Boscherini. L'ultimo maestro (intervista da Il Giornale, 2002)
Di Stefano Lorenzetto
Da Il Giornale 29 dicembre 2002
Galeotto fu il libro: «Vorrei raccontare cose vere, in modo tale che sembrino inventate, al contrario di De Amicis che racconta cose inventate in modo tale che sembrano vere». E per non essere frainteso, il maestro Maurizio Boscherini ha disegnato sulla copertina del suo libro un fumetto molto realistico che ben raffigura la scuola italiana d’oggi, un capovolgimento dell’iconografia deamicisiana, col direttore didattico che lo rimprovera severo: «Maestro, lei uccide Franti!», la madre che ringrazia per l’ammonizione inflitta al docente e il discolo che ghigna soddisfatto: «Eh, eh... Non siamo mica più ai tempi di Cuore!».
È andata esattamente così: con Franti, l’infame, assolto, e il maestro Perboni, alias Boscherini, condannato. All’esilio. Dopo quasi 30 anni di inappuntabile servizio, lo hanno cacciato proprio dalla scuola elementare Edmondo De Amicis, quando si dice le rivincite del destino. Via da Santa Sofia, località sui contrafforti appenninici della provincia di Forlì-Cesena. Trasferito d’ufficio «per incompatibilità ambientale», ormai sono quattro anni, a Premilcuore, un toponimo un programma, 40 minuti di auto dal suo paese, un’ora e mezzo quando fiocca, tornanti e curve, il Passo delle Forche da valicare, catene da neve e gomme termiche sempre a portata di mano, due stipendi l’anno che se ne vanno in benzina e deperimento auto, ogni mattina pregando Dio che la stagionata Fiat Uno si metta in moto.
Per pubblicare L’ultimo maestro, il libro galeotto, Boscherini, 52 anni, sposato, una figlia, ha scelto un nom de plume, Dernier, giustappunto «ultimo» in francese, e s’è affidato a una casa editrice semiclandestina di Roma, la Beta. Che, anziché versargli un anticipo come usa in casi del genere, gli ha chiesto un inedito contributo pari al 50 per cento delle spese, a fronte del quale, proprio in copertina, sotto la parola Dernier, ha stampato: «Pseudonimo di un maesro in servizio». Un imperdonabile refuso, in gergo tipografico. Un disonorante errore d’ortografia, in gergo magistrale.
È stato per rifarsi almeno in parte degli ingenti costi morali e materiali sopportati che Boscherini ha ingenuamente consegnato copie del libro alle cartolerie di Santa Sofia per la vendita. In tal modo il paese, interessato più alla fiera del maiale grasso che alla produzione editoriale, ha saputo. Apriti cielo! «Questo qui prende in giro noi e i nostri figli», sono insorti gli abitanti, sindaco in testa. Mancava tuttavia la prova regina per mandare al rogo il «diario di un maestro elementare dei nostri giorni» insieme col maestro medesimo: era davvero Dernier l’ultimo maestro? «Ha rimediato un mio ex collega. È venuto a chiedermi di autografargli una copia appena comprata. Figurarsi se potevo immaginare che quella dedica sarebbe diventata il cappio per impiccarmi».
Ma che cosa avrà poi raccontato di tanto scandaloso, l’ingenuo Boscherini-Perboni, nelle 120 pagine dell’Ultimo maestro, nelle quali peraltro s’è premurato di usare sempre e soltanto nomi di fantasia? «Cose vere in modo tale che sembrino inventate», come si legge appunto nell’incipit. Cose assurde accadute in aula, in direzione, nei consigli di classe e d’istituto. A partire dal fatto che le sue 20 colleghe della scuola elementare De Amicis, trasformatesi in persecutrici, avevano il malvezzo di fargli firmare circolari, registri e pagelle sotto la formula «Le insegnanti». Boscherini s’era sentito in obbligo di correggerla con due tratti di biro in «Gli insegnanti», e non tanto per un fatto di marroni, insomma per un comprensibile sussulto di dignità virile, quanto perché è la grammatica a prescrivere, in presenza di due o più soggetti di genere diverso, la prevalenza del maschile sul femminile, regoletta che anche le maestre sarebbero tenute a sapere.
