Omofobia e maschiofobia

Sulla lettera di Mons. Scatizzi al comune di Pistoia e sul commento di F. Merlo su Repubblica

I fatti sono noti. Il 18 Luglio, il vescovo di Pistoia Mons. Simone Scatizzi, in seguito alla decisione del Comune di istituire un registro delle unioni civili, scrive al Consiglio Comunale della città una lettera di disapprovazione dai toni molto fermi. (www.totustuus.it) .
Per mons. Scatizzi l’omosessualità , a parte una piccolissima minoranza per motivi di DNA, è il prodotto di un contesto socioculturale che la incentiva fino ad esaltarla, e si inquadra in una generale femminilizzazione della società che tende all’omologazione fra maschio e femmina, e che, negando la differenza di genere , penalizza in realtà l’identità maschile. Il fenomeno nasce dalla carenza di modelli autorevoli e credibili, dall’assenza o insignificanza della figura paterna, dal passaggio pressoché integrale dell’educazione in mani femminili. Ne sono sintomi l’infertilità, il consumo crescente di droghe e alcolici, l’eccessiva cura del corpo e di cosmetici da parte degli uomini, nonché naturalmente l’aumento dell’omosessualità.
Il registro delle Unioni Civili, e a maggior ragione i futuri Pacs per non parlare di leggi di tipo zapateriano, sono negative nel senso che non solo accettano certi comportamenti, ma li consolidano agli occhi della gente, conferendo loro una patente di normalità. Il pericolo è soprattutto per i ragazzi in età preadolescenziale o adolescenziale, perché in questo modo non li si aiuta a superare tutti gli stadi dello sviluppo psichico, ma si considera indifferente la fissazione della personalità ai suoi stadi iniziali, uno dei quali è appunto la fase “omosessuale” dell’adolescente. Queste leggi, secondo Mons. Scatizzi, rifiutano e inquinano la realtà naturale che si fonda sulla diversità e complementarietà di genere e saranno ulteriore fattore di crisi della virilità.
Scrive ad un certo punto il prelato: “Se il criterio è quello di regolarsi sulla domanda di una minoranza, a quando il consenso per la pedofilia, le organizzazioni mafiose, il terrorismo come rivendicazione, la violenza fisica per farsi valere, la guerra preventiva etc?

