conoscevo: la “camera operatoria” con le lucertole e le mosche, il banco di marmo per le operazioni, con gli sgocciolatoi incisi sulla pietra intasati di sangue disseccato e fuori, d’avanti alla porta, le grezze pietre delle tombe infisse sul terreno alla maniera musulmana.
All’interno, con ammirevole abnegazione, un dottore somalo stava operando un ferito mentre raffiche di mitragliatrice pesante sbrecciavano i muri. Così il mio amico si prestò ad aiutare a mettere la mano sul ventre del paziente disteso sul tavolato di marmo per spingere in dentro le viscere che ne erano fuoriuscite a causa di una scheggia. Poi riuscì avventurosamente a raggiungere uno degli elicotteri e, infine, l’Italia con una nave della Marina Militare. Fu fra gli ultimi che abbandonarono la Somalia, destinata ad entrare in un periodo molto buio della propria storia.
Sempre inquieto e travagliato da problemi, Franco tornò in Africa da solo, alla ventura. Lì morì di cancro, pochi anni fa. Era un accanito fumatore. La sua tomba si trova da qualche parte in Uganda. Nessuno sa dove.

E’ ora che chiuda e spero di non essere stato troppo noioso.
Di episodi legati alle mie esperienze di lavoro e di vita all’estero (e delle sensazioni particolari vissute) potrei raccontare per mesi. C’è però una cosa che forse potrebbe essere importante conoscere, ossia come sia maturata gradualmente, nel mio caso e partendo dall’infanzia, la voglia di varcare la linea dell’orizzonte per andare a veder “al di là” di esso. Se può interessare, sarò ben lieto di inviare le mie note.
Sono tratte dal prologo del manoscritto che vado complilando, a cui però non voglio fare alcuna pubblicità, tanto, chissà quando lo finirò.

Luigi Farinelli

[06 giugno 2007]