Ma i marroni, a ben vedere, c’entrano eccome. Boscherini-Perboni, specie in via d’estinzione e, a differenza del panda, nemmeno protetta, è persuaso che la progressiva, inesorabile femminilizzazione del sistema scolastico provochi guasti nelle nuove generazioni e sia da annoverare fra le cause principali di crisi della società. Parimenti è convinto, col poeta Ezra Pound, che se un uomo non è disposto ad affrontare qualche rischio per le sue opinioni, significa che o le sue opinioni non valgono niente o non vale niente lui. Infine ritiene che la scuola stia morendo di ipocrazia, ipocrisia più burocrazia, «cioè poco potere, ipo krátos, nel senso di scadimento di autorità».
Sicché, dopo aver incontrato quest’uomo mite e al tempo stesso forte, largamente provvisto di buonsenso e di amore per il suo lavoro, che si considera un educatore e non un impiegato, viene spontaneo sottoscrivere l’appello lanciato dallo psicanalista e scrittore Claudio Risé: «Ministro Letizia Moratti, ecco un consulente su cui contare: Maurizio Boscherini, l’ultimo maestro».
Che ricordi ha della scuola elementare dei suoi tempi?
«Non bellissimi. I miei abitavano a Strabatenza, sull’Appennino. Papà faceva il boscaiolo. Arrivai a Santa Sofia per la terza elementare. Ero il foresto che scendeva dai monti con i calzini e i vestiti rammendati».
E come andava negli studi?
«Imparai a leggere soltanto in seconda. Merito di una maestra che capì il mio disagio. Mi regalò un volume con le lettere di Van Gogh. Devo a quell’incontro l’amore per la scrittura e la pittura».
Perché ha scelto di fare il maestro?
«Per fame. Mio padre morì una settimana dopo che ero partito per il servizio di leva, lasciandoci nei debiti. Un vecchio maestro mi disse: “Perché non ti presenti al concorso magistrale?”. Mi regalò un libro sulle nuove tecniche didattiche di Bruno Ciari, un gigante dell’insegnamento. Mi ci appassionai. Entrai in ruolo a Milano nel ’73. Scuola di via Palmieri, sul Naviglio. La prima classe che mi fu affidata aveva 36 alunni, molti ripetenti e molti provenienti dalle differenziali».
Con Io speriamo che me la cavo il suo collega Marcello D’Orta è diventato milionario. Lei è stato messo al bando. Come se lo spiega?
«D’Orta non ha dato fastidio ai colleghi».
Però ha fatto passare per cretini gli alunni.
«Quello si può fare, non disturba nessuno. Ma i colleghi sono come la De Rica per gatto Silvestro: no, sui colleghi non si può scherzare. D’altronde sentivo dentro di me questa urgenza: scrivere della scuola che va a catafascio. Prima hanno abolito la pagella e inventato la scheda di valutazione. Poi, con i nuovi programmi dell’85 e la riforma del ’90 che ha istituito i famigerati moduli, hanno modificato la scheda tre volte nel giro di tre anni. Quindi l’abolizione del voto: un’assurdità. Nel ’95 sono subentrati i giudizi con le lettere, dalla A alla E. Aboliti anche quelli. Avanti col giudizio sintetico: ottimo, distinto, buono, sufficiente, non sufficiente. E non è ancora finita, vedrà».
Si sente un altro Mastronardi, l’autore del Maestro di Vigevano?
«Sì, con la differenza che io non sono stato scoperto come scrittore da Elio Vittorini. Però il clima ostile che mi hanno creato intorno è lo stesso. Tanto che ho appena buttato giù Il maestro estinto. Nessuno me lo pubblicherà. È la storia della sparizione fisica della figura maschile nella scuola. La fine dell’ultimo maestro. Mi sono ispirato a Bulgakov, l’autore del Maestro e Margherita, il quale prima di suicidarsi inviò un manoscritto a un amico».