Senza addentrarmi sul problema delle unioni civili o sul recepimento da parte dello stato di patti economici stipulati fra privati cittadini, penso che mons. Scatizzi abbia sollevato un problema vero, quello della femminilizzazione della società e del deficit identitario maschile, ma che nel caso dell’omosessualità lo abbia declinato in modo dubbio, e comunque sbagliato nel momento in cui sembra equipararla alla pedofilia o ad altri aspetti negativi del mondo moderno.
Sulle cause dell’omosessualità esiste un dibattito teorico che non credo verrà mai risolto definitivamente. La definizione che sembra darne il vescovo di Pistoia, come fissazione della personalità ad uno stadio “immaturo”, se è sostenuta da autorevoli psicanalisti, è tuttavia messa in dubbio da altri e forse, pur cogliendo un aspetto valido per alcuni individui, è contraddetta dalla realtà di altri.
Da non addetto ai lavori, registro il fatto che comportamenti omosessuali sono esistiti da sempre, che nelle società antiche non costituivano un problema almeno finchè la loro diffusione eccessiva non metteva in pericolo la successione delle generazioni, e che la definizione stessa di omosessualità come categoria a sè stante di orientamento sessuale, risale a non più di due secoli fa, in piena ascesa al potere economico e culturale della borghesia.
Credo anche sia problematica l’equazione pura e semplice fra omosessualità e deficit identitario maschile, nel senso che quest’ultimo può benissimo coesistere con forme persino ostentate di eterosessualità (Don Giovanni docet), e, viceversa, la prima manifestarsi in maschi la cui virilità è cristallina, come testimoniano tanti personaggi del passato. “Ma come fanno i marinai………..” era l’incipit di una canzone in cui Lucio Dalla si domandava appunto come essi potessero baciarsi sulla bocca e restare maschi.
Sarebbe semmai da discutere della spettacolarizzazione dell’omosessualità e della sua trasformazione in occasione di consumo e di business, e se questo fenomeno sia anch’esso sintomo di una più generale crisi della modernità.
Ciò detto, femminilizzazione della società e perdita d’identità maschile sono cose reali, realissime. Ne parliamo in altre parti del sito, ne scrive, fra gli altri, C. Risè in “Essere Uomini” e ne “Il maschio selvatico”. Basti qui ricordare ancora una volta che nell’essere umano l’identità di genere non è data soltanto dal corredo biologico, ma è frutto anche di apprendistato e di insegnamento, soprattutto per il maschio alle prese con la separazione e con la rottura della simbiosi con la madre , pur necessaria nella prima infanzia. Il giovane uomo, dunque, necessita di figure maschili adulte che gli trasmettano il sapere di genere e lo accompagnino verso l’acquisizione di una salda identità, compito a cui nessuna buona volontà femminil/materna può presiedere. La scomparsa dell’educatore e la marginalizzazione del padre, mons. Scatizzi ha ragione da vendere, rappresentano un problema epocale per la nostra società. Non è in giuoco il potere sugli altri, ma quello su se stessi, ben più importante.
Di tutto ciò a Francesco Merlo, che il 22 Luglio risponde al Vescovo con un lungo articolo su Repubblica, dal titolo “Quell’Italia maschia rimpianta dal vescovo”, non importa nulla. Convinto, come ha scritto in altre occasioni, che la figura genitoriale davvero importante sia quella materna e che il fallo sia un’appendice un po’ ridicola e sopravvalutata, Merlo attinge copiosamente dal più vieto, banale e scontato stupidario antimaschile del politically correct, scambia continuamente la causa con l’ effetto e attribuisce arbitrariamente a mons. Scatizzi pensieri che non possono essere dedotti dalla sua lettera. Prende le mosse, Merlo, dalla nota conversazione al bar fra tre esponenti di An, in cui pare fossero fatti apprezzamenti non lusinghieri verso Gianfranco Fini, per assimilarla a quanto affermato dal Vescovo e lamentare il ritorno del maschio che “ha da puzzà”. “Anche monsignore rilancia dunque l’odore del maschio, che fu il mito arcaico della peggiore Italia, quella dell’onore e del disonore….. e propone un modello di società maschile da Arabia Saudita….dove le autorità religiose …vietano alla donna anche la guida dell’auto “…. Quei tre maschi al bar …sono gli stessi che piacciono al monsignore di Pistoia, e alla fine, anche a quel partito della psicologia coatta nel quale militano gli stupratori..” che “qualcun altro [Scatizzi, sembra di capire. Ndr], vorrebbe invece simbolicamente mandare a sostituire le insegnati donne, che secondo il Vescovo, difettano di virilità e quindi confondono i generi”.