Non avrà pensato sul serio di togliersi la vita?
«È un suicidio sublimato. Anche se... Mi hanno massacrato, sa? Sono uscito dalla depressione solo stringendo i denti. Mia moglie ancora soffre. L’hanno terrorizzata. La fermavano per strada e le chiedevano se ero impazzito a causa del caldo estivo. Mi hanno strappato dalla mia terra. Ogni mattina attraverso il ponte sul Bidente, guardo il mio paese e provo un dolore lancinante, perché lo amo e so che saprei dare di più e meglio se insegnassi ancora qui».
Com’è cominciata l’odissea?
«Il Consiglio di circolo e la sua presidente hanno detto che ho parlato male dei bambini. Ma io mi sono limitato a descrivere alcune esperienze didattiche in forma anonima. Sono stati loro a compilare un dossier di 16 pagine, identificando uno per uno i protagonisti del libro. Con nomi e cognomi, capisce? Dopodiché direttore didattico e 14 colleghe mi hanno querelato per diffamazione. Invece di presentare denuncia al maresciallo dei carabinieri di Santa Sofia, un uomo saggio che avrebbe rimesso le cose a posto in quattro e quattr’otto, sono andati a sporgerla a Forlì, dove nessuno mi conosce. È o non è malanimo? E un giorno ti vedi arrivare a casa la camionetta dell’Arma e ti notificano che devi presentarti in caserma per essere interrogato. E il giorno dopo gli stessi militari ti recapitano qualche altro atto giudiziario. Capita ancora adesso, nonostante i miei accusatori poi abbiano ritirato la querela. Ogni volta mia moglie si sente morire».
Ma perché tutto questo odio?
«Forse li infastidiva il mio attivismo. Tenevo corsi di pittura. Per i bambini avevo messo in piedi una compagnia teatrale. Il sabato mattina li aiutavo a fare i compiti a casa mia. D’estate gli davo ripetizioni tre volte la settimana. Tutto gratis».
È già tanto che non l’abbiano fatta passare per pedofilo.
«Ci hanno provato. Mi risulta che si siano persino rivolti senza successo a uno psicologo per far analizzare il libro in controluce e trovarvi eventuali tracce di perversione. Solo perché parlo di un’alunna orfana che alla festa del papà mi portava un regalino. Siccome ho scritto che il mio affetto per questa bambina andava oltre quello filiale, hanno preso l’espressione alla lettera. Ma io intendevo solo dire che l’ho amata più di una figlia. Alla festa dell’Unità hanno esposto un documento in cui il direttore didattico mi dava del reprobo e chiedeva scusa alla popolazione a nome mio. In seguito questo signore è diventato vicesindaco nella Giunta di sinistra. Del resto uno dei maestri che mi ha denunciato era il sindaco. La presidente del Consiglio di circolo è arrivata al punto di scrivere al provveditore lamentando che non fossi stato punito più severamente, cioè licenziato, dal momento che per i bambini io ero “il mostro”. Scritto nero su bianco».
Davvero mostruoso.
«Il medico condotto teneva esposti alcuni miei quadri in sala d’aspetto. Un giorno mi telefona affranto: una tela era stata tagliata, una bruciacchiata, su un’altra avevano scritto “mostro” con la vernice indelebile. Il primo giorno dell’anno scolastico è stata addirittura cancellata la sfilata degli alunni per le vie del paese. Motivi di ordine pubblico. Le maestre avevano scritto al direttore che non potevano presentarsi in pubblico con me».
Deve proprio averle fatte infuriare.
«Se la sono legata al dito perché ho preso in giro il Pei, progetto educativo individualizzato, scrivendo che la scuola va di male in Pei. Corsi d’aggiornamento inutili per riscuotere incentivi economici e salire il cosiddetto “gradone” della carriera. Adesso siamo già passati al Pof, piano di offerta formativa».