Per Merlo, paladino delle pari opportunità in politica e convinto che più donne nei posti di potere sarebbero un vantaggio per tutti, il problema non esiste quando si tratta di discutere della sottorappresentazione maschile nel corpo insegnante. Non esiste perché l’identità di genere, in realtà solo quella maschile, sarebbe retaggio di un tempo feroce, quando “non c’era spazio per coltivare altri valori di civiltà, come la cortesia, la dolcezza, la cultura, il pudore, la fragilità, insomma quella gentilezza dei costumi maschili che è la femminilità”.
Ora, a parte che occorre molto coraggio per considerare, oggi, il pudore una virtù femminile, molto disprezzo per il proprio genere per disconoscere il segno maschile della cultura, e molta ipocrisia per esaltare la dolcezza e la fragilità maschile quando nelle donne si esalta il contrario, il fatto è che Merlo non ha capito nulla dell’identità di genere.
Per lui non ci sono alternative, il maschio o è un “caprone”stupratore , oppure è il maschio soft, dolce, fragile, cortese, pudico, gentile, insomma una copia, brutta come tutte le copie, di una femmina d’altronde immaginaria, visti i tempi. Un maschile “civilizzato”, in sostanza rieducato dalla sua primordiale ferocia. Il giornalista si meraviglia anche che il vescovo attribuisca al deficit identitario fenomeni che colpiscono in prevalenza gli uomini, come la tossicodipendenza o l’alcolismo, a cui aggiungerei i suicidi.
Ma da che altro possono derivare se non dal fatto che il maschio non riesce a dare un senso alla propria vita in questo tipo di società? Oppure si pensa che siano tendenze autodistruttive innate, e quindi si considera il maschile intrinsecamente più debole, e quindi inferiore, al femminile?
Non c’è spazio, nel Merlo- pensiero, per un maschile ed un paterno forti, consapevoli di sé, della propria specificità e della propria funzione nella famiglia e nella società e che, proprio per questo non disprezzano affatto il femminile e le donne.
Un maschio ben saldo nella sua identità e soddisfatto di essa non diventa stupratore, come accade anche ad alcuni maschi soft, figure contrarie ma speculari del macho. Non solo, si disinteressa anche del potere e delle sue prebende, e quando la vita lo porta ad esercitare funzioni di comando, le considera un mezzo, non un fine per la propria soddisfazione narcisistica. E sicuramente sente la vocazione dell’aducatore molto più di quanto non faccia adesso.
L’identità, in quanto potere su se stessi, è dunque garanzia e non ostacolo per una società giusta e non oppressiva, a meno di considerare tale qualsiasi forma sociale che preveda una gerarchia.
Merlo, quando tira in ballo i paesi arabi, si ferma a certi aspetti sociologici, e non considera invece che in quell’area, come in gran parte del mondo mediterraneo, domina dal punto di vista psichico l’archetipo della Grande Madre. Ha mai riflettuto sull’idolatria verso la mamma, parallela al disprezzo verso la femmina , di tanti machi? Ha mai riflettuto sulla difesa a spada tratta che tante madri fanno dei loro “pargoli” violentatori? Costoro non sono povere donne sottomesse dal patriarcato, sono donne che esprimono il lato terribile del materno (per fortuna ne esiste anche uno buono), che dà in pasto il “femminile” al figlio maschio pur di tenerlo in suo potere, con ciò castrandolo psichicamente (altro che Caldaroli). Ci rifletta e si renderà conto che le cose sono più complesse di come gli torna comodo rappresentarle, e che quel maschile, che pure esiste, è rimasto allo stadio di “figlio di mamma”, ossia non ha assunto la propria identità di uomo, anche se ha il potere, anche se scopa tante donne.
E dire che qualche giorno dopo, lo stesso Merlo scrive un pezzo in cui mette alla berlina il “familismo” dei nostri “potenti”, dietro ai quali scorge giustamente la longa manu delle mogli/madri, fonte ultima del potere e retaggio di antiche forme di matriarcato, che dunque anche per lui può convivere bene con un machismo tutto di facciata. Anzi, aggiungo, le due cose vanno sempre insieme. Posto però che anche la madre è femmina, e la femmina è (psichicamente) madre, viene allora da domandarsi come il maschile possa affrancarsi da questo stato di dipendenza. Mimetizzandosi dietro l’assunzione di modi d’essere e stili di vita della femminilità, o (ri)costruendo una propria autonoma identità forte, che certo integri quella che Jung definiva “Anima” (nulla a che fare, comunque, con fragilità e cortesia come le definisce Merlo), ma che gli può venir trasmessa (l’identità) solo da un altro uomo? Il punto è questo, e solo questo.
La virilità, continua Merlo in polemica con mons. Scatizzi che peraltro non aveva affermato quanto gli viene attribuito, non è il sesso. Giusto, giustissimo, sennonché è anche vero che dal sesso, inteso come genere, non può nemmeno essere disgiunta . Non esistono donne virili, caso mai “virago”, come non esistono maschi che psichicamente siano completamente femmine, caso mai imitazioni. E le imitazioni, si sa, sono sempre peggiori dell’originale.

Armando Ermini

[04 agosto 2005]