Perché non s’è rivolto alla magistratura?
«Ho presentato ricorso al Tar, che ha rinviato al pretore del lavoro di Forlì. Undici maestre si sono costituite parte civile. Il pretore ha rigettato il ricorso. Allora ho presentato reclamo al tribunale. Respinto. Da tre giudici donne, guarda caso. Hanno motivato la decisione col fatto che sussiste lo strepitus, il clamore sociale, ed era inopportuno che io insegnassi agli stessi alunni denigrati. Con ciò hanno dimostrato di non aver neppure letto il libro, visto che i medesimi erano ormai passati alla scuola media da due o tre anni. M’è costata una decina di milioni in avvocati. Una rovina».
Nessuno ha preso le sue difese?
«Solo Giorgio Lotti, un maestro che nemmeno conoscevo. Per solidarietà ha fatto uno sciopero della fame di 12 giorni, perdendo sei chili di peso. Oggi vive ad Arezzo ma allora insegnava nella scuola di Premilcuore, dove poi, forse per la pena del contrappasso, mi hanno esiliato».
Come ci si trova?
«Bene. Ho una pluriclasse, seconda e terza, 18 alunni, molti extracomunitari. I genitori sono gentili».
Colleghi maschi ne ha?
«No, su sette insegnanti l’unico uomo sono io. Ma siccome ho l’incarico di fiduciario, ora in calce alle circolari posso scrivere “Gli insegnanti”».
Non ha fatto domanda per essere ritrasferito a Santa Sofia?
«Tutti gli anni. E tutti gli anni dal provveditorato mi arriva la stessa risposta: “La sua domanda non può essere presa in considerazione in quanto perdura l’incompatibilità ambientale”».
E chi lo stabilisce?
«Ah, questo non si può sapere. In pratica è come se mi avessero condannato all’ergastolo».
Scriva al ministro dell’Istruzione.
«Fatto. Avevo mandato una lettera a Berlinguer. Non mi ha neppure risposto. Un maestro in pensione, Mario Catastini, autore dell’Enciclopedia di Fucecchio, il paese di Indro Montanelli, ha spedito appelli in mia difesa a mezzo mondo. Senza risultato».
Tornasse De Amicis, secondo lei riuscirebbe a riscrivere Cuore?
«No, perché, come diceva proprio Montanelli, oggi viviamo nell’Italia dei Franti, dove l’infame non è l’alunno indisciplinato bensì il maestro scrupoloso. Lo sgobbone, il secchione è disprezzato. A scuola e anche a casa. Del resto, scusi, non cominciò Umberto Eco nel ’63 scrivendo l’Elogio di Franti?».
Che differenza c’è fra lei e il maestro Perboni di Cuore?
«Poca. Ho ancora la struttura mentale dell’educatore missionario. Le famiglie preferiscono l’impiegato burocrate».
Fra le sue colleghe non ha certo trovato la maestrina dalla penna rossa...
«No, purtroppo. Mi chiamavano spregiativamente il Pestalozzi, perché secondo loro imitavo il pedagogista svizzero. In effetti durante la ricreazione ho sempre preferito giocare con i bambini piuttosto che far crocchio con le maestre che spettegolano o confrontano i prezzi dei supermercati».
Come sono gli scolari di oggi?
«Non diversi da quelli di una volta. Sono diversi i genitori, che li condizionano. Bisognerebbe far tornare alle elementari i papà e le mamme».
Di che condizionamenti parla?
«Massimo dei voti con la minor fatica. È la pedagogia dello sforzo zero. Poco lavoro in classe, pochi compiti a casa. In compenso tanta televisione. Cioè tempo prezioso sottratto alla lettura e alle attività creative».
Che materie introdurrebbe nei programmi?
«Il dialetto, il recupero delle tradizioni. Invece c’è questo andazzo generale di anglofilia. Cominciano con Halloween e il tacchino del Ringraziamento fin dalla scuola materna. Abbiamo smarrito le nostre radici. Diventeremo tutti americani».
Nostalgia per i voti?
«Mai usati. Preferivo dare “bravo” e “bene”. Il giudizio “non sufficiente” i bambini lo accettano, i genitori no. Ti contestano. Io penso invece che se hai coscienza delle tue difficoltà fin da piccolo, trovi lo sprone a superarle. Altrimenti, quando diventi ragazzone, non ti accetti: ti spari».
E per i giudizi come si regola?
«Ma lei lo sa che c’è in commercio un programma per computer che in automatico compila i giudizi sulle schede di valutazione quadrimestrali?».
Con quali appropriate parole comunicherebbe ai genitori la ferale notizia che il loro figliolo non è una cima?
«Non riesce ancora a stabilire relazioni tra le conoscenze».
E che non sa scrivere?
«Parziali le capacità di simbolizzazione e comunicazione».
E che non sa leggere?
«Non glielo puoi proprio comunicare. In seconda faccio una prova di lettura una volta al mese, con il metodo dello psicologo Guido Petter, massimo studioso dell’età evolutiva: conto le parole, tolgo quelle sbagliate e cronometro il tempo. Be’, non sempre me la sento di informare dell’esito i genitori».
Non resta che la bocciatura.
«Scherza? Bocciare è vietato. Chi boccia è un cattivo maestro. Nella scuola dell’obbligo e dei bei voti la promozione è obbligatoria. E poi non è più il singolo maestro che può bocciare. Bisogna mettere d’accordo tutti i colleghi. Riunioni interminabili. Alla fine vanno presentate due relazioni dettagliate al direttore didattico e al Consiglio d’interclasse. Nessun maestro ha tempo e voglia di mettersi a redigerle: troppa fatica. Quindi meglio promuovere. Anche perché i genitori impugnano la bocciatura davanti al Tar. Per cui devi aver messo da parte le prove in classe e i vecchi quaderni che documentano le carenze dell’alunno. E chi lo fa?».
Chi ha burocratizzato la scuola?
«La china demagogica è stata imboccata nel ’74 con i decreti delegati. Una deriva sessantottina. Il consumismo ha fatto il resto. Questo è il tempo dell’esteriorità. L’interiorità non vale nulla. I valori di riferimento sono i soldi e il sesso. Chi trova godimento nella lettura e nell’arte? Anzi, la gente è incoraggiata a vantarsi in pubblico della propria ignoranza. Lo studio è considerato una perdita di tempo. Mio padre mi ripeteva in continuazione: “Studia, o farai la mia fine”. Oggi il bambino è terra di tutti e quindi di nessuno: un podere incolto su cui spuntano erbe cattive».
Perché sono spariti gli uomini dalla scuola?
«Una maestra può stare in graduatoria anche 15 anni. Ho colleghe di 50 anni che aspettano ancora di entrare in ruolo. Il maestro che deve metter su famiglia ha bisogno della sicurezza del posto. E sorvoliamo sullo stipendio: alla mia età prendo 2 milioni e 300mila lire al mese».
La femminilizzazione dell’insegnamento che guai comporta?
«Il maestro pretende, la maestra tollera. Nella famiglia tradizionale la mamma era dolce e il papà severo. Adesso c’è il mammo, che ha preso il posto del babbo. La donna s’è indurita, l’uomo intenerito. Più che un babbo, un babbeo. I genitori non sanno educare. La famiglia è scoppiata, plof!, non esiste più. Gli alunni danno del tu al maestro, non lo salutano, non obbediscono, gli ridono in faccia. Non chiedono mai scusa, non dicono mai grazie».
Pietà!
«Ieri a mezzogiorno, mentre mangiavamo in mensa, gli scolari mi recitavano le poesie. La cuoca mi ha redarguito agitando il mestolo: “Ma come? Li tormenta anche a pranzo?”».